Intervista ad
Antonio Zambrini
giugno 2006
di Rossella Del Grande
Antonio
Zambrini, pianista e compositore milanese, si è posto all'attenzione
della critica con il cd "Antonia
e altre canzoni", 1998, edito da
Splasc(h) Records, che ha comportato il secondo posto tra i nuovi talenti al "Top
Jazz" di quell'anno.
Il suo secondo cd "Forme
semplici", uscito nel 2000, ed il
successivo, "Quartetto",
del 2001, hanno comportato ulteriori numerose
segnalazioni in diverse categorie del "Top Jazz ", nel quale
Zambrini
è confermato tra i migliori talenti anche per il 2000
e per il 2001.
Nel 2003 è uscito per
Abeat il quarto
album, "Due
colori". Nel 2005 è uscito
l'album "Musica",
basato, come i precedenti, su composizioni originali.
Zambrini
è stato ospite di diversi programmi musicali di Radio3 RAI ("Invenzione a due voci",
"Jazzclub", "Radio3suite", "Piazza Verdi").
Sue composizioni sono incluse in "compilations" radiofoniche e non, ed
in cd allegati a riviste specializzate (vedi "Jazz Magazine", nov.
2003, "Musica Jazz", dic.
2003, "Radio Popolare raccolta
2001"), e sono eseguite in concerto da musicisti
di varia estrazione. Recentemente ha tenuto alcuni concerti in duo con
Lee Konitz e con
Claudio Fasoli, ed ha suonato in una lunga tournée nel
quartetto del trombettista newyorkese
Ron Horton,
con Ben Allison al contrabbasso e Mike Sarin alla batteria.
Ha avuto occasione di collaborare con
Mark Murphy,
Lee Konitz,
Enrico Rava
Claudio Fasoli, Tiziano Tononi, Eberhardt Weber,
Tiziana
Ghiglioni,
Nnenna
Freelon, Gabriele Mirabassi,
Ron Horton,
Emanuele
Cisi, Lucia Minetti,
Garrison Fewell,
Javier
Girotto,
Paul Jeffrey,
Giovanni Falzone, Ben Allison, Giorgio Licalzi, Roberto
Bonati,
Paolino
Dalla Porta.
Collabora stabilmente con la Cineteca Italiana di Milano per la sonorizzazione,
improvvisata dal vivo, nelle rassegne dedicate al cinema muto. Ha insegnato ed insegna
in diverse scuole musicali, ed ha diretto dal 1999
al 2004 un corso estivo di improvvisazione e
musica d'insieme presso gli "Stages Internazionali di Orvieto". Dal
2005 insegna Pianoforte Jazz al Conservatorio
di Como, per i corsi superiori.
R.D.G.:
Antonio, vorrei iniziare domandandoti se hai incontrato difficoltà nell'avviare
la tua carriera di pianista e compositore di jazz.
A.Z.:
Non ci sono delle difficoltà particolari nell'avviare una carriera nel jazz: è proprio
la carriera che è difficile, per mille motivi. Ci sono tantissimi strumentisti in
gamba, lo spazio è quello che è, le scuole producono intere generazioni di musicisti
in cerca di visibilità e lavoro e, insomma, la concorrenza è sempre molto, molto
forte.. e sulla difficoltà di avere un pubblico interessato ed attrezzato per apprezzare
musica non commerciale, rischiamo di ripeterci. Personalmente, dopo alcuni anni
di collaborazioni varie, ho acquisito una certa visibilità cominciando a registrare
e pubblicare le mie composizioni, che hanno incontrato e, devo dire, incontrano
tuttora un lusinghiero apprezzamento. Sia nel quotidiano, col riscontro da parte
del pubblico o dei musicisti che incontro, che magari mi chiedono le parti di qualche
brano (succede spesso), sia nel lungo periodo ... Per esempio,
Stefano
Bollani, nel suo disco in piano solo per ECM che uscirà a Settembre,
ha registrato un mio brano come pezzo d'apertura. Le occasioni in cui ho potuto
collaborare con musicisti di altri paesi sono particolarmente piacevoli a ricordarsi,
perchè ti accorgi che c'è una facilità di comunicazione ed interazione che, a priori,
non immagineresti. E' l'assunto di base del jazz, la comunicazione tra culture e
provenienze, il mélange...ma quando ti accade in prima persona, con musicisti cresciuti
dall'altra parte dell'oceano, c'è sempre un attimo di sorpresa.. molto bello.
R.D.G.: Fra le
tue collaborazioni con musicisti d'oltre oceano, vi è stata di recente la lunga
e riuscitissima tournée con
Ron Horton,
Ben Allison e Mike Sarin. Ben Allison è il creatore del JCC
(Jazz Composers Collective) di New York, un'associazione indipendente nata 15 anni
fa, con l'intento di promuovere i nuovi talenti e dare spazio ai nuovi compositori
di jazz. In Italia esiste qualcosa del genere?
A.Z.:
Ci sono realtà storiche come la comunità di musicisti che ha ruotato intorno alla
scuola del Testaccio a Roma, o situazioni recenti come il "Collettivo
C-Jam" che a Milano ha dato vita ai festivals indipendenti "Ah
Um", con una buona aggregazione di musicisti creativi e non molto visibili
nel campo dei grandi eventi sponsorizzati. La difficoltà di queste situazioni, e
qui parlo per Milano, ovviamente, è che si deve lottare con la totale assenza di
fondi ed aiuti istituzionali, avendo di fronte la concorrenza sproporzionata degli
eventi commerciali che la città offre, veicolando l'interesse del pubblico verso
le proposte di sicuro impatto e ben pubblicizzate. E infatti il festival "Ah
Um" ha resistito alcuni anni, poi diventava difficile andare avanti
senza fondi. Anche se i soldi spesi per una singola puntata di qualunque scemenza
televisiva basterebbero a finanziare trenta concerti. Tra parentesi, chissà magari
"Ah Um" riprenderà…
chiedi notizie ai promotori, cioè al "Collettivo
C-Jam" ...
R.D.G.: In questa
realtà, ci sono tanti musicisti giovani che pure sapendo bene che cosa devono affrontare,
scelgono comunque di svolgere questa attività. Perché? Questa scelta cosa rappresenta?
Vivere un'utopia o voler cercare, malgrado tutto, di cambiare le regole?
A.Z.: Non so, quando ho
cominciato io, che non è così addietro come si potrebbe pensare, visto che avevo
trent'anni, già si capiva che le possibilità sarebbero calate sempre più, per la
crescita sproporzionata del numero di musicisti che si propongono in un paese che
non vede crescere la "domanda" di musica, appunto. E' una scelta sicuramente incosciente,
ma se l'ho fatta io non posso pretendere che la evitino altri. E' un fatto che oggi
abbiamo migliaia di pianisti di jazz, mentre 20 anni fa erano qualche decina ...
diventa arduo pensare di farne una professione. Poi, vedi che anche chi lavora in
azienda o in banca non sa più tanto bene cosa lo aspetta in futuro ... e ti dici
vabbè, almeno il lavoro che rischio di "non fare" mi piace ... E' già qualcosa.
R.D.G.: Secondo
te, che ruolo ha il pubblico per cambiare le regole del mercato? Maggiore cultura
e maggiore preparazione in materia musicale (ma non solo) potrebbero determinare
scelte diverse?
A.Z.: Il pubblico di nicchia resiste, ma la cultura musicale in Italia è
sempre perdente rispetto alle tonnellate di prodotti commerciali super omologati
che vengono riversate sulla popolazione dalle TV e dalle radio commerciali. Spetterebbe
agli enti pubblici, suppongo, alle amministrazioni a vario livello, cercare di dare
una chance in più alla musica d'ascolto. Avviene per la lirica, così un po' perché
è sempre avvenuto. Per il resto avviene in misura minima, totalmente insufficiente
a contrastare anche minimamente l'analfabetismo musicale cronico del nostro paese.
Poi, in epoca di trionfo del privato, della sponsorizzazione, dell'incasso garantito
come viatico per fare qualunque cosa, ovviamente poche rassegne propongono musicisti
"da conoscere", molte ripropongono musicisti "perché conosciuti". A volte questo
sarà anche inevitabile, ma forse il senso della parola "rassegna", cioè un festival,
era in origine quello di offrire alla gente la scoperta di nuove proposte. Era quando
l'ente pubblico poteva e voleva essere promotore culturale. Oggi questa dimensione
è molto difficile da vivere e prevale logicamente un approccio diverso, che deve
necessariamente fare i conti con le esigenze del bilancio risicato, dello sponsor
di turno, del referente privato di turno ... Le eccezioni ci sono, per fortuna,
a tutti i livelli, ma sono eccezioni. Poi chissà, magari produrranno un'inversione
di tendenza…
R.D.G.: Fra le
tue attività musicali, vi è anche l'insegnamento. Cosa ne pensi dell'insegnamento
della musica oggi? Sia a livello di scuole per tutti, sia a livello di scuole professionali
e Conservatori. Cambieresti qualcosa?
A.Z.: Il punto è che "sta già cambiando", non qualcosa, ma molto. La riforma
delle università e dei Conservatori porta verso condizioni nuove, è un periodo di
transizione. Non mi sembra il momento per tentare un bilancio, è troppo presto.
Scuole di divulgazione, scuole civiche, scuole private, seminari ... mi pare che
l'offerta da questo punto di vista sia ormai vastissima, inimmaginabile, per quanto
riguarda il jazz, solo quindici anni fa.
R.D.G.: Come si
evolve il jazz? Dicevamo recentemente che dal 1960
in poi il jazz è diventato qualcosa di difficilmente definibile. Pensi che andando
avanti, perderà sempre più la propria identità e sarà sempre meno riconoscibile?
Prevedi che questa musica ingloberà tanti altri generi musicali? (etnica, pop...)
oppure sarà il jazz a "sparire", fagocitato da generi che se ne stanno già servendo
ma solo in virtù delle qualità elevate dei musicisti di jazz? (quanti cantanti pop
vogliono essere accompagnati da jazzisti qualificati in tour o in incisioni prettamente
commerciali, per fare un esempio). Ci saranno sempre meno suddivisioni rigide fra
un genere musicale e l'altro? Come salvaguardare la qualità, indipendentemente dai
generi? Secondo te il jazz di oggi attinge qualcosa dalla musica classica contemporanea?
0 trae maggiori spunti dalla musica popolare o etnica di paesi magari a noi poco
noti?
A.Z.: Riconoscibile può
essere un determinato approccio, una disposizione alla contaminazione, al rischio
nell'accostare mondi diversi, che è poi il dna di questa musica: il blues, il gospel,
le ritmiche africane, l'armonia europea, la forma canzone anglosassone, le marce
militari francesi, e poi i Caraibi, il Brasile e via via i nuovi pezzetti che si
aggiungono nei decenni... che so, l'India riscoperta alla fine dei '60, le melodie
di ispirazione scandinava di un Garbarek ... Ci sono d'altra parte, in tutte
le generazioni, gli specialisti, coloro che ripropongono la musica di una determinata
epoca, il Tradizionale, il Be-bop piuttosto che l'Hard bop o il Free anni 60-70..
Prevale in questi casi l'idea di conservare una tradizione, un linguaggio legato
ad un'epoca. Dunque? Non credo che oggi sia possibile definire in poche parole cosa
è jazz e cosa non lo è ... Io comunque non sono interessato a dire che chi fa cose
diverse dalle mie o da quelle che più mi piacciono non fa del jazz. Personalmente,
preso atto della varietà del Creato, e fatta salva la mia preferenza per alcune
forme rispetto ad altre, trovo che la sola discriminante che valga la pena sia quella
della sincerità e, possibilmente, della spontaneità di un'espressione musicale.
Anche se si può apparire ingenui, anche se magari non si hanno delle autentiche
radici etniche da far risaltare nella propria musica ... Queste credo siano le premesse
per ricevere energia, emozione, insomma vita, dalla musica. A prescindere dal cosiddetto
"genere".
R.D.G.:
Il jazz, originariamente, ha attinto parecchio anche dalla musica classica
dei 900. Il tuo stile è stato per diversi anni molto vicino agli impressionisti,
anche se attualmente si avverte un cambiamento in atto. Come è scattato in te? Prevedi
una maggior evoluzione in termini armonici o ritmici?
A.Z.: Non so prevedere molto, in questo senso. Nell'ultimo album, "Musica"
ho inserito alcune strutture ritmico-armoniche piuttosto elaborate, anche rispetto
a cose che avevo scritto in precedenza. E le ho realizzate con un organico largo,
utilizzando la fisarmonica, il flauto che suono io stesso, e il sax tenore, in una
strana "sezione". Ma sono sempre interessato, specie in chiave pianistica, alla
libertà di improvvisare su forme semplici, magari anche più semplici che in passato.
Debussy, Ravel e Satie restano comunque punti di riferimento,
per alcune circostanze in particolare, nelle quali mi interessa l'aspetto descrittivo,
evocativo.
R.D.G.: Cosa pensi
del free jazz? Pensi che sia l'ultima "cosa nuova" successa?
A.Z.: Mah, nuova non so
... stiamo parlando di qualcosa che risale, nella sua elaborazione, alla fine degli
anni '50. Se questa
fosse la cosa nuova, oggi, ci sarebbe da preoccuparsi sul serio. La freschezza e
la spontaneità delle prime incisioni di
Coleman
credo siano difficili da ritrovare 40 anni dopo. "Free" penso sia una categoria
storica, filosofica e politica. Riguarda un periodo storico e lotte sociali ben
precise, forse lontane dal nostro quotidiano. Invece il suo apporto linguistico,
l'improvvisazione libera da parametri armonici e ritmici, è diventato patrimonio
comune nella musica di molti, essendo per altro una delle porte che collegano il
jazz al novecento storico europeo.
R.D.G.: Qual è
la tua definizione di "innovatore" in campo musicale? In Italia chi, a tuo avviso,
può essere considerato tale?
A.Z.: E' complicato definire il ruolo di innovatore. Innovatore può essere
chi usa un diverso accorgimento tecnico, uno strumento con una corda in più, un
organico particolare. Mi impressiona però constatare come il clima di altre epoche
possa aver prodotto spinte innovative più radicali, diciamo più audaci nel nostro
paese. Penso alla modernità di approccio di un musicista come Giorgio Gaslini,
che 40 anni fa percorreva già le strade in cui molti di noi si trovano oggi, certo
con mezzi e aspetti stilistici differenti. Ma un certo spirito avventuroso, di cui
gli anni '50,
'60 e
'70 erano pervasi, oggi
appare più difficile da trovare. La felice "imprudenza" della musica progressiva
negli anni '70 è improbabile,
in un certo senso, nell'era delle scuole, dello studio storico del jazz, delle tradizioni
coltivate con dedizione dai seguaci del bop, o del free, o dello swing ... ma naturalmente
si riesce a volte a superare gli steccati dati da queste conoscenze specifiche e
profonde e a realizzare una sintesi comunque personale. Un esempio in questo senso,
al quale mi sono particolarmente affezionato, penso lo abbia dato un grande maestro
come Franco
D'andrea nella serie di dischi in piano solo pubblicati pochi anni fa
(ndr "Franco D'andrea solo 1..8" per la Philology).
R.D.G.: Se dovessi
citare un jazzista internazionale che per capacità, coerenza, onestà, rappresenta
il tuo ideale dei musicista oggi, quale nome faresti?
A.Z.: Impossibile rispondere, ci sono troppe suggestioni che citerei, troppe
che dimenticherei e soprattutto troppe cose che non conosco. Mi interessa in generale
il "contenzioso" tra spontaneità e competenza, sincerità e preparazione, energia
ed accademia. Quando c'è un confronto tra queste forze che possono essere opposte,
il gioco si fa interessante. Ma per non sfuggire alla domanda cito, tra mille che
dovrei citare, una voce un po' particolare che mi ha interessato recentemente. Quella
dei flautista francese Malik Mezzadri.
R.D.G.: In un'ottica
di continua evoluzione, pensi che la formazione classica dei trio sia ormai troppo
limitata? pensi che anche il trio possa ancora proporre qualcosa di nuovo o che
dopo l'invenzione di epoca evansiana del concetto di "interplay" ... in un certo
senso non sia successo più niente?
A.Z.: Il trio ha avuto ed ha forme sempre nuove di espressione, e non vedo
un limite per via del mezzo scelto, e cioè dell'organico strumentale. Il limite,
quando c'è, è soprattutto nel contenuto. Almeno così la vedo io.
R.D.G.: Sono nate
recentemente varie formazioni senza pianoforte che hanno reinterpretato dei classici
del jazz. Ritieni che il piano stia perdendo il suo ruolo trainante nei gruppi jazz,
oppure pensi che si debba di tanto in tanto inventare qualche cosa di inedito solamente
per non rischiare di ripetersi, quando si eseguono opere che sono delle vere pietre
miliari nella storia di questo genere di musica?
A.Z.: Il pianoforte è al
centro della storia del jazz, ma ogni epoca ha avuto anche grandi esempi di formazioni
che ne hanno fatto a meno.
R.D.G.: La vorresti
una casa del jazz anche a Milano?
A.Z.: Certo sarebbe bello.. speriamo!
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Data pubblicazione: 12/09/2006
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