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Miles Davis
Round About Midnight (Deluxe Edition)
Kind Of Blue (Dualdisc Edition)
My Funny Valentine
Live
A Tribute To Jack Johnson |
Ogni tanto è opportuno aggiornare la propria discoteca di base tenendo conto delle indicazioni di mercato e della possibilità di saccheggiare gli archivi da parte dei più o meno appassionati discografici (e relative divisioni commerciali). E' quasi scontato che per molti l'introduzione al jazz sia stata rappresentata dalla tromba del "divino"
Miles, oggetto di una scrupolosa pubblicazione filologica da parte della Columbia ora posseduta dalle multinazionali Sony e Bmg. Partiamo proprio dall'esordio di cui quest'anno ricorre il cinquantennale. Doppia confezione in digipack con la solita alluvione di extra (parzialmente conosciuti) e un breve set registrato in California nel febbraio successivo mai pubblicato prima. Davis arriva all'interno del roster di una delle etichette più blasonate d'America, in un momento di grande euforia nonostante il rapporto ancora aperto per la Prestige. La sua popolarità era in ascesa: Festival (memorabile l'esibizione a Newport con Thelonious Monk, Zoot Sims e Gerry Mulligan) ed una esposizione mediatica senza pari gli avevano conferito un forte potere contrattuale che negli anni divenne ancora di più una sua prerogativa. C'era già
Coltrane al suo fianco, ovviamente in fase di apprendimento rispetto alla successiva fase di "rottura" e una ritmica infallibilmente collaudata con il delizioso tocco di
Red Garland al piano (cfr. "Tadd's Delight") e gli uomini d'oro
Paul Chambers e Philly Joe Jones, adatti a seguirlo su un materiale costituito prevalentemente da standards in cui spicca il mood rilassato di "Bye Bye Blackbird", oggetto di un autentico work in progress negli anni, e soprattutto di una fantastica rilettura di "Round About Midnight", firma non certamente apocrifa di Monk che da il titolo all'album, capace di nuovi incanti ad ogni successivo ascolto.
Tra i bonus è da manuale il coinvolgente hard bop di "Little Melonae" che anticipa il percorso di quanto
Coltrane avrebbe sviluppato con "Blue Train", storico album di casa Blue Note.
Il secondo disco è invece particolare nella scaletta che cita appunto l'esibizione a Newport abbinandola a un set curiosamente incentrato su due cavalli di battaglia di Dizzy Gillespie come "Woody N'You" e "Salt Peanuts". Estro e disciplina, magistero e interplay, lanciano il trombettista verso la sua fantastica epopea il cui punto di non ritorno si celebra quattro anni più tardi con la realizzazione di "Kind Of Blue", di cui è stata appena stampata l'ultima e definitiva (?) versione con supporto dual-disc, l'ultimo grido lanciato dallo show-biz, che presenta da un lato le canoniche piste in audio e dall'altro dei contenuti in video. Ovviamente non ci sono superlativi che descrivano in modo appropriato che cosa questo disco abbia significato e ancora rappresenti, trascendendo la pur imprescindibile svolta modale. Rimandiamo ai fiumi d'inchiostro giustamente stesi per descrivere la celestialità di "Blue In Green"
o il lirismo incantatorio di "Flamenco Sketches". In questa occasione ci preme solo ribadire i meriti mai riconosciuti in pieno da
Davis a Bill Evans, sottolineare che il supporto può essere letto da qualsiasi cd-player (al contrario dello strombazzato formato in super audio cd), con un miglioramento delle dinamiche che a dire il vero può essere inteso solo da impianti particolarmente sofisticati.
Di certo è più fruibile la parte in video, con uno splendido documentario in bianco e nero di 25 minuti che neanche a farlo apposta si chiama "Made In Heaven: The Story Of", fitto di testimonianze tra cui spicca quella del batterista Jimmy Cobb, l'unico membro vivente di quel fantastico sestetto che giustifica con la duttilità e la estrema spontaneità di una musica mai ufficialmente eseguita prima di allora, il perché di un fascino che si dilata con il tempo. Da lì a poco la predilezione per le atmosfere latine venne fissata in "Sketches Of Spain", un capolavoro firmato insieme a Gil Evans, a cui seguì un lungo tour che arrivò anche in Europa. Importanti cambiamenti erano in atto:
Coltrane stava per abbandonare il suo mentore e per un attimo
Davis pensò sul serio di ritirarsi. Era la fine del 1961, stremato dalle possibili direzioni verso cui far fluire il proprio estro e assoldando senza soddisfazione una serie di sassofonisti (Sonny Stitt, Sam Rivers e George Coleman tra gli altri) cui toccava il difficile compito di sostituire Coltrane, Davis si sentì rinfrancato da un periodo trascorso in California dove coinvolse ufficialmente tre giovanissimi (e sfavillanti) talenti che divennero gli assi portanti del suo nuovo quintetto. I nomi di Herbie Hancock, Ron Carter e Tony Williams sono altrettanto fondamentali nella storia del jazz e non solo per quanto combinarono con Miles nell'epocale "Bitches Brew". Dopo la registrazione dell'eloquente "Seven Steps To Heaven" (primavera 1963), le cui sessions complete sono state riedite lo scorso autunno nella solita confezione di extra-lusso, Davis ebbe diversi nuovi ingaggi in Europa e un impegno al rientro da far tremare i polsi. Il 12 febbraio del 1964, alla Philarmonic Hall, inviolabile tempio della musica classica, che nell'autunno di quello stesso anno avrebbe decretato il trionfo di un giovanissimo Bob Dylan in un magnifico concerto solitario a cui si aggiunse nel finale l'allora fidanzata Joan Baez, Miles, attorniato dai suoi ragazzi, mise a segno una performance straordinaria. Al tenore c'era ancora
Coleman, praticamente al congedo per la scelta compiuta a favore dello scalpitante Wayne Shorter. Riportato a singolo volume dagli archivisti Columbia, "My Funny Valentine" è praticamente il testo sacro delle ballad. Dalla title-track cara soprattutto a Chet Baker, ad altri temi malandrini come "Stella By Starlight",
"I Tought About You" e l'immaginifica "All Blues", Miles e i suoi scompongono e ricompongono con sbalorditiva efficacia troncando di netto il convenzionale approccio ai cosiddetti "standards".
Coleman non avrebbe praticamente più toccato quegli aurei livelli, mentre la nuova ritmica impressionava per dinamismo ed inventiva. Un successo clamoroso cui seguì una breve tournèe in Giappone pagata a peso d'oro e una nuova rapida incursione in Europa.
Ci occuperemo in un altro momento del cammino che portò alla svolta elettrica di Miles, sempre attento agli stilemi del funk più rovente e sfrenato, oltre ad essere a un passo da una agognata collaborazione con
Jimi Hendrix se non fosse purtroppo andata a finire come sappiamo. In questa occasione seguiamo l'ordine delle recenti uscite discografiche segnalando l'edizione singola del tributo a
Jack Johnson, un pugile che incarnava al meglio l'orgoglio degli afro-americani. Davis era quasi ossessionato dall'idea di mettere insieme una rock band che lo assecondasse verso "altre" pulsioni. Per questa colonna sonora decise quindi di rinunciare al piano (Chick Corea ed Herbie Hancock compresi nella session, suonano rispettivamente le tastiere e l'organo), aggiungendo ai fiati di Steve Grossman e
Bernie Maupin, i chitarristi John McLaughlin
e Sonny Sharrock. Billy Cobham e Jack DeJohnette
scandivano i tempi con Dave Holland e
Michael Henderson impegnati al basso rigorosamente elettrico. Dislocati in due line-up per altrettanti pezzi, i musicisti anticipano e rilanciano i soli di Miles, costruiti sempre con ineguagliabile coerenza e forza dirompente.
"Right Off" apre le danze al seguito di
McLaughlin "sorpreso" a provare dei riff in studio. Henderson
e Cobham si lanciano all'inseguimento, Herbie Hancock secondo la leggenda passa casualmente dallo studio e si lancia sul primo hammond disponibile. Le idee cominciano a vibrare, entrano in circolo, creano il presupposto per l'ingresso del leader che dopo circa due minuti parte con uno dei più fantasmagorici interventi della sua carriera, mentre McLaughlin continua a giocare sporco dietro. Le conclusioni espresse in "Bitches Brew" si ampliano e nella seconda parte della suite, il mosaico si avvale di nuovi tasselli. Lo storico produttore
Teo Macero che supervisiona ancora una volta la seduta, estrapola un frammento di "Shhh Peaceful" (dall'altrettanto fondamentale "In A Silent Way"), per sovrapporlo a "Willie Nelson", un altro brano appartenente a Miles. E' l'evoluzione di una chilometrica intro tutta giocata sulle linee di basso "Say It Loud, I'M Black And Proud", anthem sobillato da James Brown alla sua comunità in cerca di riscatto. La voce dell'attore
Peter Brock (che doppiava Jack Johnson), chiude le danze dopo quasi 25 minuti di stop and go che sublimano uno dei lavori di più puro jazz elettrico mai realizzati in quanto a libertà, feeling e spontanea combustione. Nessuno come lui.
Vittorio Pio per Jazzitalia
25/03/2010 | Hal McKusick si racconta. Il jazz degli anni '40-'50 visti da un protagonista forse non così noto, ma presente e determinante come pochi. "Pochi altosassofonisti viventi hanno vissuto e suonato tanto jazz quanto Hal Mckusick. Il suo primo impiego retribuito risale al 1939 all'età di 15 anni. Poi, a partire dal 1943, ha suonato in diverse tra le più interessanti orchestre dell'epoca: Les Brown, Woody Herman, Boyd Reaburn, Claude Thornill e Elliot Lawrence. Ha suonato praticamente con tutti i grandi jazzisti tra i quali Art Farmer, Al Cohn, Bill Evans, Eddie Costa, Paul Chambers, Connie Kay, Barry Galbraith e John Coltrane." (Marc Myers) |
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Data pubblicazione: 03/06/2005
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