Due libri su Miles…
di Gianmichele Taormina
Quincy Troupe
Io & Miles Davis
(PeQuod, Ancona 2003, pag 160 - €
14,00) |
Ashley Khan
Kind Of Blue
(Il Saggiatore, Milano 2003, pag. 224 - €
29,00) |
Escono in Italia - quasi contemporaneamente ed entrami
a ridosso del 2004 - due interessanti libri di
diversa valenza storica e musicologica sulla figura artistica (e non solo) di
Miles Davis. Di questo avvenimento ne abbiamo fatto una piccola
riflessione critica recensendo insieme i due
volumi.
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"Quando ascolto Miles vedo cose. Sento il canto degli uccelli. Vedo e
sento fiumi e treni notturni attraversare un paesaggio deserto nella notte. Vedo
donne bellissime che galleggiano, nude e vestite; vedo uomini eleganti, ruffiani
e gangster impomatati. Vedo fantasmi a ogni accordo, e sento giovani e anziani
che parlano in veranda dopo che il sole è tramontato."
Così si chiude uno degli ultimi capitoli di "Io & Miles
Davis - Vita e musica di un genio", libro scritto da Quincy
Troupe e recentemente uscito per i tipi della PeQuod.
Poeta e scrittore, docente di letteratura presso diversi atenei di New
York, Troupe aveva già pubblicato nel 1989,
proprio insieme a Davis, la tanto celebre quanto polemica e discussa
autobiografia dell'immortale trombettista di St. Louis, intitolata "Miles" (inizialmente uscita in Italia per la Rizzoli, è stata
poi ristampata dalla Minimum Fax nel 2001).
In questo nuovo libro su Miles si leggono taluni aneddoti e alcuni
particolari interessanti rimasti esclusi dalla precedente biografia co-firmata
da Troupe (ovvero i tre anni mancanti prima della morte di Davis e altri
"episodi" in un primo momento esclusi dall'autore proprio per il diniego di
Miles il quale era ancora in vita). Troupe racconta così, con dettagli
passionali e incredibili retroscena, il proprio personale rapporto con The
Prince Of Darkness (soprattutto la burrascosa conoscenza, e poi la sincera
amicizia che si concretizzò nel tempo).
Di Miles ne esce fuori un profilo docile e violento, caparbio e
talvolta inaspettatamente sconcertante. Scontroso e diabolico con gli
sconosciuti, irascibile ed esigente con i musicisti, sapeva con i pochi amici
essere generoso e magmatico, estroso e burlone, incredibilmente buono infine,
come un indifeso e fragile angioletto.
La lettura del libro poi, è resa scorrevole - pur andando avanti e
indietro nel tempo - con l'analisi di alcune tappe importanti del Davis
musicista. Tra queste - ma non poteva essere altrimenti - manca tutta la "fetta"
del periodo riguardante gli anni Sessanta, quello risalente all'epoca
dell'ultimo quintetto acustico del trombettista. Troupe aggiunge qua e là solo
brevi cenni (non c'è la benchè minima traccia di riferimenti a capolavori come " E.S.P.", "Miles Smiles" o
"Nefertiti"), che comunque non sconvolgono per la loro
incompletezza, i tratti distintivi del Miles uomo, eroinomane, amante, pittore,
musicista, celebre razzista "al contrario". Anzi: il libro di Troupe mette
voglia di ascoltare almeno tre dischi pubblicati dal trombettista durante la
seconda metà degli anni Ottanta ovvero "Aura",
"Tutu" e "Amandla". Altra analisi approfondita, soprattutto sotto l'aspetto evidenziato
dal Troupe in qualità di appassionato di musica, è invece un altro trittico
immancabile, costituito da In
A Silent Way, Bitches Brew e On The Corner,
capitoli fondamentali per comprendere appieno il cosiddetto "periodo elettrico"
di Davis.
Quanto ad alcune manchevolezze dell'autore, vanno segnalati invece i
soliti errori anagrafici che, proprio uno statunitense come Troupe, non doveva
assolutamente commettere. Gil Evans è scomparso infatti nel marzo
del 1988 e non l'anno precedente. Impossibile
quindi che Miles abbia dedicato il disco " Siesta"
alla sua memoria (semmai alla memorabile musica di Gil Evans il quale
aveva notevolmente contribuito alla stesura di "Sketches Of Spain" disco "padre" della colonna sonora di "Siesta"), così
come l'erronea datazione della scomparsa di Charles Mingus, il
quale è morto nel 1979, non certo nel 1980.
Miles sospettato di omosessualità con il batterista Tony
Williams, sofferente di una grave forma di diabete e forse, infine, di AIDS,
sconvolge non poco. L'identikit del "Divino" è poi mixato, nella sua essenza
vaporosa ed evanescente, quando Troupe parla invece del trombettista ipnotico,
dell'inarrivabile musicista che ha regalato al jazz e all'intera musica del
Novecento, momenti di enorme genialità creativa.
Altro volume avvincente, che nello specifico coglie un'attenta visione
storiografica di Miles è senza dubbio " Kind Of Blue". Scritto dal critico e giornalista statunitense Ashley Kahn, il
libro si sofferma in particolare nella gestazione e nella conseguente
realizzazione di uno dei capolavori indiscussi della musica afroamericana. Kahn,
affrontando un'indagine non senza qualche difficoltà, si mette sulle tracce del
celebre disco inciso nel 1959, scavando su
molti particolari rimasti "sotterranei". Assieme ai tecnici della Sony/Columbia
il giornalista ha riascoltato i master originali delle due sedute di
registrazione, trascrivendo interamente i dialoghi tra Davis, i suoi musicisti e
tra quest'ultimo e il produttore Irving Townsend. Si scopre così che
Miles smorzava i toni con battute e sketch che ammorbidivano quei pochi momenti
di tensione nel reincidere una versione. Incoraggiava e spiegava tecnicamente e
nei dettagli (Davis non lo faceva quasi mai) gli intro e le sequenze degli
assoli nelle varie tracce, tranquillizzava un vero fuoriclasse come Paul
Chambers che in più di due occasioni sbagliava i suoi ingressi su
Flamenco Sketches. È insomma un libro quello di Kahn (belle le foto delle due session,
quasi tutte inedite), che riporta il lettore ad essere ascoltatore di se stesso
nella memoria. Impossibile non ricordare in che modo e in quale esatto momento
abbiamo ascoltato per la prima volta un indimenticabile monumento di storia come
"Kind Of Blue". Quante serate abbiamo trascorso, magari in compagnia di amici, a
commentare le turbinose sheets of sound di Coltrane, i delicati bisbiglii
di Evans, l'archettato e le colorazioni ritmiche di Chambers, i voli pindarici
di "Cannonball" e lo scattante swing trattenuto di un favoloso drummer (l'unico
della seduta ancora in vita al quale va la stesura della prefazione) che
risponde al nome di Jimmy Cobb.
Ai margini della ricerca su "Kind Of Blue", Kahn aggiunge saggiamente
una necessaria introduzione storica che permette di far giungere il lettore ad
una maggiore comprensione del disco analizzato, mentre, dopo aver snocciolato lo
spirito e la sostanza concettuale del lavoro, il critico espone - un po'
noiosamente, ma ci si passa volentieri sopra - quella che è stata la sostanziale
eredità di "Kind Of Blue" e i consequenziali processi di assimilazione nel mondo
del jazz contemporaneo di questa, che risulta un'incisione storica di portata
ancora adesso universale.
Ma mentre sono davvero ottime - diremmo fondamentali - gli studi e le
teorie elaborate sul rapporto tra Davis e la tematica del modale - elemento
centrale e costitutivo dell'intera opera - svogliata e leggermente
pressappochista ci è sembrata l'esclusione di altra parte importante della
composizione di Flamenco
Sketches. Diretta
conseguenza della celebre Peace Piece di Evans,
a sua volta derivante dalla trasposizione della composizione di Leonard
Bernstein Some Other
Time, Kahn dimentica che
quest'ultima nasce dall'altrettanto celebre Barceuse (la Barcarola) composta da Fryederyk Chopin intorno al
1832. Proprio questa composizione apre le porte alla corrente del
preimpressionismo, inaugurando, di fatto una ricerca che coinvolse tra i pochi
il grande Claude Debussy. Fra l'altro gli esperimenti di Evans su
tecniche compositive eurocolte si possono trovare anche in altri standard come
Time Remebered. In quel caso Evans sviluppa il concetto di enarmonia
assai caro a Scriabin. In poche parole Bill Evans elabora una serie di
modulazioni sfruttando una nota comune che nella tonalità di partenza potrebbe
essere poniamo un fa diesis, e in quella d'arrivo un sol bemolle. Oppure, nel
caso invece di un'altra famosa composizione come Twelve Tone Tune - lo dice il titolo stesso - Evans elabora e lo rappresenta
in modo lampante, un esempio jazzistico della cosiddetta dodecafonia.
Ultimi appunti vanno inoltre ai consueti errorini di storia del jazz
cui anche Kahn non è immune (Bill Evans è scomparso nel 1980 e Julian Cannonball Adderley nel 1975, non al contrario. L'orchestra citata era
quella di Gil e non di Bill Evans).
Plauso infine va alla bella traduzione di Francesco Martinelli
(docente di storia del jazz presso i Seminari Senesi e valente critico della
nostra penisola) che ha reso affascinante l'andatura espressiva del libro di
Kahn, il quale ha già assistito negli States (e speriamo presto anche in Italia)
alla pubblicazione di un libro della medesima importanza creativa, stavolta su
un altro indimenticabile capolavoro: " A Love Supreme" di
John Coltrane.
Gianmichele Taormina per
Jazzitalia
25/03/2010 | Hal McKusick si racconta. Il jazz degli anni '40-'50 visti da un protagonista forse non così noto, ma presente e determinante come pochi. "Pochi altosassofonisti viventi hanno vissuto e suonato tanto jazz quanto Hal Mckusick. Il suo primo impiego retribuito risale al 1939 all'età di 15 anni. Poi, a partire dal 1943, ha suonato in diverse tra le più interessanti orchestre dell'epoca: Les Brown, Woody Herman, Boyd Reaburn, Claude Thornill e Elliot Lawrence. Ha suonato praticamente con tutti i grandi jazzisti tra i quali Art Farmer, Al Cohn, Bill Evans, Eddie Costa, Paul Chambers, Connie Kay, Barry Galbraith e John Coltrane." (Marc Myers) |
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Data pubblicazione: 21/03/2004
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