Carlos Santana
Caravanserai, Welcome, Love Devotion Surrender, Moonflower
Alla fine degli anni '60 insieme alla
guerra del Vietnam, la contestazione sull'apparente ordine costituito, l'uomo sulla
luna, la forza visionaria di John Coltrane in aggiunta al black power, gli allucinogeni
e la dirompenza degli amori liberi, ci fu anche l'irresistibile ascesa della "trance'n
dance" di Carlos Santana e la sua band di fuoriclasse, consacratasi definitivamente
il 16 agosto del 1969 sul palco di Woodstock
in un autentico caleidoscopio di influenze e poliritmi.
Il successo fu istantaneo
e così tra fulminanti illuminazioni religiose, aperture nei confronti di musicisti
di jazz e blues, la sua carriera ha vissuto momenti di incredibile popolarità come
la crisi più nera. Adesso il nostro ha tirato i remi in barca ("Supernatural" non
tragga in inganno n.d.r.) e manda avanti la sua leggenda. In ogni caso il suo contributo
alla causa del rock resta inscalfibile e, proprio in questi giorni, la Sony\Legacy
ha ripubblicato, con accurata rimasterizzazione e qualche sorpresa, un'altra manciata
di lavori di questa gloriosa formazione che parte da " Caravanserai" (1972),
ovvero il quarto disco in studio che rappresentò per la band anche uno spartiacque.
Due dei membri originari del gruppo (Neal Schon e Gregg Rolie), al termine delle
sessions si distaccarono andando a formare i gloriosi Journey, nel contempo la grande
famiglia si trovò ad accogliere con entusiasmo Tom Coster e il fenomenale percussionista
cubano Armando Peraza, che per Carlos diventerà una sorta di padre putativo.
Quello
vero però era Sri Chinmoy, guru introdottogli dall'altro suo amico chitarrista
Larry Coryell altro virtuoso calato in una dimensione di tale spiritualità,
ripresa anche nel jazz dallo stesso Coltrane oltre che da altri alfieri come
Pharoah Sanders e l'immenso Miles Davis da influenzare fortemente la
proposta del gruppo, che nonostante i clamori degli esordi finì con l'opporre un
netto rifiuto nei confronti della futilità che il successo materiale gli aveva subito
dimostrato. Il risultato fu un autentico capolavoro di ispirazione nella sua complessità
che,
in questa edizione, purtroppo ancora a secco di bonus tracks.
La prima parte fu infatti concepita
in forma di suite e nel sax registrato al contrario di Hadley Caliman inizia ad
emergere "Eternal Caravan Of Reincarnation", un pezzo quasi perfetto che conduce
fino a "Song Of The Wind", zenith assoluto che si avvale di un vorticoso dialogo
tra le chitarre di Schon e dello stesso leader memori dello stile appartenente al
chitarrista gitano Gabor Szabo, appena dietro il continuo imperversare del batterista
Michael Shrieve, il minorenne fenomeno emerso dalla 3 giorni di amore-pace e musica,
sotto le insegne della medesima libertà.
"Future Primitive" lascia invece spazio
alle percussioni che vanno a mischiarsi nella torrida "La Fuente Del Ritmo", una
sorta di jam dall'ambientazione cubana con il pianoforte in primo piano e tutta
una serie di libere improvvisazioni dalle frecce acuminate.
Conclude "Every Step
Of The Way", che vola ancora più in alto grazie anche agli arrangiamenti del trombettista
Tom Harrell che conferiscono un aura quasi mistica, giusto la principale
caratteristica del periodo che poi si andrà ad evidenziare ancora di più nella collaborazione
con John McLaughlin eguale protagonista del successivo "Love Devotion & Surrender"
(1973). McLaughlin era già allora un personaggio
stiloso di perfetta estrazione inglese e varie peregrinazioni: a New York però aveva
partecipato alle registrazioni di "In A Silent Way", storico album del divino Miles
andando poi a formare la Mahavisnu Orchestra che ebbe un impatto fortissimo sul
giovane Carlos il quale insistette per registrare qualcosa insieme a lui. Nel marzo
di quell'anno i due si ritrovarono in studio per affrontare dei materiali quasi
"sacri" come l'ambiziosa rilettura di "A Love Supreme", il testamento spirituale coltraniano del quale venne ripresa in chiave acustica anche "Naima". Gli arpeggi
dei due si incrociano con il collante dello strepitoso organista di casa Blue Note
Larry Young, il cui apporto viene riportato finalmente al giusto volume proprio
per questa occasione, evidenziando le caratteristiche di ognuno: virtuoso al limite
del credibile McLaughlin, maggiormente lirico (vicino come impostazione a uno strumento
a fiato) Santana.
Nonostante qualche perplessità da parte dei già straniti discografici
di allora, l'album riscosse invece un grande successo commerciale al punto da arrivare
all'organizzazione di un tour promozionale quasi a furor di popolo al quale partecipò
anche un giovane Billy Cobham, tentacolare batterista di origine panamense
che era già stato cooptato da Mclaughlin nella Mahavisnu Orchestra. L'estenuante
road book prevedeva addirittura 312 date in ogni angolo del mondo. Uno sforzo ai
limiti di ogni possibile che credo finì con il riflettersi, in quanto ad intensità,
anche nel successivo "Welcome", registrato al volo tra una pausa e l'altra con Santana,
che nel frattempo era diventato "Devadip", sorprendentemente parco negli interventi
per un disco che aveva una solida base jazzistica alla quale si abbinavano degli
elementi rock in luogo del contrario.
Con lo sguardo rivolto all'Africa ("Going
Home"), nel disco c'è molto spazio per le tastiere e per i cantanti
Leon Thomas e sopratutto Flora Purim in "Yours In The Light" una bossa nova di Richard Kermode
in cui Carlos infila uno dei migliori soli della sua carriera. Si rivede anche McLaughlin
che fa una comparsata in "Flame Sky", uno strumentale dal quasi eccitante svolgimento
portato a termine con eguale bravura da entrambi, poi la chiusura con la title-track
presa ancora dal repertorio di Coltrane con un maggiore senso di abbandono rispetto
all'ispido originale.
Nelle outtakes presenti spicca il dialogo feroce tra Shrieve e il bassista
Rauch in "Mantra", ma è tutto l'album che brilla di una luce particolare
anche se il posto migliore dove ascoltare i Santana era sempre un concerto. E se
il fantastico triplo "Lotus" a quei tempi era disponibile solo in Giappone, Santana
dopo un interlocutoria prova firmata a quattro mani con Alice Coltrane, vedova di
tanto marito seguita da un capolavoro riuscito a metà come "Borboletta" decide insieme
al manager Bill Graham di dare alle stampe un doppio album che contenesse il meglio
della produzione dal vivo più alcuni pezzi inediti. Ecco quindi nel
1976 "Moonflower", l'album che dopo "Abraxas"
fu il maggior successo commerciale della formazione soprattutto per la magnifica
versione di "Europa", una ballata tradizionale di provenienza messicana che unita
appunto a "Flor D'Luna" finì con il condensare tutti i paradigmi che il chitarrista
di Autlan voleva nella sua musica con una tale passionalità che era impossibile
restare indifferenti. Fu forse per questo o per un certo grado di romanticismo che
l'album arrivò in testa alle classifiche persino in Italia sospinto dal facile ritornello
di "She's Not There" una vecchia cover appartenente agli inglesi Zombies unita a
classici come "Black Magic Woman" o "Soul Sacrifice" che però sembravano aver smarrito
per strada il fuoco originale.
La ristampa porta con se anche tre singoli che non
aggiungono nulla di particolarmente eccitante a quanto già si sapeva. Al di là del
contenuto l'annotazione di merito ribadisce proprio l'ottimo lavoro compiuto dai
tecnici Sony con il remaster a 24 bit: adesso i dischi suonano proprio come erano
stati concepiti, molto più che un particolare quando si parla di musica.
Vittorio Pio
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Data pubblicazione: 14/12/2003
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