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Miles Davis Rewind
Il divino, il principe delle tenebre, Bitches Brew e altro
a cura di
Guido Michelone e Gianfranco Nissola
con il patrocinio di SIDMA
E' fin troppo scontato sostenere che Miles Davis sia un personaggio che fa
discutere. Nel ventennale dalla scomparsa, alla fine di novembre del
2011, a Valenza (Al) si è svolto un convegno
per celebrare il band leader afroamericano. Vi hanno partecipato giornalisti di
riviste del settore, musicologi, musicisti. Qualche invitato non presente di persona
ha collaborato alla giornata di studi con un saggio scritto per l'occasione. A meno
di un anno di distanza da quella data vengono pubblicati gli atti della manifestazione
e la lettura di queste testimonianze è quanto mai indicativa per ricominciare a
riflettere su spinose questioni che continuano a far sorgere diatribe fra addetti
ai lavori e appassionati in tutto il mondo. Innanzitutto il problema della tecnica.
Per Felice Reggio, un trombettista, il musicista di Alton "era piuttosto
limitato" soprattutto al suo debutto sulla scena del jazz, ma anche dopo, non riuscì
mai a "prendere" determinate note sopra il rigo, forse perché non si applicò mai
in uno studio specifico sulle stesse. Per Alberto Bazzurro non si può considerare
Davis un virtuoso, ma sicuramente un trombettista con un timbro particolare e riconoscibile
e con uno stile lontano dal modo di suonare dei boppers anche quando il bop dominava
la scena newyorkese. Uno che suonava le note di un brano che non erano scritte,
piuttosto che quelle a spartito, un grande artista a tutti gli effetti, insomma.
Un altro punto di dibattito verte sul punto se si debba considerare Miles Davis
un innovatore o un catalizzatore o un normalizzatore. Secondo Enrico Merlin, il
trombettista è "uno sviluppatore di linguaggi", nel senso che captava al volo quanto
gli girava attorno per costruire un personale angolo di visuale. Così è stato per
il cool, per il modale o per il jazz rock. La sua poetica si è dipanata facendo
evolvere gli stessi generi di cui il "divino" si è appropriato.
Un altro annoso interrogativo è legato alla svolta fusion della fine degli anni
sessanta. Nessuno mette in dubbio la validità di "Bitches Brew", ma da lì
in poi non c'è unanimità di pareri. Per Giorgio Lombardi, che si può ascrivere ad
una corrente di pensiero vicina a quella di Polillo, mitico direttore di "Musica
Jazz", la deviazione verso il jazz rock si origina per esclusivi calcoli economici.
Le vendite dei dischi elettrici dei primi anni settanta, infatti, superano di gran
lunga quelle del glorioso quintetto acustico degli anni sessanta. E Miles "che non
è uno stupido" si adegua al gusto prevalente della massa. Per Michelone, invece,
il vilipeso dalla critica (al momento dell'uscita) "On The Corner", dei primi
anni settanta, è addirittura un capolavoro, luminoso esempio di ultra-funk, più
avanti di 3-4 anni rispetto alla produzione contemporanea.
Si argomenta, ancora, sull'abilità pittorica del principe delle tenebre.
Luca Beatrice
non gli riconosce doti considerevoli, mentre Alberto Bazzurro trova "alcuni elementi
cromatici" nelle sue opere, di buon livello.
Mette tutti d'accordo l'intervento preciso, documentato, ricco di spunti di
Enrico
Merlin su "Bitches Brew", un'analisi accurata, ma non pedante, frutto di
un appassionato sforzo di ricerca di fonti e testimonianze durato diversi anni.
E' ancora sullo stesso disco, con un occhio di riguardo alle figure della copertina
e al loro significato simbolico, il contributo di Gianfranco Nissola, padrone di
casa, stimolatore e coordinatore del dibattito in sala.
Come non ricordare, ancora, la relazione di Alberto Bazzurro sui rapporti fra Davis
e il free jazz, dove viene riportata una chiave di lettura sul motivo per cui i
bianchi erano così attratti, almeno inizialmente, da
Ornette
Coleman. "Quando un nero li spiazza" ne apprezzano la proposta. E' un'infatuazione
momentanea, pronta a capitolare di fronte a nuove suggestioni.
Sono altrettanto da segnalare l'intelligente contributo di
Franco Bergoglio su Davis
e la letteratura e quello di Zenni su una sorta di "metodo" nella ricomposizione
musicale, tanto da definire il trombettista "un abile ladro di temi altrui". E'
meno convincente, concettoso, ma un po' tirato per i capelli il saggio di Massimo
Donà che avvicina Miles a Goethe con congetture e paralleli affascinanti, ma
un po' troppo intellettualistici.
Chiude il libro la riproposta in dvd del concerto dell'orchestra di
Roberto Chiriaco
dedicata alla musica del "divino", effettuato a conclusione del convegno. L'esibizione
certifica l'impegno e l'amore verso questo protagonista assoluto del jazz moderno
da parte di un ensemble versatile e preparato.
In conclusione va dato atto a Michelone e Nissola di aver compiuto un buon servizio
al jazz e a Miles Davis raccogliendo gli atti di un convegno che ha certamente
convogliato l'interesse di quanti erano presenti e può, allo stesso modo, incentivare
il confronto e l'approfondimento in quanti leggeranno il libro.
Gianni Montano per Jazzitalia
25/03/2010 | Hal McKusick si racconta. Il jazz degli anni '40-'50 visti da un protagonista forse non così noto, ma presente e determinante come pochi. "Pochi altosassofonisti viventi hanno vissuto e suonato tanto jazz quanto Hal Mckusick. Il suo primo impiego retribuito risale al 1939 all'età di 15 anni. Poi, a partire dal 1943, ha suonato in diverse tra le più interessanti orchestre dell'epoca: Les Brown, Woody Herman, Boyd Reaburn, Claude Thornill e Elliot Lawrence. Ha suonato praticamente con tutti i grandi jazzisti tra i quali Art Farmer, Al Cohn, Bill Evans, Eddie Costa, Paul Chambers, Connie Kay, Barry Galbraith e John Coltrane." (Marc Myers) |
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Data pubblicazione: 12/05/2013
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