Jazzitalia - Miles Davis: The Complete Columbia Album Collection
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Miles Davis
The Complete Columbia Album Collection

Dopo averne sezionato la carriera con una serie di box tematici, la Sony ha deciso di rimontare il puzzle, allineando in un lussuoso cofanetto di 70 cd in mini replica cartonata e un dvd, l'intero output discografico (52 titoli) del divino Miles. nei suoi anni Columbia, ovvero quelli più sfavillanti e sempre presi a paragone. Davis ha rappresentato un caso a parte nella storia del jazz, per quel coacervo di intuito, genio e carisma che nel corso di una carriera davvero incomparabile, gli ha consentito almeno tre rivoluzioni, passando dal bop al modale fino alle contaminazioni con il rock e l'elettronica, salvo provare la stessa ammirazione per figure estreme come Charlie Parker, Jimi Hendrix e addirittura Michael Jackson.



C
ambiando uomini e coordinate, il mercuriale trombettista ha celebrato l'epifanìa del suo mito, conquistando una fama planetaria e una ricchezza da vera superstar, come mai nessuno avrebbe più fatto. Il limpido fraseggio della suo prezioso strumento, poggiato su imperscrutabili linee melodiche di verso ascendente che scolpivano lo spazio sonoro, l'indiscussa capacità nel motivare i suoi uomini di pregio, spesso leader di altrettanti gruppi che con lui davano sempre il massimo, la capacità di leggere il suo tempo e di anticipare le tendenze, lo pongono come un iconoclasta assoluto, mai pago di allori e consensi. In questo caso la saga parte dal 1956, con alcuni incontri fondamentali ormai alle spalle, compresa la registrazione del seminale "The Birth Of The Cool", il primo capolavoro registrato per la Capitol: Miles aveva formato un primo grande quintetto con l'ancora acerbo John Coltrane, il gruppo comunque possedeva tiro e capacità, dividendosi le attenzioni insieme agli altrettanto imprescindibili Jazz Messengers, quelli guidati da Art Blakey. Liquidato alla svelta un primo soddisfacente impegno discografico con la Prestige, il trombettista entrò in studio per incidere il suo rutilante debutto per la Columbia che gli fece i ponti d'oro persino nella promozione, circostanza praticamente mai avvenuta prima nel jazz: "Round About Midnight", raccoglie una manciata di standards interpretati allo stato dell'arte con l'ausilio di una ritmica efficacissima composta Red Garland (piano), Paul Chambers (contrabbasso) e Philly Joe Jon (batteria). In particolare il celeberrimo tema monkiano rilascia uno stato di eccitante tensione emotiva, tale da consegnarne la sua magnificenza assoluta per l'eternità. Problemi legati alla dipendenza da stupefacenti vari che imprigionavano quegli uomini così talentuosi ma fragili, costrinsero Davis a scioglierne repentinamente le fila, salvo legarsi quasi subito alla geometrica perfezione di Gil Evans, un arrangiatore supremo che gli confezionò addosso lo stupendo "Miles Ahead" (1957), un lavoro per tromba e orchestra di ottoni. Era una suite raffinatissima che per una parte della critica era un tentativo di ascesa all'estasi, un work in progress capace di un ulteriore sviluppo in altri due album pensati bene e suonati con qualche umana imperfezione, sopratutto per la necessità di contenere il budget gravato dalle costose ore di registrazione.

"Porgy & Bess" (poggiato sul capolavoro Gershwiniano) e il complicato "Sketches Of Spain", un affresco etnico in cui blues e flamenco si inseguono nella magistrale scrittura di Evans abbinata allo stato di grazia raggiunto da Davis, avrebbero potuto accontentare chiunque, non il nostro uomo, che poco dopo riforma un piccolo organico per registrare "Milestones", prova generale della svolta modale sublimata da "Kind Of Blue" (1959), il disco perfetto sul quale è già stato scritto un fiume d'inchiostro. Qui vale la pena ricordare l'apporto fondamentale di un altro Evans, il pianista Bill e l'assunto alla base di questa teoria, che liberava la musica dalle gabbie forzose del bop, con la possibilità di improvvisare sulle scale in luogo degli accordi. Impossibile fare meglio, se si fosse ritirato già a questo punto, Davis sarebbe comunque rimasto a capo dell'olimpo jazzistico che da quel momento in avanti avrebbe comunque governato a suo piacimento. Se qualcuno dei musicisti entrava nel suo giro, allora voleva dire che la consacrazione personale sarebbe stata imminente e lui sapeva scegliere come nessun altro. Dopo tanto clamoroso successo seguì un periodo di stasi legato soprattutto alla riscoperta dei prediletti standards affrontati con il solito magistero, in più bisognava registrare qualche grave per quanto inevitabile defezione, (era ormai impossibile limitare Coltrane al ruolo di gregario, sia pur di estremo lusso), o fare i conti con l'ascesa di nuove fulminanti idee (da Eric Dolphy a Ornette Coleman che sembrava persino aver influenzato, con la sua totale libertà di pensiero, l'atteso rientro sulle scene di Sonny Rollins dopo il suo clamoroso ritiro) che scossero il mondo del jazz, ma non Miles che proseguiva imperterrito sulla sua strada. Con lui per qualche tempo rimasero il fine pianista Wynton Kelly, l'antico sodale Chambers e il batterista Jimmy Cobb. Il vuoto lasciato da Coltrane fu marginalmente soddisfatto dalla meteora Sonny Stitt e dal più continuo Hank Mobley. Ma si sarebbe trattato di schermaglie. Dopo aver cercato un'ultima (sfuocata) collaborazione con Gil Evans (1962) sulle melodie zuccherose di Antonio Carlos Jobim, Davis era ormai pronto a nuova svolta, per la quale risultò fondamentale la fiducia concessa a due musicisti poco più che adolescenti: insieme al pianista Herbie Hancock segnalatogli dal trombettista Donald Byrd, arrivò il giovane fenomeno della batteria Tony Williams (non ancora maggiorenne) destinato a diventare il perno inamovibile di tutta la straordinaria musica che sarebbe arrivata da lì a poco. In uno stato di conclamata euforia, il "divino" formò il suo secondo grande quintetto completato da Ron Carter (contrabbasso) e George Coleman (sax), destinato presto a cedere il posto a Wayne Shorter, un altro enfant-prodige influenzato da Coltrane che proveniva dai Messengers di Blakey, dove aveva evidenziato un grande talento anche sul fronte compositivo. Il suo ingresso si rivelò fondamentale per innalzare qualità e livello e in tre anni (1963/1967), vennero così realizzati un discreto numero di album ("E.S.P","Miles Smiles", "Sorcerer", "Nefertiti", "Miles In The Sky"), che ribadirono quell'estetica scintillante e vertiginosa, lodata come riferimento assoluto di quel periodo storico. Davis ribadì il suo definitivo affrancamento dagli accordi nella magniloquenza di un fraseggio che si era fatto ancora più sfrangiato, nei guizzi repentini che balenavano da quelle note allungate di proposito.

La spinta del bop per Davis sembrava ormai esaurita: suonare ancora pagine di una bellezza ormai vetusta, non lo poteva certo soddisfare, e così improvvisando su schegge tematiche e appoggiandosi anche all'elettronica che cominciava a fare passi da gigante, (uno scandalo per l'ala purista e conservatrice del jazz), il "divino" riunì una nuova formazione di otto elementi che comprendeva anche il chitarrista John Mclaughlin, Chick Corea al piano elettrico e Joe Zawinul all'organo, aprendosi a una musica che per certi versi richiamava quella del precedente quintetto, schiudendo però l'orizzonte verso nuove contaminazioni con certe forme del pop e rock, di matrice essenzialmente nera. Una musica eccitante, sviluppata intorno a una più che mai rinnovata e totale fiducia concessa ai suoi uomini, in particolare sul fonte ritmico e armonico: a lui era riservata una funzione di regia più o meno occulta, con un ulteriore frammentazione delle linee melodiche, che sembravano originarsi come svanire nel nulla. E se "In A Silent Way" (1969), è un etereo, concettuale e splendido aggiornamento di "Kind Of Blue" (i musicisti convocati in studio non ebbero altro che poche indicazioni su quello che Davis voleva fare, ma dietro sua indicazione i magnetofoni vennero azionati immediatamente registrando ogni sospiro), tutto quello che si poteva intuire in quei solchi si tramuta in vivida realtà per "Bitches Brew", un doppio album il cui titolo è astutamente passibile di censura, ma fiammante nell'energia selvaggia che lo pervade, con altri nuovi innesti (menzione d'onore per Jack De Johnette a Larry Young), in cui è ancora Davis ad emergere come supremo deus ex machina, capace di ordinare ogni cosa con interventi pregni di turbine e pathos, illuminando le già fascinose atmosfere in cui è Shorter (soprattutto al sax soprano), ad assumere un ruolo fondamentale negli spigoli fascinosi del suo personalissimo stile. L'album scosse e divise, ma vendette clamorosamente bene. Miles si era ancora una volta proiettato verso aree dal confine incerto e (anche) per questo straordinariamente affascinanti. In un battito di ciglia divenne l'idolo di gran parte dei giovani che ascoltavano il rock, restando un testo sacro per tutti quelli che si sarebbero avventurati nei dintorni di queste perigliose coordinate: di sicuro "Bitches Brew" è anche il suo ultimo capolavoro in casa Columbia, cui è riservato qualche altro bagliore ("On The Corner", 1972), prima del provvisorio ritiro che avvenne nel 1975, in seguito a problemi di salute abbinati a una più o meno latente crisi artistica. Quando rientrò con regolarità solo 5 anni dopo, il nostro sembrava aver smarrito il suo immarcabile furore creativo: da quel mucchio meritano il live "We Want Miles", l'ottimo gruppo che lo seguì in studio per realizzare "Decoy" (1984) e la suite "Aura", commissionatagli in Danimarca e rimasta a lungo inedita.

Si tirano così le somme di un operazione monumentale, proposta però a un prezzo competitivo, sigillata da un bel libro di 250 pagine che ne cesella minuziosamente altri dettagli. Nel dvd a corredo una performance rimasta inedita ripresa tra la Svezia e la Germania nel 1967, con Shorter nel ruolo di co-leader. Altre bonus track di medio interesse si abbinano alla performance (audio) integrale registrata al mega raduno dell'isola di Wight nel 1970 con Keith Jarrett sul palco e Jimi Hendrix in prima fila: insieme avrebbero dovuto tornare a Londra per definire i dettagli di un disco da fare in comunione assoluta. Sappiamo poi come è finita, ma la quasi totalità di una saga ai confini della leggenda è qui. Tutta da (ri) scoprire.

Vittorio Pio per Jazzitalia







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Data pubblicazione: 13/12/2009

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