Nick La Rocca European Jazzfestival
San Giorgio a Cremano: 15, 16, 17 e 18 Settembre 2005
di
Francesco Peluso per
MMS
La terza edizione del
Nick La Rocca European
Jazzfestival ha avuto svolgimento, come nelle precedenti, nella meravigliosa
Villa Bruno di San Giorgio a Cremano (Na). La manifestazione, che rientra in un
più ampio cartellone di spettacoli, arte e cultura, ha vissuto i suoi magici giorni
nella struttura in cui si celebra, ormai da un decennio, l'apprezzatissimo "Premio"
dedicato all'indimenticabile Troisi. L'atmosfera, come si può immaginare,
è semplicemente incantevole: un centralissimo palco si affaccia su un'accogliente
sala all'aperto completamente immersa nel verde e, grazie alla sua indovinata collocazione
speculare, permette la corretta visione ed un buon ascolto in ogni settore. Una
perfetta organizzazione ha dato vita ad un villaggio fatto di punti di ristoro,
occasioni di particolari degustazioni ed altre offerte editoriali e culturali. La
direzione artistica, nel segno di una lungimirante continuità, è stata affidata
ancora una volta all'esperto e smaliziato Lino Volpe. Questi ha inteso orientare
il Festival verso due importanti ed interessanti tematiche: la ricorrenza del cinquantennale
dalla morte di "Bird", al secolo Charlie Parker, ed una finestra sulla canzone,
attraverso un coraggioso percorso denominato "Cantiere d'autore". Per onorare
il genio di Kansas City sono intervenuti alcuni virtuosi del sax alto; altresì,
per tinteggiare di macchie sonore la canzone d'autore si sono alternati sul palco
alcuni artisti capaci di fondere testo e Jazz in performance a dir poco inconsuete.
La programmazione delle quattro serate ha rispecchiato appieno l'itinerario del
suo intelligente ideatore offrendo, al competente pubblico partecipante, una variegata
proposta di gruppi, solisti e quant'altro.
Giovedì 15 Settembre
Marco Zurzolo
Lee Konitz & Antonio Zambrini Quintet
Se nelle note iniziali ho sottolineato la continuità nel segno di Lino
Volpe, non posso esimermi dal rilevare un'eguale tendenza nell'artista incaricato
ad aprire la manifestazione:
Marco Zurzolo.
Il pirotecnico musicista, che in più occasioni ha dichiarato il legame affettivo
a questo bellissimo proscenio, ha inondato di vibranti immagini sonore platea e
tribuna del Nick
La Rocca 2005, presentando un quintetto
dalle tonalità forti ed una ritmica prorompente. I tre brani eseguiti, tutti tratti
dall'ultimo disco "7 e mezzo"
dello stesso alto sassofonista partenopeo, hanno anticipato alcune peculiarità,
che nel successivo alternarsi di proposte e progetti, avrebbero caratterizzato il
percorso della rassegna. Naturalmente, non intendo riallacciare il sound di
Zurzolo
ad altri che lo hanno succeduto, piuttosto mi piace sottolineare l'originale
impronta che ha regalato con le sue sonorità dense di colori, energia e contaminazione
etnica. Il passaggio del gruppo ha destato sincero interesse ed apprezzamento del
pubblico, che ha gradito il sapore balcanico di "E
sto bhene", la bellezza estetica di "Torno
a sud" e la struggente dolcezza di "Sofia",
dedicata da Marco alla sua bimba. Un'apparizione relativamente breve, ma carica
di quei contenuti necessari a sciogliere il ghiaccio: al di là della simpatica consuetudine,
Zurzolo
porta con sé una ventata di freschezza e scanzonata immagine artistica. La sua musica,
condivisa nell'occasione con il chitarrista Carlo Fimiani, il contrabbassista
Davide Costagliola,
il batterista Gianluca Brugnano ed il trombonista Alessandro Tedesco,
offre palpabili emozioni che hanno coinvolto il divertito uditorio.
Una breve pausa e si passa alla storia del Jazz, un mito vivente del sax
contralto, uno degli artefici del Cool:
Lee Konitz. L'anziano sassofonista, ormai vicino agli ottanta,
è apparso in una discreta forma fisica. Gli ultimi anni lo hanno visto spesso nel
nostro Bel Paese, sia in contesti live, sia in numerose e variegate collaborazioni
discografiche con molti talenti jazzistici italiani. Il suono del suo magico strumento,
seppur leggermente velato dalla considerevole età., resta sempre ammantato di quel
fascino in cui virtuosismo e sensibilità espressiva si fondono in un elegante lirismo.
Le sperimentazioni degli anni
'60 si scorgono solo in
qualche impercettibile accenno, attraverso alcuni cambi direzionali ritmico-armonici,
ma è sempre la dotta visione del Jazz che prevale.
Antonio Zambrini,
al pianoforte, segue in punta di dita il maestro d'oltreoceano, non invadendo il
campo al vecchio leone. Se questo, per alcuni versi, ha spalancato le porte ad uno
sconfinato territorio su cui
Konitz ha potuto spaziare in lungo ed in largo, per altri, il
pianista lombardo con il suo apporto prevalentemente ritmico melodico non ha dato
il giusto cambio solistico al sassofonista lasciandolo troppo solo nei quaranta
minuti di concerto. Questi, dal suo canto, ha proposto in un'interminabile suite
molte reminiscenze della propria carriera, fra cui Body
And Soul, Autumn Leaves,
All The Things You Are.
L'americano, nel suo rincorrere antiche o contemporanee linee armoniche, ha ricercato
spunti, carica emotiva e concentrazione e più volte ha dato il la al suo partner.
Il pianista ha, solo in pochi flash improvvisativi risposto, restando un po' troppo
all'ombra del sassofonista. In ogni caso, il parterre ha gradito ugualmente il duo,
focalizzando l'attenzione su
Konitz, che con ineguagliabile esperienza, ha colmato quelle lacune
di imprevedibilità, dovute alla non perfetta immedesimazione dei due protagonisti.
Dunque, anche se i tratti chiaroscurali hanno visto una predominanza delle ombreggiature,
l'emozione di aver incontrato, un tale maestro del '900, ha trovato sfogo in un
prolungato applauso finale.
Poi, è la volta del Quintetto del pianista lombardo e, come nella stupefacente
metamorfosi della crisalide,
Antonio Zambrini
cambia ruolo e dimensione. L'essere al centro del suo ensemble, la perfetta simbiosi
con le proprie composizioni gli donano una consapevole maturità artistica che dispensa
senza risparmio. La bravura nel condurre per mano la frontline solistica, formata
da Fausto Beccalossi all'accordion e Giulio Martino al sax tenore,
e la sezione ritmica, supportata da Tito Magialajo al contrabbasso e
Ferdinando
Faraò alla batteria, lo pone al centro della scena, consentendogli
di dettare i tempi. Gli arrangiamenti dei sette brani, che hanno mostrato gran parte
del contenuto dell'ultimo lavoro, sono stati molto apprezzati: applausi e commenti
di approvazione hanno salutato l'intero svolgersi del concerto. Ambientazioni dalle
sonorità molto dolci, molto rotonde hanno rapito l'attenzione degli intervenuti
sia nelle composizioni ritmico-percussive come
Esperanza, sia in quelle
velate di malinconia come "Un italiano
a Parigi" (dedicato ad un amico scomparso). Ed è proprio nella individuazione
di un destinatario la fonte ispirativa del pianista/flautista, che ha proposto altri
due brani con dedica: Garrincia,
rivolto al noto campione del calcio carioca degli anni
'50/'60
ed una simpatica rivisitazione di Africa, composizione di Abdullah Ibrahim/Dollar
Brand, riconducibile alla tradizione musicale di quel Continente. Nel suo complesso
una performance estremamente lineare in cui esposizioni solistiche e quadro d'assieme
sono apparsi ben costruiti: un gruppo saggiamente orchestrato, dove tutti sono al
centro della musica. A proposito, il disco di recentissima pubblicazione, presentato
in gran parte nel concerto, ha per titolo Musica.
Venerdì 16 settembre
Cantiere d'Autore: Marco Francini
Lino Patruno & His Blue Four
La seconda serata all'ombra del Vesuvio ha visto l'esordio di quel "Cantiere
d'autore", sezione dedicata al non facile connubio fra parola e musica. Lino
Volpe, infatti, nel presentare il primo artista, quale valida espressione della
fusione testo-armonia, ha inteso sottolineare la necessaria sensibilità che un compositore
impiega nella costruzione di una canzone, in particolare per quegli autori che si
connotano in una dimensione un po' fuori dai comuni stereotipi. Marco Francini
non ha lasciato spazio ad alcun dubbio sulla natura dei temi trattati, iniziando
con un testo recitato su di una incisiva struttura in progressione, in cui lasciava
facilmente scorgere riverberi ironici-espressivi, contenuti socio-politici ed altro.
Le successive canzoni, La ballata del lavoro che non c'è e La canzone del fumo,
hanno reso ancor più l'idea dello stile di scrittura del compositore campano, attraverso
il tuffarsi delle liriche in linee armoniche molto diversificate fra loro. Accenni
Jazz, Rock, Blues sono apparsi sopra le righe in aggiunta ad altre atmosfere molto
vicine alla canzone d'autore (vedi De Andrè o Fossati), ma sempre dettate dalla
volontà di proporre un prodotto dai toni cangianti. A seguire è la volta di
Zingari un riferimento
alla vita creativa dei popoli nomadi ed un ringraziamento ai compagni di viaggio:
Paolo De Fazio al soprano e flauti vari, Carlo Licenziato al basso,
Fabio Loffredo alla batteria e Edo Buccini alla chitarra. Ancora alcuni
brani di tipo melodico quali Vulesse
e Dov'è questo amore,
poi una composizione dai riferimenti vagamente storici Carlo e Maria. Dunque, nel
mescolarsi di melodia, canto e satira, si è consumato il primo gradevole approccio
a questa interessante sezione, anche se va rilevato il ripercorrere di qualcosa
già sentito nelle tematiche e nei contenuti, nonostante la personale visione dell'istrionico
Marco Francini.
Come nella prima serata, qualche minuto per visitare i variegati stand
e degustare alcune prelibatezze all'interno del villaggio poi, al richiamo della
gentile speaker, il frettoloso ritorno al proprio posto. Dalle prime battute si
è intuito che si sarebbe assistito ad una vera lezione del Jazz de "La Tradizione":
l'appassionato maestro ha offerto uno spaccato del primo periodo della musica del
secolo scorso con una perizia di informazioni e riferimenti storici capaci di coinvolgere
anche i più coriacei assertori della poca utilità della conoscenza delle origini.
Il primo pensiero del chitarrista è rivolto al musicista che dà il nome alla rassegna:
Nick La Rocca.
Questi, al secolo Domenico, nato a New Orleans da genitori provenienti dalla lontanissima
Salaparuta (Trapani) in cerca di fortuna, pur avendo inciso il primo disco jazz
della storia, è stato ingiustamente e frettolosamente dimenticato. La stessa sorte
è toccata a tanti Italiani o figli di Italiani, che hanno intrecciato negli anni
'20/'30 le proprie radici con quelle dei coetanei musicisti di quell'area geografica.
A tal proposito,
Patruno azzarda una tesi condivisibile che, visto l'apporto dei Leo
Roppolo, Joe Venuti, Salvatore Massaro (in arte Eddie Lang) ed un'ulteriore interminabile
sfilza di nomi, si potrebbe attribuire agli inizi del Jazz bianco, più una matrice
italoamericana, che afroamericana. Quindi nel centenario dalla nascita del violinista
di Philadelphia,
Patruno ha formato un'orchestra che ripercorresse le gesta di Venuti
e Lang, aggiungendo al suo nome la celebre sigla
Blue For. Per realizzare
tutto ciò, ha presentato
Mauro Carpi,
giovane talento siciliano, per folgorare la sala con
String In The Blues in
duo chitarra violino. Uguale procedura è stata adottata dal simpatico maestro per
il basso sassofonista Giancarlo Colangelo, il trombonista/trombettista statunitense
Michael Supnick
ed il cantante britannico Clive Riche. Via,via che l'organico è andato ad
infoltire le proprie fila, la tensione ritmica e le sfumature melodiche hanno attraversato
la sala materializzandosi in alcune significative partiture: da Thomas Fats Waller
a Louis Armstrong,
da Django Reinhardt a Al Jolson, dalle musiche italiane del primo dopoguerra ad
alcune colonne sonore della cinematografia statunitense il buon gusto ed il perfezionismo
timbrico-strumentale hanno lasciato una nitida impronta.
Patruno
ha messo in piedi uno spettacolo, in cui garbata didattica e dosato virtuosismo
hanno coinvolto il pubblico con disarmante semplicità, permettendogli quel successivo
"ritorno al futuro" denso di ricordi e conoscenze, che si erano sbiadite nel tempo.
Uno spettacolo, quindi, che troverà spazio nella partecipazione di tutti i componenti
del gruppo al film di Franco Nero "Forever Blues" con musiche del chitarrista,
in prossima uscita nelle sale cinematografiche italiane. Dopo l'ultimo omaggio a
alla Tradizione con When The Saints
Go Marching In, a luci spente, ho scambiato qualche battuta con il cortesissimo
Patruno:
F.P.: In un mondo così
avido di consumare nuove e fugaci emozioni, perché proporre la musica delle origini?
L.P.: Il suonare questa musica rappresenta un'ulteriore
opportunità per diffondere la conoscenza di una tradizione del Jazz, che non può
essere cancellata. Essa è parte di una cultura, di cui i nostri connazionali
possono considerarsi, con grande merito, attori del suo affermarsi nel
mondo.
F.P.:
L'alternarsi di brani a descrizioni di eventi, il fornire notizie biografiche
ed altro, sono frutto di una scelta meditata o un puro gioco di ruoli?
L.P.:
Sono convinto che uno spettacolo, in cui musica e descrizione si fondono, renda
bene il messaggio storico culturale di queste pagine del '900. Poi, è anche un modo
per vivacizzare il tutto attraverso un centellinato ingresso dei validissimi musicisti
con cui ho messo in piedi quest'idea progettuale, fra poco sul grande schermo.
F.P.:
Perché maestro il Jazz è completamente sparito dal palinsesto delle reti televisive
nazionali?
L.P.:
Perché il Jazz, come il teatro, la musica o altra forma d'arte,è cultura ed amplia
il pensiero. Io sto proponendo il mercoledì alle ore 24:00, in replica il giovedì
alle 13:30, una trasmissione sul Jazz a RAI DOC sul satellite al canale 872.
Poi, ho rivolto una domanda al giovane violinista
Mauro Carpi:
F.P.:
Quali forti motivazioni hanno spinto un giovane solista verso una musica così
lontana dal proprio vissuto?
M.C.:
Io provengo da studi classici. Le mie prime esperienze professionali sono legate
al mondo della cultura classica del violino, ma ascoltando alcuni dischi di mio
padre (in particolare Piergiorgio Farina, ho ampliato il mio interesse verso altre
sonorità. Ho ascoltato anche molti virtuosi contemporanei o più vicini alla mia
generazione, tuttavia è la Tradizione ciò che mi attrae di più.
F.P.:
In questo, il lavorare con
Lino Patruno
credo sia stata un'ulteriore motivazione?
M.C.:
Si, infatti, devo molto a
Lino Patruno
che mi ha scoperto e mi ha dato la possibilità di proporre quelle sonorità tipiche
di Venuti, portandole nei nostri concerti.
Sabato 17 settembre
Cantiere d'Autore: Antonio Del
Gaudio
Charles McPherson Quartet
Prima che il terzo appuntamento del
Nick La Rocca
J. F. decollasse, mi illudevo di conoscere i più oscuri meandri della musica
afroamericana e le sue molte derivazioni, quando Il teatrale prorompere sulla scena
di Antonio Del Gaudio, ha reso possibile l'immediato svanire di qualsiasi
certezza. Ovviamente sto scherzando, ma mi piace aprire la descrizione della serata
del sabato con lo stesso piglio estemporaneo dell'eccentrico artista napoletano.
Questi, impegnato a dar vita alla sezione "Cantiere d'autore", ha creato atmosfere
felliniane, che dalle prime battute, hanno unito testi tenebrosi a strutture Punk-Jazz.
Declamazioni fiammeggianti ed acidità espressiva hanno rappresentato i giusti ingredienti
per collocare il tutto a metà strada fra il cantautore maledetto ed il narratore
di monologhi esistenziali. Del Gaudio ha provato a calarsi in entrambi i
ruoli, ottenendo un discreto fondersi degli stessi, in una performance di buona
intensità. Il tema ricorrente della morte, vista come autodistruzione e non atto
conclusivo della vita, lo scagliarsi contro ogni sorta di ipocrisia, sicuro viatico
per il libero pensiero, rappresentano il fulcro su cui s'impernia la vena creativa
dell'autore. Bisogna dire che, pur riscontrando talune forzature nei testi, il richiamo
alla lezione di Giorgio Gaber, per quanto attiene l'aspetto teatrale, ed i continui
riferimenti a Piero Ciampi, nell'approccio compositivo, sono nel loro complesso
piaciuti. Anche la band, composta da Paolo Ferrara al pianoforte, Daniele
Esposito al contrabbasso, Dario Guidobaldi alla batteria e Luigi Mormone
alla chitarra, ha svolto il suo compito in modo adeguato, sottolineando quella
vena francese di diretta derivazione da Bressans, che il suo leader porta ad esempio
nei collegamenti testo-jazz. L'Io, Dopo il mare, Il camorrista, La ballata della
moda (scrittura poco conosciuta di Luigi Tenco) e Dicembre sono state alcune delle
interpretazioni del provocatorio Antonio in un concerto spettacolo assolutamente
dissacrante, simpatico, ma non del tutto originale.
Nella seconda parte, ecco il prorompere di un Quartetto statunitense che
ci ha bruscamente riportato alla celebrazione del cinquantennale dalla scomparsa
di "Bird". La peculiare somiglianza ai gruppi dell'epoca ed il suono tagliente dell'alto
sax di Charles McPherson hanno inondato di Bebop l'intera platea. Per ricordare
le gesta del magico Parker non si poteva ricorrere ad interprete più coerente alla
musica degli anni a cavallo fra il '40/'50. McPherson, infatti, ripercorre
con il suo sax quel periodo con un vigore ed un'intensità difficilmente riscontrabili
in molti contemporanei contesti jazzistici. Il suo alter ego, individuato nel pianista
Michael Weiss, ed una robusta sezione ritmica formata dal contrabbassista
Rubin Rogers ed il figlio trentacinquenne del leader Chuck alla batteria,
sono una reale dimostrazione di come si possa ancora essere boppers ai giorni d'oggi.
La voce dello strumento di McPherson è apparsa in tutta la sua luminescenza,
intrecciando con il fluido e vibrante pianismo di Weiss, un dualismo fatto
di straripante energia ed irrefrenabile individualismo solistico. Il supporto ritmico
del duo Rogers/Chuck ha suggellato quelle atmosfere di un Jazz, dove
la robustezza dinamica, è parte integrante di un assieme che esalta i singoli: il
drummin' del giovane McPherson è apparso di stampo tipicamente statunitense
con volumi eccessivamente elevati, mentre il groove del contrabbasso è risultato
piuttosto scuro. Brani di chiaro stampo boppistico ed una struggente ballad sono
sembrati notevolmente ispirati ma, dopo la prima mezz'ora di brillanti performance
del quartetto, è iniziato un vero tormento meteorologico. Agli inizi, gli spettatori
hanno resistito sotto ombrelli di fortuna, poi con l'incalzare di una vera tempesta
tropicale anche i più stoici hanno dovuto abbandonare la propria poltroncina e gli
ormai soli musicians li hanno seguiti negli spazi al coperto della bellissima Villa
Bruno. Peccato, perché il celebre sassofonista, ricordato per essere stato al fianco
di Mingus per molti anni e per tantissime altre collaborazioni eccellenti, aveva
destato un'entusiastica impressione negli spettatori che seguivano con interesse
l'intramontabile linguaggio di Parker e Gillespie.
Domenica 18 Settembre
Cantiere d'Autore: Antonella Loconsole
& Luna di Seta Ensemble
Gino Paoli - Gianluca Petrella - Danilo Rea - Rosario Bonaccorso - Roberto Gatto
Siamo giunti così alla quarta ed ultima serata di questa variegata ed
interessante manifestazione jazzistica e, come prevedibile, non c'è da stupirsi
se vi posso descrivere che già alle 20:30 la platea e le tribunette del
Nick La Rocca
erano gremite in quasi tutti i settori. Ebbene l'attesa per l'evento clu dell'intero
Jazzfestival stava per materializzarsi di lì a poco ed i presenti lo confermavano
con il loro nutrito esserci. Prima di ciò, come di consueto introdotto dalle simpatiche
ed essenziali note di Volpe, è spettato ad un ensemble di giovanissimi musicisti
ad aprire l'incontro parola-musica. Massimo Piccolo, ideatore dello spettacolo
"Luna di seta", ha affidato alla intensa ed espressiva voce di Antonella
Loconsole, al minimale ed elegante pianismo di Claudio Passilongo, il
duo contrabbasso batteria di Daniele Sorrentino e Elio Coppola,
nonché la personalissima voce di Annamaria Panico e il coinvolgente recitativo di
Antonio De Matteo, il compito di offrire alla sezione "Cantiere d'autore"
un crogiuolo denso di ironico e sensuale lirismo. In questo, il gruppo ha mostrato
un sostanziale equilibrio che, nella struggenza interpretativa della Loconsole
e l'argentina timbrica vocale della Panico, ha imperniato il susseguirsi
delle canzoni presentate. Gli arrangiamenti adeguati alla scrittura di Massimo
Piccolo ed alcune luminose finestre aperte in strutture dalla diversa provenienza
(particolarmente toccante una rivisitazione della beatlessiana
In My Life, hanno completato
un'ora di musica e testi di buona qualità sinceramente apprezzati dai convenuti.
Poi, una buona pausa per visitare il villaggio mentre i tecnici, con professionale
celerità, preparavano gli strumenti per lasciare il via all'evento. Finalmente l'ingresso
dei tanto attesi
Danilo
Rea, Rosario Bonaccorso,
Roberto
Gatto,
Gianluca Petrella ed il maestro per eccellenza della canzone d'autore
italiana: Gino Paoli. Il cantautore genovese apre con il piglio da crooner
di razza con il conosciutissimo standard
All Of Me. A seguire, iniziano
a scivolare uno dopo l'altro due classici della propria lunghissima carriera:
Sapore di sale e
La gatta, in cui l'estrosità
del quartetto dà vita a variopinti e prolungati assoli. Se non fossi stato lì seduto
ad ascoltare quella kermesse così vibrante, avrei erroneamente sostenuto che poteva
trattarsi di una raffinata minestra riscaldata intrisa di sapori vari. Tutt'altro,
la musicalità della voce di Paoli ed i serrati interplay dei virtuosi solisti
hanno reso il tutto distante da prevedibili stereotipi. Il groove arioso del contrabbasso
di Bonaccorso, sostenuto dallo stesso solista con un personale canticchiare
del tema o degli assoli e la straordinaria eleganza degli approcci del trombone
di Gianluca Petrella,
alle stranote canzoni, sono risultate immediatamente le immagini più a fuoco di
quest'ottimo "Incontro di Jazz". Il giovane trombonista ha espresso in ogni
condizione una freschezza ed un perfetto controllo del proprio strumento tanto da
incantare sia nelle declamazioni del tema, sia nell'assecondare la poetica del leader,
come nel districarsi nei meandri degli assoli sontuosi dalle coloriture pastello.
Il lirismo del pianismo di
Danilo
Rea, dal suo canto, ha strappato applausi a scena aperta in tutti gli
assoli offerti senza risparmio: sconfinata dinamica, eccelsa capacità di percorrere
la tastiera nelle sue più nascoste sfumature, percussività ritmica da vendere sono
state alcune motivazioni del trasporto emotivo realizzato dal pianista con l'ammirato
pubblico.
Ancora due poetiche interpretazioni dalla tenera descrittività dell'amore:
Soltanto per un'ora
e la sempre verde Senza fine.
Una stupenda ballad la prima, dove il tappeto armonico di
Rea
e la meravigliosa sensibilità espressiva di
Petrella
disegnano contorni sfumati; la seconda si trasforma in una struttura dalla leggera
danza ritmica per lasciare, poi, il passo al solo quartetto. Questo, a briglia sciolte,
s'inerpica con agile muscolarità verso una vetta ellingtoniana dalla robusta connotazione:
Caravan. Avevo dimenticato di parlare di
Roberto
Gatto che, forse più degli altri, questo brano può descriverne le straordinarie
doti di effettuare incredibili demi-volè, uniche nel suo genere per fantasia e dinamica.
Dunque un concerto senza alcuna pausa per gli spettatori, un po' meno per il navigato
Paoli che, fra un caffè ed un brandy ha ripreso con un bellissimo poker di
standard: The Girl From Ipanema,
Mi sono innamorato di te,
My Funny Valentine ed
Il cielo in una stanza.
Un prolungato applauso ha richiamato sul palco l'intramontabile Gino e la
splendida band per regalare l'ultima perla:
Sassi. Circa cento minuti
di musica e parole filtrate attraverso ambientazioni Jazz che non hanno stravolto
le melodie originali, né sono state ingabbiate nell'essenziale lirismo poetico del
testo, piuttosto la meravigliosa sensibilità dei protagonisti di rendere fluida
la scrittura del compositore ligure per nulla a disagio con un linguaggio, a volte
troppo ermetico, per esprimere appieno le ragioni del cuore. Una rilettura intelligente
e rigorosa delle canzoni, una versatilità interpretativa dei quattro talenti ad
assecondare l'autore, la mai banale ripetitività delle atmosfere in un insieme ben
dosato fra collettivo e solismo.
Con l'uscita di Gino Paoli ed i musicians che lo hanno accompagnato,
cala il sipario sulla terza edizione del
Nick La Rocca
Jazzfestival. Cosa si può dire di più di quanto già raccontato? Quasi nulla,
se non fare un rapido bilancio della manifestazione che ha offerto sicuramente più
luci che ombre, una buona direzione artistica nella programmazione, la simpatia
di Patruno,
la meravigliosa plasticità estetica di
Petrella
e la promessa di ritrovarci il
prossimo anno.
© MMS
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27/08/2011 | Umbria Jazz 2011: "I jazzisti italiani hanno reso omaggio alla celebrazione dei 150 anni dall'Unità di Italia eseguendo e reinterpretando l'Inno di Mameli che a seconda dei musicisti è stato reso malinconico e intenso, inconsueto, giocoso, dissacrante, swingante con armonizzazione libera, in "crescendo" drammatico, in forma iniziale d'intensa "ballad", in fascinosa progressione dinamica da "sospesa" a frenetica e swingante, jazzistico allo stato puro, destrutturato...Speriamo che questi "Inni nazionali in Jazz" siano pubblicati e non rimangano celati perchè vale davvero la pena ascoltarli e riascoltarli." (di Daniela Floris, foto di Daniela Crevena) |
15/08/2010 | Südtirol Jazz Festival Altoadige: "Il festival altoatesino prosegue nella sua tendenza all'ampliamento territoriale e quest'anno, oltre al capoluogo Bolzano, ha portato le note del jazz in rifugi e cantine, nelle banche, a Bressanone, Brunico, Merano e in Val Venosta. Uno dei maggiori pregi di questa mastodontica iniziativa, che coinvolge in dieci intense giornate centinaia di artisti, è quello, importantissimo, di far conoscere in Italia nuovi talenti europei. La posizione di frontiera e il bilinguismo rendono l'Altoadige il luogo ideale per svolgere questo fondamentale servizio..." (Vincenzo Fugaldi) |
27/06/2010 | Presentazione del libro di Adriano Mazzoletti "Il Jazz in Italia vol. 2: dallo swing agli anni sessanta": "...due tomi di circa 2500 pagine, 2000 nomi citati e circa 300 pagine di discografia, un'autentica Bibbia del jazz. Gli amanti del jazz come Adriano Mazzoletti sono più unici che rari nel nostro panorama musicale. Un artista, anche più che giornalista, dedito per tutta la sua vita a collezionare, archiviare, studiare, accumulare una quantità impressionante di produzioni musicali, documenti, testimonianze, aneddoti sul jazz italiano dal momento in cui le blue notes hanno cominciato a diffondersi nella penisola al tramonto della seconda guerra mondiale" (F. Ciccarelli e A. Valiante) |
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Data pubblicazione: 05/08/2006
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