Umbria Jazz 2018 Quarantacinquesima Edizione Perugia, 13-22 luglio di Aldo Gianolio foto di Elena Carminati
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Cominciamo dalla fine, cioè dalla conferenza stampa tenuta domenica
22 luglio all'hotel Brufani di Perugia: Umbria Jazz 2018, nella sua quarantacinquesima
edizione, è fra quelle che ha avuto maggior successo, con un milione e quattrocentocinquantamila
euro di incasso da biglietti e merchandising, circa trentacinquemila paganti e tre
milioni di persone che hanno seguito su Facebook, Instagram e Twitter i concerti
nei dieci giorni di programmazione, dal 13 al 22 luglio (quelli a pagamento all'Arena
Santa Giuliana, al Teatro Morlacchi e alla Sala Podiani della Galleria Nazionale
dell'Umbria; quelli gratuiti nelle piazze Carducci e IV Novembre, all'Umbrò - una
novità -, e in vari punti di ristoro, come il Ristorante la Taverna, la Bottega
del Vino e il Ristorante da Cesarino, nel quale ultimo ogni notte si è andati avanti
con jam session fino alle ore piccole); insomma, per dimensioni, varietà e qualità,
uno dei tre maggiori festival jazz del mondo, assieme a quelli di Montreaux e di
Montreal. Nella conferenza stampa, oltre a ricordare giustamente l'importanza delle
Umbria Jazz Clinics, che si svolgono da trentatré anni con grande successo in collaborazione
con il Berklee College of Music di Boston, si è data la bella notizia che nella
prossima edizione saranno con buone probabilità riaperti vecchi storici luoghi per
i concerti: i teatri Turreno e Pavone e la Chiesa sconsacrata di San Francesco al
Prato.
Centinaia sono stati gli eventi succedutisi nei dieci
giorni del festival, così nel nostro rendiconto necessariamente succinto ci concentreremo
sui maggiori e su quelli che più ci hanno colpito fra quelli che siamo riusciti
a seguire (per esempio, già siamo mancati allo spettacolo inaugurale "I Caraviaggianti",
lavoro multimediale in cui musica - di
Rita Marcotulli
-, parole - di Stefano Benni - e immagini hanno concorso con - ci hanno riferito
- bella efficacia, a creare visioni e suggestioni attorno alla figura e ai capolavori
del Caravaggio). A quelli extra-jazz (di pop e rock), proprio solo qualche accenno.
Per primo "American Utopia" di David Byrne, spettacolo nel senso ampio del termine
perché la performance è andata oltre il semplice concerto musicale, essendoci stati
una coreografia, una scenografia e un balletto; Byrne ha affascinato con alcuni
dei successi suoi e dei Talking Heads messi in congruente sequela, accompagnato
da dodici musicisti/ballerini con gli strumenti a tracolla (senza fili) in perfette
movenze simil-meccaniche e/o simil-tribali, riprendendo un po' certe idee di Robert
Wilson e di Pina Bausch, con scenografia semplice ma suggestiva e giochi di luci
e ombre perfettamente calibrate (e uno spettacolare set di percussionisti). Poi
i Massive Attack, che hanno tenuto inchiodato il numerosissimo pubblico nonostante
il diluvio che si è abbattuto sulla città. Meno gente c'è stata per The Chainsmokers
(contro le previsioni, essendo un gruppo molto seguito dai giovani) e buoni
successi hanno avuto i vari Somi, Benjamin Clementine e
Mario Biondi.
Ma è la musica brasiliana che, in questo territorio non-jazz, ha avuto maggior spazio.
Grossi i nomi: Gilberto Gil che ha celebrato con gioiosa festività i quarant'anni
dalla incisione del suo celebre disco "Refavela", african-oriented; Margareth
Menezes e il suo struggente samba colorato di reggae;
Caetano
Veloso che si è presentato con tre suoi figli (Moreno, Zeca e Tom) che,
pur bravi, non raggiungono le vette espressive del padre, mentre lui, da solo, in
alcune interpretazioni è arrivato all'apice della propria lirica espressiva, commuovendo.
Profondo, emozionante, concentrato e intenso anche il concerto del pianista
Stefano
Bollani, che ha presentato il suo ultimo disco, "Que Bom", dedicato
al Brasile, con brani da lui composti, anche cantati, accompagnato da contrabbasso,
batteria e due percussioni che hanno lavorato di fino, restituendoci una musica
sentita e cesellata, piena di sottigliezze e forza (poli)ritmica. Oltre che all'Arena
Santa Giuliana, c'è stato altro Brasile all'Umbrò, dove tutti i giorni per un'intera
settimana si sono esibiti in concerti gratuiti due formidabili duetti: da una parte
la virtuosa del clarinetto Anat Cohen e il chitarrista (a sette corde)
Marcelo Gonçalves, che hanno interpretato, arrangiando per chitarra, con certosina
sapienza, la complessità delle partiture orchestrali originali, composizioni di
Moacir Santos; dall'altra il virtuoso della chitarra (sempre a sette corde) Yamandu
Costa, accompagnato dalla chitarra basso di Guto Wirtti, che ha giocato
con esplosiva espressività e sbalorditiva tecnica su ritmi di danza di alcuni classici
brani brasiliani e dei paesi dell'America del Sud (samba, valzer, tango e chamamé),
sempre con senso dell'umorismo e gusto dell'autoironia.
Per quello che riguarda più specificamente il jazz, all'Arena Santa Giuliana erano
in programma altri "pezzi grossi" (per riempire quella grande platea, occorre appunto
il richiamo di pezzi grossi). Quincy Jones ha avuto una ben organizzata e
ricchissima celebrazione per i suoi 85 anni, con molti ospiti (Dee
Dee Bridgewater, Noa, Patti Austin,
Take Six,
Ivan Lins,
Paolo Fresu)
e con una perfettamente funzionante orchestra di giovani, la neonata Umbria Jazz
Orchestra, per l'occasione diretta da John Clayton e, in un paio di brani
finali, dallo stesso Quincy Jones che, per tutto il tempo, se n'era stato
in disparte, seduto su una poltroncina, a godersi la festa, ogni tanto intervistato
dal presentatore
Nick
the Nightfly. Alla "leggenda delle leggende", come l'ha chiamato
Tony Renis salito a sorpresa sul palco, è stato consegnato dal fondatore e direttore
artistico del festival Carlo Pagnotta, il primo "Umbria Jazz Award".
L'Umbria Jazz Orchestra è stata anche protagonista, nell'ultima serata della rassegna,
accompagnando sontuosamente Gregory Porter e la musica di Nat King Cole,
interpretata con maestria e feeling adeguato dal cantante (sul palco preceduto da
Melody Gardot, dalla voce calda e suadente, ma non al punto da entusiasmare).
Il chitarrista Pat Metheny, con un sopraffino quartetto funzionale e rodato (al
contrabbasso Linda May Han Oh, alla batteria Antonio Sanchez e al
piano Gwilym Simcock), dopo tanti concerti indirizzati verso world music,
folk e pop un po' anodini, ha finalmente tirato fuori le unghie del jazzista "puro",
facendo vedere i sorci verdi (era stato preceduto dal ben rodato ed energico quintetto
hard bop del contrabbassista Kyle Eastwood, figlio del celeberrimo regista).
Fra i numerosi concerti (questi tutti di vero e proprio jazz) al Teatro Morlacchi,
ha eccelso quello del sestetto del pianista indiano-americano Vijay Iyer,
composto da Mark Shim al tenore, Steve Lehman al contralto, Graham
Haynes alla tromba ed elettronica, Stephan Crump al contrabbasso e
Jeremy Dutton alla batteria (che, rispetto al disco "Far From Over", edito dalla
Ecm, ha preso il posto di Tyshawn Sorey): uno dei più bei concerti non solo di Umbria
Jazz, ma di tutti quelli dati nell'ultimo anno in Italia. Con il sestetto Iyer,
rispetto al trio, dà ancora più sfogo alla sua innervante inesausta fantasia di
compositore attraverso la complicatezza dei continui incastri poliritmici e polimetrici
derivati da intrecci di incalzanti figurazioni che viaggiano su ondulati territori
politonali; Iyer pare avere individuato il punto che unisce e divide la forma e
l'informale, mai però inoltrandosi nell'informale, muovendo tutto l'insieme attraverso
varie temperate complessità, densità e trasparenze armoniche che fa incrociare a
serrati lucidi melodismi. Il suono del suo piano, preciso, scuro e pulito, il suo
accompagnamento inquieto (spesso in accordi ripetuti come in un alfabeto morse,
o turbolenti come in un maelstrom, o distesi come a veleggiare nel mare aperto),
la sua improvvisazione, densamente elucubrata, tessono con le simultanee elocuzioni
dei compagni (organizzati in sezione o lasciati liberi per potenti intricati assolo,
spesso procedendo insieme contrappuntando) una fitta rete di fili, di diverse lunghezze
e colori, che rendono la musica, pur nella sua deflagrante imprevedibilità, un tutt'uno
compatto e sincrono, irradiando irrequieta energia.
Al Morlacchi altri gruppi si sono distinti per bellezza e/o potenza e/o finezza
espressive. Il Devil Quartet di
Paolo Fresu,
con Bebo Ferra
alla chitarra,
Paolino
Dalla Porta al contrabbasso e
Stefano Bagnoli
alla batteria, si è convertito completamente all'acustico (Bagnoli addirittura ha
suonato esclusivamente con le spazzole), creando una calda atmosfera ricca di umori
diversi, eterogenea negli stimoli e nelle suggestioni, ma coerente nella messa in
atto di olimpica nitidezza. I
Take Six
hanno eseguito con maestria le loro consuete suadenti polifonie vocali piene di
swing. Roy Hargrove ha sciorinato ardente hard bop con un quintetto vigoroso.
Il progetto "Lumina" ha evidenziato le doti della cantante Carla Casarano,
che ha giostrato la voce con diverse formazioni comprendenti i bravissimi Leila
Shirvani al violoncello,
Marco Bardoscia
al contrabbasso, William Greco al pianoforte ed
Emanuele
Maniscalco alla batteria, con musica di prevalente impronta cameristica
dalle linee distese e limpide e piena di opposizioni di dinamiche.
Kurt Elling,
con un quintetto forte di uno dei trombettisti giovani più validi, Marquis Hill,
dalla voce limpida e squisitamente cristallina, ha attestato di arrotondare e lucidare
sempre più la propria voce baritonale dai toni chiaroscurali, raggiungendo senza
sbavature la perfezione formale. Il tenor sassofonista
Emanuele
Cisi ha reso con suadente sensibilità e rigogliosa eleganza un omaggio
a Lester Young in un tutt'uno coeso con i compagni
Dino Rubino
(tromba e piano), Rosario Bonaccorso (contrabbasso) e Adam Pache (batteria).
Il settantasettenne Billy Hart ha fatto vedere come, suonando la batteria
"alla vecchia" (che è poi una delle maniere derivative da Max Roach, a cui ha fatto
di quando in quando precisi omaggi stilistici), quindi anche tirando improvvise
"lecche" a sottolineare i principali passaggi e per dare propulsione, si possa ugualmente
in modo magnifico sostenere il solismo di giovani moderni, agili ed esuberanti come
lo sono Joshua Redman, arzigogolato e insinuante col suo sax tenore, ed
Ethan Iverson, sofisticato e sbieco col suo piano (al contrabbasso era
Ben Street).
Una bella figura ha fatto la Moscow Jazz Orchestra diretta dal tenor sassofonista
Igor Butman, piena di swing, di brio, di dinamismo e con perfetta padronanza
dei fondamentali orchestrali; come del resto non ha deluso, ma nemmeno ha destato
sorprese, la Mingus Big Band, che ha riproposto, in parte ri-arrangiando,
alcuni cavalli di battaglia che furono del grande contrabbassista e compositore
morto nel 1979 e di cui con perizia e vitalità tramanda l'opera. Sempre al Morlacchi
si sono distinti due ottimi gruppi italiani: il "Not A What", che vede la
collaborazione fra il trombettista
Fabrizio Bosso
e il pianista Giovanni Guidi, con il tenorista Aaron Djuan Burnett,
il contrabbassista Dezron Douglas e il batterista Joe Dyson, sulla
carta stilisticamente antitetici, ma che poi hanno trovato con sapienza un eccellente
accordo, l'uno andando incontro (e aprendosi) all'altro, ricamando un hard bop avanzato
che si è evoluto in collettivi stratificati quasi free; e "The Italian Trio",
con Dado
Moroni al piano, Rosario Bonaccorso al contrabbasso e
Roberto
Gatto alla batteria, una all-star di stampo mainstream con aperture
al pop (e anche alcune canzoni cantate), brillante e affermativo con qualche parentesi
di estasi elegiaca.
Alla Sala Podiani della Galleria Nazionale dell'Umbria sono stati presentati i concerti
di mezzogiorno per soli e piccole formazioni. Stefano Battaglia, al piano
solo, si è disperso (nel senso che è sembrato disperdersi, perché di fatto aveva
in ogni momento il controllo pieno della situazione) in atmosfere di calibratissima
e finissima fattura, librate in aria ogni tanto passate da vaghi richiami mediorientali
o balcanici, costruendo una lunga unica suite dove hanno prevalso i dettagli, le
iterazioni di note, i timbri ricercati, i tratti percussivi, gli accordi indagati
con lavoro di scavo delicatamente incalzante.
Il duo Gianluca Petrella
- Pasquale Mirra è sembrato ricalcare, nell'intelaiatura, il gruppo (di Petrella)
New Cosmic Renaissance, con il vibrafono, le percussioni e l'elettronica di Mirra
che ha preso il posto della ritmica (Ponticelli, Padovani e Scettri) attraverso
un amalgama di suoni intricati, sfavillanti o scuri, e complicati poliritmi, un
amalgama che sale in primo piano per poi tornare in sottofondo, si dilata e si contrae
in un sommovimento continuo vagamente meccanico e reiterato; sopra il quale amalgama
il trombone di Petrella (qui, rispetto alla Cosmic, senza il trombettista Rubegni)
espone temi (alcuni di Don Cherry, poi di Mingus e Tristano) contratti a riff o
distesi in melodie più articolate, per poi uscire in assolo di magnifica forza e
vigore, facendo esplodere suoni potenti (alla Rudd), alternando agili fraseggi (alla
J.J. Johnson) con altri scarni ed essenziali (alla J.C. Higginbotham), in un esaltante
connubio musicale con il compagno.
Non abbiamo potuto partecipare alla performance di
Gianni Coscia,
che, ci hanno riferito, si è tradotta in una vera e propria conferenza-concerto
in cui il fisarmonicista con tono confidenziale, riflessivo e moderatamente nostalgico,
e con grande sottile ironia, ha rievocato la sua amicizia con Umberto Eco, traducendo
in musica il percorso storico e autobiografico di "La misteriosa fiamma della
regina Loana", romanzo di Eco in cui uno dei personaggi è ispirato appunto a
Coscia.
Ethan Iverson, al piano solo, ha ripercorso, in vari brani espressamene dedicati,
molti stili del jazz, dallo stride al bop, dal classicheggiante al free, dal boogie
al modale, sempre mantenendo senza sbavature, e a tratti sciorinando addirittura
una tecnica art-tatumiana, il suo personale ben delineato approccio stilistico,
ricco armonicamente e altamente risonante.
Il quartetto Band'Uniòn, del bandoneonista
Daniele
Di Bonaventura, con Marcello Peghin alla chitarra, Felice
Del Gaudio al contrabbasso e Alfredo Laviano alle percussioni, ha unito
idealmente, con un repertorio eterogeneo, l'America del Sud e le regioni attorno
al Mediterraneo attraverso un alto magistero strumentale e una sentita passione
venata di una velata melanconia e pervasa da una disarmante tenerezza.
Il gruppo "Ghost", composto da quattro fiati (il leader Dan Kinzelman
al tenore e flauto, Mirco Rubegni alla tromba, Manuele Morbidini al
contralto, Rossano Emili al baritono e clarinetto basso), ha eseguito una
musica più scritta che improvvisata, senza eclatanti afflati passionali, policroma
nelle implicazioni stilistiche e di mood, passando dalla contemplazione alla agitazione,
dalla banda di paese al minimalismo concettualistico.
Invece, tutta passione (o, almeno, passione preponderante, perché la maestria tecnica,
seppur coperta dall'esuberanza espressiva, ha alla pari costituito l'asse portante
della musica) è stata la performance del duo costituito da
Antonello
Salis alla fisarmonica e al piano e Simone Zanchini alla fisarmonica:
i due erano talmente presi, coinvolti, rapiti dal loro fare musicale da rendere
evidente che la loro arte è, senza mezzi termini, diretta emanazione della loro
vita, e che "loro" sono "la loro arte" e "la loro arte" è "loro"; ed è proprio questo
assunto di autenticità che trasmettono con il loro vorticoso e passionale suonare,
emozionando con un visionario espressionismo traboccante invenzioni, fantasia ed
estro.
Con il trio formato da Francesco Diodati, chitarra, Francesco Ponticelli,
contrabbasso, e Filippo Vignato, trombone, si è passati a una musica più
tranquilla, più ordinata, a tratti impressionistica, accorta a far emergere ogni
sfumatura e attenta a far risaltare ogni passaggio cantabile e ogni preziosità armonica,
con delicato e posato gusto.
L'ultimo concerto in programma alla Sala Podiani, quello di
Danilo
Rea al piano solo, ha avuto bisogno di una replica nel pomeriggio per
la grande richiesta di biglietti: Rea continua ad avere questa popolarità per il
suo sapere coniugare, nel suo splendido fare jazz, la complessità con la immediata
comunicazione, la tecnica con il sentimento, l'esplorazione lontana dai territori
battuti e il subitaneo ritrovamento di strade ben conosciute, il tutto attraverso
un repertorio ampio e pluri-genere, che abbraccia standard del jazz, canzoni italiane
e del pop internazionale.
Rea ha anche presentato, alla libreria Feltrinelli, il suo libro autobiografico
"Il jazzista imperfetto", edito dalla Rai Eri, come del resto il noto critico
Ugo Sbisà ha presentato, sempre nella stessa libreria, il suo "Puglia,
le età del jazz", edito da Mario Adda, ed Enzo Capua e Fuji Fujioka
hanno presentato il disco di inediti di
John Coltrane
"Both Directions At Once: The Lost Album", edito dall'Impulse!
Non si può chiudere il nostro resoconto senza ricordare la bella iniziativa presso
il ristorante Cesarino dove, ogni notte sino alle ore piccole, hanno ripreso le
jam session, un tempo consuetudine a Umbria Jazz: all'eccellente gruppo stabile
formato da
Andrea Pozza (piano),
Piero Odorici
e Daniele Scannapieco (sax tenori), Aldo Zunino (contrabbasso) e
Luca Santaniello (batteria), il compito di dare il via ogni volta alle danze,
per poi vedere esibirsi diversi musicisti, fra i quali perlomeno ci piace ricordare,
per i valori espressi, i solisti della front line degli Huntertones (Dan
White, Jon Lampley e Chris Ott) e il giovane tenor sassofonista
Claudio Jr De Rosa (gli Huntertones e il quintetto di De Rosa anche presenti
tutti i giorni fra i concerti gratuiti ai Giardini Carducci e in piazza IV Novembre),
e il tenor sassofonista
Carlo Atti,
dalla forza prorompente, che coniuga con afflati personali e una propulsione ritmica
fuori dell'ordinario accompagnata da un suono grande e potente,
Sonny Rollins
con Albert Ayler, John Coltrane con Coleman Hawkins, donando nei momenti di grazia delle
interpretazioni toccanti e commoventi di alcuni celeberrimi standard (ci ricordiamo
un "Body And Soul" da incorniciare).