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Miles Davis
Bitches Brew 40th Anniversary Deluxe Edition Box



Sony-Columbia Legacy



Si ringraziano Luciano Rebeggiani, Michael Cuscuna e Tom Cording

Nella colossale opera di catalogazione che ha ricostruito la carriera dell'unico musicista capace di cambiare più volte l'inerzia della musica jazz, "Bitches Brew" è sempre stata considerata una tappa epocale e non solo per gli amanti del genere. Fu proprio con questa benvenuta apertura verso il rock che il divino Miles, conquistò i favori di un pubblico diverso,("Quei ragazzoni bianchi e dondolanti",per dipingerli nelle sue stesse parole), fino a quel momento piuttosto refrattario al jazz. Questa circostanza fece ovviamente storcere il naso ai puristi, ma ormai l'ennesima rivoluzione si era innescata e nulla l'avrebbe più fermata. Per festeggiare il quarantennale dalla sua pubblicazione originaria, la Sony ha rovistato ancora nei pregiati archivi Columbia, forgiando un box monumentale che allinea le sessions originali in doppio formato (cd e vinile in grana pesante), memorabilia e vari bonus più o meno allettanti, che approfondiremo in seguito. Registrato nell'estate del '69, ma pubblicato solo nella primavera successiva, "Bitches Brew"sintetizza e amplifica tutto quello che Davis aveva personalmente mediato tramite alcuni dei più dotati musicisti di ogni epoca, capaci proprio nello stesso periodo, di arrivare a cime da vertigine nella loro fertile ispirazione. Da Jimi Hendrix a Santana fino a James Brown, Marvin Gaye e i prediletti Blood Sweet & Tears, per Davis spirava un vento nuovo e impetuoso, circostanza che avrebbe dovuto assolutamente avere un effetto negli ambienti per certi versi austeri se non proprio conservatori del jazz, questo malgrado qualche timido tentativo compito fin lì grazie a Cannonball Adderley che provò ad utilizzare un sassofono elettrificato e soprattutto Paul Bley, che fu il primo pianista di una certa estrazione a cimentarsi con un sintetizzatore Moog."un mucchio di cose- ricorda Miles nella sua biografia ufficiale- stavano cambiando nella musica fra il 1967 e il 1968, quello che ascoltavo con più attenzione era James Brown, o quel fenomeno che era Jimi Hendrix. Poi c'era un nuovo gruppo che era appena saltato fuori con un pezzo da hit parade "Dance to the music", ovvero Sly & Family Stone. Quello che stavano facendo era davvero una figata, avevano dentro qualsiasi tipo di ritmo funky fosse possibile, ma quello che mi colpì di più era Jimi, un talento naturale pazzesco che prendeva cose da qualsiasi altra cosa ci fosse in giro, per fare poi le sue velocemente."

Il prologo di quello che poi sarebbe diventato (e soprattutto significato), "Bitches Brew" risale al febbraio del 1968, quando il trombettista convocò i suoi in studio per la registrazione dell'album "Miles In the Sky", un work in progress dove il rinnovamento della strumentazione di base fu il primo segnale di non ritorno verso ciò che era già stato. Anni dopo Herbie Hancock si trovò così eloquentemente a ricordare: "Arrivato in studio non trovai nessuna traccia dell'abituale pianoforte a coda, così andai da Miles per chiedergli spiegazioni. Lui mi indicò semplicemente un altro angolo dello studio dove c'era un piccolo piano elettrico: non ebbi neanche il tempo di stupirmi che lui mi sibilò di suonarlo. Onestamente non mi era mai passato per la testa di farlo, ma quando ci misi le mani sopra, mi sentii subito a mio agio, il suono che ne usciva era delicato ma forte al tempo stesso. Sarebbe stato fantastico lavorarci un po' per farne cosa mia." Esattamente un anno dopo (durante il quale trovò anche il tempo di registrare l'assai sottovalutato "Filles de Kilimanjaro"), il carismatico leader riunì ancora a New York un ottetto stellare, una scelta abbastanza temeraria sulla carta, vista l'oggettiva diversità dei suoi componenti. Con lui in prima linea c'era Wayne Shorter, appena passato al sax soprano e fondamentale nel suo personale processo di rinnovamento, per la sezione ritmica niente meglio della virtuosa complicità di Dave Holland (contrabbasso) e Tony Williams (batteria). Ad Herbie Hancock e Chick Corea (entrambi al fender elettrico), Davis aveva pensato di abbinare all'ultimo istante l' organista e compositore di origine viennese Joe Zawinul,un personaggio eccentrico per quanto geniale. L'ultima tessera di questo strano puzzle venne assegnata al duttile chitarrista inglese John Mclaughlin, già illuminato da una buona reputazione per aver suonato con lo stesso Williams, al punto da meritare la fiducia di Davis, che aveva sempre visto giusto nel fiutare e scegliere i suoi uomini.

Insieme a loro Miles elaborò una musica che ricordava quella del suo secondo grande quintetto, ma con delle liquide (e significative) varianti. Elaborando delle forme di ibridazione con il pop e il rock soprattutto di matrice nera, venne calibrata una componente rivelatasi determinante in quanto a semplicità ed efficacia. Nella tavolozza musicale che attingeva a nuovi suoni e colori per forgiare un altro capolavoro assoluto come "In A Silent Way", c'era in prima linea la grande libertà improvvisativa lasciata a ogni singolo componente, partendo già dal versante ritmico-armonico. La tromba del divino invece si muoveva su coordinate ancora più frammentate nelle linee melodiche: a brevi frasi meditative e iterate si alternavano perentorie ricapitolazioni di quelle estese forme espressive: un miracolo di gusto ed equilibrio nella sua pedissequa ciclicità. Come ribadito ancora dallo stesso Davis: "Il 1969 fu l'anno in cui il rock e il funk vendevano come disperati e questo fu messo in mostra perfettamente a Woodstock. C'erano più di 400.000 persone al concerto. Tanta gente ad un solo concerto fece diventare tutti pazzi, specialmente chi lavorava nel campo discografico. L'unica cosa che avevano in mente era:come possiamo vendere dischi a tutta questa gente in ogni occasione? E, se non siamo già riusciti a farlo come arrivarci?".

Fu l'arguto Clive Davis, allora presidente della Columbia dopo altre felici intuizioni giusto maturate al festival di Monterey (fu lui a mettere sotto contratto anche Janis Joplin e Bruce Springsteen) a dargli delle dritte, ma il nostro non era certo tipo da farsi influenzare più di tanto: "In A Silent Way", per certi versi era una versione aggiornata di "Kind Of Blue", il manifesto del modale cui si avvicinava di parecchio dal punto di vista concettuale. Quello che cambiava era sopratutto la derivazione ritmica, con accentuazioni che in quest'ultimo caso erano fortemente binarie. In altre parole Davis aveva già elaborato altre (e temerarie) coordinate, quello che mancava era solo un po' di tempo per farle sedimentare e quindi germogliare a nuova leggenda. E' ancora Miles a parlare: "Cambiammo quello che Joe aveva scritto per "In A Silent Way", togliemmo tutti gli accordi, prendemmo la melodia e la suonammo. Volevo fare solo un po' più di rock. Durante le prove l'avevamo suonata come l'aveva scritta lui, ma non mi andava bene perché tutti quegli accordi ne ingombravano la sonorità. Sentivo che la melodia, nascosta sotto tutto quel casino, era veramente magnifica. Quando registrammo buttai via tutti i fogli con gli accordi e dissi a tutti quanto di suonare semplicemente la melodia, di seguirla al massimo. Rimasero molto sorpresi di lavorare in questo modo, ma ormai sapevo dai tempi di "Kind Of Blue", quando portai una musica che nessuno aveva mai sentito prima, che lavorando con grandi musicisti anche in una situazione di imprevisto, loro si sarebbero trovati comunque bene, suonando quello che c'era. Meglio ancora di quanto avessero pensato di riuscire a fare. Questo è quello che feci con "In A Silent Way" e la musica che ne saltò fuori fu fresca e ugualmente magnifica."

L'appuntamento con la nuova leggenda venne fissato solo pochi mesi dopo, nell'epilogo della solita rovente estate a New York, in cui Davis fu capace ancora di alzare notevolmente la posta in gioco mischiando a fondo le carte: con l'imprescindibile Wayne Shorter al suo fianco, Davis aggiunse al sapiente contrabbasso di Holland, il basso elettrico di Harvey Brooks, mentre per sostituire l'ex pupillo Tony Williams ci vollero addirittura due batteristi:Lenny White e un giovane Jack De Johnette, cui si abbinarono due altri percussionisti (Don Alias e Jim "Jumma Santos" Riley); alle tastiere, insieme ai confermati Zawinul e Corea ecco l'aggiunta dell'organista di scuola Blue Note Larry Young, un musicista di notevole valore come del resto lo spigoloso clarinettista Bennie Maupin. Anche John Mclaughlin rimase al suo posto con uno spazio addirittura maggiore. Da Londra arrivò invece Paul Buckmaster, un sapiente arrangiatore di archi che era già un sinonimo di assoluta eccellenza. "Dissi ai miei- ribadì il sommo trombettista - che potevano suonare quello che gli pareva, davvero ogni cosa che sentivano, a patto di riuscire a forgiare una sorta di accordo, cosa che avevo fatto anche io scrivendo poche basilari variazioni per piano: un po' come aveva pensato Stravinskij quando era tornato alle forme semplici."

In quegli studi affacciati all'angolo della cinquantaduesima strada in quelle tre consecutive mattine di agosto si cominciava presto: a Teo Macero che era il produttore del disco, venne dato un ordine tassativo, ovvero di lasciare correre il registratore, fermando tutto quello che sentiva, ma sempre con il divieto assoluto di interrompere o fare domande: "Rimani semplicemente nel tuo sgabuzzino –tuonò Miles- e preoccupati soltanto di registrare tutto al meglio, senza rompere i coglioni." Il risultato fu qualcosa di incredibile, Davis prese il centro del palco come un direttore d'orchestra che disegnava pochi, luciferini, guizzi: uno sciamano capace di elevarsi e unire tutto il magma sonoro sviluppato a partire dalle tastiere,lasciate in periodico contrappunto. Con i suoni e i ritmi dilatati al punto da rasentare l'ipertrofia, quella musica che solo qualche tempo prima sarebbe stata bocciata senza pietà, si elevava rigogliosa nei differenti strati sonori. Una sorta di jungla urbana dai riflessi vividi, in cui si evidenziava ancora di più l'abbacinante padronanza dello strumento da parte del leader con quell'oscillare dal registro grave a drammatico, più su fino all'acuto più strillato e lacerante amplificato dall'utilizzo (anche questo da eroico precursore), del pedale wah-wah:qualcosa che nessuno aveva mai solo ipotizzato fino ad allora.

Una musica dal respiro potente e libero, con degli accenti che partivano dall'Africa fino a planare sull' euforica serialità di Stockhausen, in un ciclo apparentemente senza capo e coda, forse paragonabile alla sempiterna lotta fra l'ordine e il caos. Un manifesto posto a futura memoria, dove si stagliava imperiosa la voce al sax soprano di Wayne Shorter dagli oltre venti minuti (!)iniziali di "Pharaoh's dance" (composta da Zawinul) passando dall'emblematica "Miles runs the voodoo down" per concludere con l'abrasiva "Sanctuary". Un pezzo di storica euforia creativa tramutatasi in leggenda a partire dalla stessa registrazione che, come abbiamo visto, venne innalzata al rango di processo creativo in continuo divenire.

Ovvero una composizione vivente dello stesso respiro dei musicisti coinvolti dal sacerdozio officiante di Davis, che dopo "solo" dieci anni dalla pubblicazione del seminale e imprescindibile "Kind Of Blue", fu strabiliante nel firmare un altro documento fondamentale della sua vicenda artistica. "Fu davvero una registrazione grandiosa- chiosò ancora lui- non avemmo proprio nessun problema per quanto possa ricordare. Fu come una di quelle jam sessions che facevamo ai vecchi tempi, giù al Minton's, nei giorni del be-bop. Eravamo tutti molto eccitati, quando ci lasciavamo, ogni giorno".

L'album inizialmente divise in due la critica ma il responso commerciale finì con l'andare oltre le più rosee previsioni con oltre mezzo milione di copie vendute, un numero destinato ad aumentare in maniera esponenziale nel tempo. Per più di un autorevole qualcuno, "Bitches Brew" è da ritenersi come l'ultimo vero capolavoro di Davis, di certo un simile rilascio di creatività ed energia sarebbe stato riscontrabile solo nei grandi concerti dal vivo di inizio anni'70, quelli registrati al Fillmore sempre per volontà di Clive Davis solerte nel creare un contatto con il promoter Bill Graham, appassionato proprietario di entrambi i locali, che assoldò Davis per aprire i concerti dei Grateful Dead, davanti a un audience di bianchi i quali avrebbero cominciato ad approfondire la musica di Miles solo a partire da quel momento. Nella sontuosa confezione in cui svettano le meravigliose immagini della copertina-cult elaborate da Mati Klervein, c'è la classica riproposizione del programma originale, arricchita da 6 bonus consistenti in alternate takes dei brani in studio oppure di pezzi pubblicati ma comunque rari (in precedenza apparsi solo su singoli), più un terzo cd comprendente un concerto inedito del gruppo di Miles che a distanza di soli tre mesi dalla pubblicazione di "Bitches Brew" aveva già cambiato pelle. Mentre Holland e DeJohnette erano ancora in sella, Shorter fu sostituito da Gary Bartz al sassofono, Keith Jarrett si unì come secondo tastierista (all'organo, complementare al piano elettrico di Corea) e alle percussioni arrivò Airto Moreira. "La straordinaria esecuzione live del 18 agosto 1970, a Tanglewood, dei quattro brani tratti da Bitches Brew" - annotano i produttori della riedizione Richard Seidel e Michael Cuscuna - "mostra gli ulteriori sviluppi del materiale, dovuti in larga parte all'ampliamento della coloritura, reso possibile dalla formazione allargata. È affascinante la costante evoluzione che un brano musicale sperimenta, nelle mani di maestri dell'improvvisazione".

Quindi un dvd, anche questo mai pubblicato prima e di sensazionale valore malgrado un evidente pecca nella sezione audio, di un quintetto completato da Wayne Shorter, Chick Corea, Dave Holland e Jack DeJohnette, a Copenhagen, nel novembre 1969,proprio a suggello di quella commistione fra elettrico e psichedelico sospesa fra astratto smarrimento e corposa esultanza, nel sublimare un momento di pura esaltazione artistica. Per chiudere un esaustivo inserto a colori di 48 pagine (con, tra l'altro, la riproduzione della famosa copertina dedicata a Miles Davis da Rolling Stone nel 1969 e la corrispondenza dagli archivi del produttore Teo Macero), comprendente un illuminante saggio del critico Greg Tate e un intervista a Lenny White, formulata dallo scrittore Ashley Khan. Non sono state tradotte in italiano, ma non si può proprio avere tutto quando si è già toccato il cielo.

Vittorio Pio per Jazzitalia








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Data pubblicazione: 19/12/2010

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