Quattro chiacchiere con...Tito Mangialajo
Rantzer marzo 2014
A cura di Alceste Ayroldi
Ce ne è voluto di tempo prima che Tito Mangialajo Rantzer
si mettesse a capo di un disco. Lo ha fatto nel più impervio dei modi: senza rete,
completamente da solo con il suo strumento, la sua voce d'accompagnamento e il suo,
già ben noto, fischiare. "Dal basso in alto" è il suo lavoro, si badi bene,
non intimista perché, a dispetto del solipsistico approccio, Mangialajo Rantzer
riesce a tirare fuori un sound così corposo che appare orchestrale. Il contrabbassista
milanese rifugge il virtuosismo tout court e tiene sempre a mente la linea
melodica, che lascia cantare alle sue corde che scivolano con vibrante naturalezza.
Con lui chiacchieriamo del suo lavoro e di altre cose.
"Dopo aver inciso circa ottanta
cd, finalmente registro un lavoro a mio nome". E' la frase d'esordio delle note
di copertina del tuo "Dal basso in alto" e colpisce sia per il numero di dischi
nei quali sei coinvolto, che per il fatto che il tuo esordio lo hai voluto in solo:
perché questa scelta? E, inoltre, perché hai atteso tanto tempo e tanti dischi prima
di esordire da "leader"?
Sinceramente non ho mai avuto molto tempo per dedicarmi a qualcosa di mio, essendo
sempre molto impegnato nei progetti altrui. E poi forse non avevo l'idea giusta.
Poi ha cominciato a farsi strada questa suggestione del solo e finalmente l'ho messa
a fuoco. Ho pensato al solo perché a casa quando studio sono abituato a suonare
molti pezzi, anche diversi, come fossi in concerto. Mi serve a cercare coerenza
in quello che faccio.
Per un musicista è davvero importante misurarsi da solo
con il proprio strumento?
Credo di sì, almeno lo è per me. Se ci pensi un musicista passa moltissimo tempo
della sua vita col suo strumento. La ricetta di Charlie Parker per vivere
bene era: stai col tuo strumento, trovati una donna e non parlar male degli altri
musicisti. Condivido appieno.
La scaletta dei brani vedono quattro composizioni di
Ornette Coleman. Qual è il tuo rapporto con Ornette?
Lo adoro. Da sempre. Ha scritto della musica stupenda, ha un suono che mi fa impazzire:
dello storico quartetto conosco a memoria tutti i dischi. Mi fa star bene.
Sempre con riferimento a Ornette, l'arrangiamento per solo
contrabbasso è venuto spontaneamente, oppure hai seguito un particolare processo?
E' tutto molto spontaneo. Non sono un gran progettista.
Hai voluto omaggiare anche tre musicisti italiani contemporanei:
Piero Delle Monache, Antonio Zambrini e Paolo Botti. Perché
proprio loro?
Conosco Antonio
Zambrini da una vita: dal 1991.
E ho avuto il piacere di suonare con lui per tanti anni, registrando secondo me
degli ottimi dischi, da "Antonia ed altre canzoni" del
1997 fino a "Musica" del
2005. In mezzo tanti concerti, tante prove,
tanti bellissimi momenti passati assieme. E l'ho sempre considerato uno dei più
grandi compositori italiani, ha una vena melodica e soprattutto armonica da numero
uno assoluto. Paolo Botti, che conosco e con cui suono da circa vent' anni,
non esito a definirlo il mio migliore amico (è stato anche il mio testimone di nozze...).
Mi piace moltissimo suonare con lui nelle sue formazioni, il quartetto e ultimamente
anche il settetto "La fabbrica dei botti". Da quando poi è diventato polistrumentista
ci si diverte ancora di più. E' una persona speciale, di quelle che è bello sapere
che esistono. Piero Delle
Monache si è aggiunto da poco nella mia collezione di leader. Ci siamo
subito trovati bene, sia musicalmente che umanamente (un aspetto per me imprescindibile
per suonare questa musica). Scrive dei brani abbastanza semplici ma molto focalizzati
e molto diretti. Ha le idee chiare su quello che vuole ottenere dalla musica che
scrive a su come far funzionare il quartetto. Mi piace.
A proposito: i brani di Delle Monache,
Zambrini e Botti erano già editi o si è trattato di un loro cadeau nei tuoi confronti?
Erano già presenti in loro dischi con me presente. "Natale a Rimini" è in
"Due Colori"; "In terra" in "Slight Imperfection" e "Ascolta
se piove" in "Thunupa".
D.H., a tua firma è dedicata a Dave Holland. Cosa
rappresenta per te?
Un grande musicista, fonte inesauribile di gioia per le mie orecchie e la mia mente.
Perfetta sintesi di musicista creativo e all'avanguardia (soprattutto negli anni
Settanta) ma con i piedi ben saldi nella tradizione del jazz. Un signore. Vederlo
suonare mi entusiasma.
Poi, altre tre dediche: una a Sam Rivers, a Ed
Blackwell e Francesca Ajmar.
Quella a Sam Rivers è nata dopo l'ascolto di uno dei suoi ultimi dischi "Violet
violets", bellissimo. Quel suono mi ha ispirato il brano. Ed Blackwell
è uno dei miei eroi, uno di quei batteristi con i quali avrei voluto suonare. Ha
quel modo di fraseggiare sui tamburi quando accompagna il solista che, anche se
abbandona per un attimo il piatto ride, ti sembra sempre di sentirlo. E poi
che suono! Il suono è la cosa che mi colpisce e che mi affascina di più in un jazzista.
Le note arrivano in un secondo, forse terzo momento. Suono e ritmo, jazz. Francesca Ajmar,
oltre ad essere una cantante molto brava, con una voce calda e morbida (ci risiamo
con l'importanza del suono), sempre naturale, è anche mia moglie e la amo tantissimo.
Sinceramente non mi posso immaginare senza di lei e senza i nostri figli. Suono
con lei da tanti anni ormai, l'amore è arrivato dopo, e la prima cosa che mi colpì
era appunto il suono della sua voce. Un brano glielo dovevo!
Completano il tutto tre "classici" "I'll Be Seeing You",
"The Fruit" e "The Second Time Around". Sono scelte collegate al tuo gusto, a ricordi
o al suono del tuo contrabbasso?
"The fruit" perché volevo mettere nel disco un brano bop, primo stile al
quale mi sono avvicinato appena ho cominciato ad ascoltare del Jazz (grazie a mio
papà che mi fece ascoltare Fats Navarro). Le due canzoni perché mi piace
molto il repertorio degli standard americani ed ho sempre ascoltato molto le voci,
ho parecchi dischi di cantanti, proprio tanti. "I'll be seeing you" poi è
un brano che adoro. La versione del 1944 di Billie Holiday mi fa venire i
brividi e anche una lacrimuccia.
Al termine della registrazione, ti ritieni soddisfatto
di questo tuo primo lavoro?
Direi di sì. La cosa che mi fa più piacere è che chi lo ha ascoltato mi ha detto
che lo ha trovato un lavoro sincero, semplice, molto diretto e che mi rappresenta.
Dicono che esce fuori la mia personalità. Beh, meglio di così...
"Dal basso in alto". Basso si capisce, ma in alto dove?
Sinceramente nel titolo non c'è nulla di programmatico. E' un semplice gioco di
parole sul fatto che si va dalle note gravi del contrabbasso alle altezze del fischio.
Dal mi basso del contrabbasso fino alla nota più alta del fischio riesco a coprire
più di quattro ottave. E poi mi piaceva l'idea di contemplare il mondo dal basso,
senza porsi in una posizione dominante, magari arrogante.
Facciamo un gioco: ti chiedono di incidere questo stesso
disco, però in quartetto. Che fai?
Credo che rifiuterei. I brani li ho scelti pensando al contrabbasso solo. Col mio
quartetto faccio altro (anche se Ornette è sempre presente!).
Contrabbasso, voce e fischio. Un fischio che ha accompagnato
anche alcune colonne sonore particolarmente importanti. In particolare, quali sigilli
hai impresso con il tuo fischio?
Il film che mi vede protagonista essenzialmente al fischio è "Estomago"
del brasiliano Marcos Jorge con le musiche di Giovanni Venosta, che
mi ha fatto fischiare della roba difficile. Quando ho visto il film non potevo credere
di aver fischiato io quelle melodie. Il film poi è davvero bello. Lo consiglio.
Poi c'è anche "Il caso dell'infedele Clara" di Roberto Faenza
(musiche sempre di Venosta). L'inizio del film è: schermo nero e la melodia principale
fischiata da me. Un bell'effetto.
Quando hai capito che il fischio poteva essere lo strumento
che poteva accompagnare il tuo contrabbasso?
Fischio da sempre. Mi piace. Ho cominciato anni fa per gioco durante un concerto
a doppiare col fischio il solo che stavo facendo su uno standard. Da lì ho cominciato
a lavorarci un po' di più.
Tito, hai collaborato con tantissimi musicisti. C'è qualcuno
che ti ha lasciato il segno più di altri, in particolare?
Sinceramente molti. Citerei per primo Giancarlo Locatelli, che in un momento
in cui ero più legato al linguaggio mainstream del jazz mi ha fato scoprire altri
mondi, essenzialmente Steve Lacy
e la libera improvvisazione. Poi Zambrini, Botti, Gianni Cazzola
(che ha anche l'enorme merito di avermi fatto conoscere Francesca), Michele Bozza,
Tiziano Tononi e Daniele Cavallanti; e Dimitri Grechi Espinoza,
con il quale un paio di anni fa abbiamo registrato un disco totalmente improvvisato,
"When we forgot the meoldy" (Rudi Records). Ora uscirà il secondo
volume, con in più Riccardo Chiaberta alle batteria. E poi vorrei aggiungere
un musicologo, Stefano Zenni: i suoi corsi a Siena Jazz
sono stati fondamentali. Mi ha fatto conoscere e amare Anthony
Braxton in un periodo in cui superficialmente credevo fosse un bluff.
Invece che genio...
Mi sembra di capire che il jazz non sia il tuo unico interesse
musicale. Quali sono gli altri ambiti musicali che ti danno un particolare stimolo?
Essenzialmente la musica brasiliana: quella popolare, bossa nova, samba, choro,
musiche regionali, sono diventato un esperto. E' un mondo musicale vastissimo e
affascinante. Ascolto anche molta musica classica, che però non ho mai suonato (non
sono diplomato ed essenzialmente sono un autodidatta). Ma l'ho studiata molto, soprattutto
le partiture. Ho avuto anche un periodo di totale immersione nella musica contemporanea
del Novecento, affascinato da musicisti come Bartok, Ligeti, Cage,
Morton Feldman, Pendercky, Varése. Non c'era ancora Internet
e la possibilità di scaricare di tutto: andavo spesso alla biblioteca Sormani di
Milano o a quella del Conservatorio a studiarmi le partiture. Prendevo in prestito
un sacco di materiale.
Adesso, a parte la promozione di "Dal basso in alto", a
cosa stai lavorando?
Molte le collaborazioni con altri leader, ma vorrei dire che a breve uscirà il nuovo
lavoro di Piero Delle Monache, con il quale siamo reduci da un tour in Africa,
e il nuovo cd di Giancarlo Tossani con ospite Ralph Alessi; quindi
tra poco registrerò con il settetto di Paolo Botti e anche il nuovo disco
di Francesca
Ajmar (in cui avremo ospite uno dei più grandi sambisti carioca,
Moacyr Luz); in più sto lavorando col mio quartetto, attivo da un paio d'anni:
Marco Fior alla tromba; Francesco Bianchi ai sassofoni alto
e tenore; Massimo Pintori alla batteria. Suoniamo tanti brani di Billy
Strayhorn, qualche Ornette e qualche Monk. Le mie passioni. Vorrei fare uscire qualche
cosa, abbiamo una buonissima registrazione live, vedremo...non è che manchino i
dischi di jazz in Italia...