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Eric Nisenson
Blue: Chi ha ucciso il jazz?
Odoya
ISBN: 978-88-6288-211-8
336 Pagine
Eric Nisenson, critico di jazz e autore di alcuni libri
tra cui le note biografie di
John Coltrane
("Ascension: John Coltrane and his Quest", 1993) e Miles Davis ("Round About
Midnight: A Portrait of Miles Davis", 1982), affronta un tema spesso dibattuto
e su cui è facile che si formino schieramenti: individuare lo stato di salute del
jazz e fornirne un'analisi indagatoria nei confronti di chi, presumibilmente, si
fosse macchiato del suo assassinio.
La tesi che Nisenson cerca di confutare è quella secondo
cui ad "uccidere" il jazz sia stata proprio la sua innovazione mentre, a preservarne
la sua "vera" natura e a salvarlo, sia tutt'oggi il continuare a suonarlo rispettando
le sue origini. Nisenson argomenta questa sua tesi attraverso un racconto storiografico
della musica jazz condensato nei suoi principali passaggi. Il tutto, ponendo spesso
in contrapposizione l'operato di quello che è considerato il rappresentante per
eccellenza dei conservatori verso il quale l'autore non risparmia aspre critiche,
vale a dire, Wynton Marsalis.
Ad esempio, secondo lo scrittore, i musicisti come Marsalis, che si ostinano a sostenere
il mainstream o il jazz del passato, sono musicisti che "si muovono all'indietro
invece che in avanti" e sono definiti "imitatori" del passato o "neoclassicisti".
Il conservatorismo, secondo l'autore, è in fondo solo un modo per porre il jazz
al pari della musica classica e per avvicinare la media-alta borghesia bianca e
nera ma, sì facendo, riducendo lo "scope" del jazz ad un mero ricordo del
passato, di fatto lo si amputa del suo aspetto più importante e vitale, l'innovazione
e questo, de facto, ne determina il suo "assassinio".
Nel libro si ripercorre quindi la storia del jazz enfatizzando tutti i momenti in
cui si sono effettuati cambiamenti stilistici importanti, con la maggior parte dei
critici dell'epoca avversi nei confronti di artisti poi riconosciuti come pilastri
della cultura afro-americana.
Articolata ma ben scritta la disamina della diatriba razziale per convergere all'idea
che solo una musica suonata in libertà, senza pregiudizi verso elementi multietnici,
può progredire innovandosi e rispettando la sensibilità del jazz, non tralasciando
il concetto che tutto ciò che oggi è rivoluzione, domani è mainstream.
Non sono risparmiate critiche ai cosiddetti "giovani leoni", usciti con lo "stampino"
dalle scuole ma in grado solo di ripetere alla perfezione tutto quanto imparato
senza avere originalità e, quindi, identità. Scuole ritenute ree di aver omologato
una formazione musicale causa poi di freno alla più spontanea vena creativa e generatrice
di "musicisti intrappolati nel passato". Analogamente, non sono risparmiate
critiche neanche ad Armstrong che, dopo aver definito un jazz suonato con la libertà
d'espressione e la voglia di andare avanti, ha messo a riposto il suo genio preferendo
la strada di entertainer al posto di quella di star del jazz rivoluzionaria, paragonando
il suo periodo dagli anni ‘40 in poi come se uno scrittore passasse dallo scrivere
"libri e poemi allo scrivere cartoline". Oltre Armstrong, sono coinvolti
nel racconto di Nisenson molti dei più noti e riconosciuti musicisti jazz, come
Benny Goodman, Count Basie, Ellington, Hawkins, Young, Tatum, Christian,
ovviamente Davis, per rimarcare come proprio coloro che oggi sono riconosciuti gli
inventori del "vero jazz" fossero all'epoca dei veri e propri rivoluzionari che
hanno portato la musica ad un livello che in quel momento non era accettato. Interrompere
questa catena significa uccidere il jazz e non suonare qualcosa che oggi è giudicato
avanguardistico.
Nisenson si contrappone anche in modo netto ai critici che propendevano ora per
un jazz "bianco" ora per uno "nero" come Mezzrow o Panassié il quale
definiva "strani" o "noiosi" i jazzisti bianchi come
Benny Goodman, approccio radicale che ingenerò definizioni come il "vero
jazz", o Rudi Blesh che ostinatamente considera "jazz puro" solo quello nello stile
di New Orleans mentre il resto è una "ridicola e pretenziosa ibridazione".
Lo stesso Panassiè ha poi delineato meglio la sua abilità cognitiva del jazz e della
relativa evoluzione criticando tutti i musicisti che non facessero "quel" jazz e
arrivando a definire "sgradevole" il suono di Lester Young o "non jazz" quanto facessero
Bird, Dizzy, Miles & C.
Molte delle analisi critiche, confutate a ragion veduta da Nisenson, ruotano prettamente
intorno alla figura di Miles Davis il quale è sempre stato principale oggetto
di attacco da parte dei classicisti dal momento in cui ha cominciato ad esplorare
il jazz-rock e la fusion guadagnandosi anche l'appellativo di "venduto",
"traditore", persona che avesse "recato grave offesa al jazz" o finanche
titolare della cosiddetta "maledizione di Miles Davis" trascinandosi
dietro molti nomi come "Gil Evans,
Ornette
Coleman,
Sonny Rollins
e George Russell".
Condivisibile anche la visione del ruolo neoclassicista di Blakey e dei suoi Jazz
Messenger in cui, peraltro, proprio Wynton Marsalis ha militato agli inizi
della sua carriera. Meno condivisibile il parallelo jazz-rock, così come, la continua
analisi critica nei confronti del JALC (Jazz at Lincoln Center) sia nella gestione
che nella programmazione, lascia a tratti intendere che all'origine vi sia una questione
personale, alimentando il sospetto che più che per reali divergenze di opinione
sia per livori dovuti magari al mancato raggiungimento di qualche posizione all'interno.
Interessante il parallelo politico posto da Nisenson per il quale questa critica
appartenesse ad una sinistra mentre le stesse convinzioni, oggi sostenute, ad esempio,
da Marsalis, siano invece associabili alla destra individuando nella "rigidità del
pensiero" la similitudine dell'atteggiamento.
Il libro scorre anche se forse ci sono un po' troppi personalismi, elementi raccontati
sulla propria persona e su come si siano plasmati alla propria esperienza, forse
è anche un libro-diario per Nisenson che già aveva i sintomi di una malattia che
poi lo ha portato alla morte. Un po' ripetitivo in concetti espressi in forme diverse
come la tesi dei neoclassicisti e del perché l'essenza del jazz si esprima maggiormente
attraverso la ricerca e la libera improvvisazione o che la musica jazz rispecchia
l'essere e l'esperienza di chi lo fa. Inoltre, sebbene il libro racconti alcuni
aspetti biografici di importanti musicisti, per ovvi motivi di spazio tali aspetti
sono ovviamente sintetici e non offrono molto al tema principale trattato nel libro.
In conclusione, un'interessante questione, sapientemente condotta ma un po' troppo
allungata.
Marco Losavio per Jazzitalia
25/03/2010 | Hal McKusick si racconta. Il jazz degli anni '40-'50 visti da un protagonista forse non così noto, ma presente e determinante come pochi. "Pochi altosassofonisti viventi hanno vissuto e suonato tanto jazz quanto Hal Mckusick. Il suo primo impiego retribuito risale al 1939 all'età di 15 anni. Poi, a partire dal 1943, ha suonato in diverse tra le più interessanti orchestre dell'epoca: Les Brown, Woody Herman, Boyd Reaburn, Claude Thornill e Elliot Lawrence. Ha suonato praticamente con tutti i grandi jazzisti tra i quali Art Farmer, Al Cohn, Bill Evans, Eddie Costa, Paul Chambers, Connie Kay, Barry Galbraith e John Coltrane." (Marc Myers) |
28/11/2009 | Venezia Jazz Festival 2009: Ben Allison Quartet, Fabrizio Sotti trio, Giovanni Guidi Quartet, Wynton Marsalis e Jazz at Lincoln Center Orchestra, Richard Galliano All Star Band, Charles Lloyd Quartet, GNU Quartet, Trio Madeira Brasil, Paolo Conte e l'Orchestra Sinfonica di Venezia, diretta da Bruno Fontaine, Musica senza solfiti del Sigurt�-Casagrande Duo...(Giovanni Greto) |
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Data pubblicazione: 19/05/2014
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