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Merlin Enrico - Rizzardi Veniero
Bitches Brew. Genesi del capolavoro di Miles Davis

2009, 318 p., Editore Il Saggiatore

Anno di celebrazioni per il sublime Miles. Si ricorda il contemporaneo genetliaco per due autentiche milestones, pietre miliari-musicali, per usare un calembour davisiano. Nel 1959 fu l'uscita discografica di Kind Of Blue, forse Il disco jazz; mentre esattamente dieci anni dopo, nel 1969, venne a sconvolgere nuovamente il mondo musicale Bitches Brew, questa volta con un impatto non solo jazzistico. Sicuramente la differenza tra i due lavori si misura nella diversa accoglienza che ebbero nell'immediato e nel significato che andarono a ricoprire nel lungo periodo: mentre Kind Of Blue venne fulmineamente apprezzato, ratificando una volta di più Davis come artista di punta del jazz, alla sua uscita Bitches Brew sancì il divorzio con la critica e il pubblico puristi; rottura mai più realmente sanata. L'immagine del nostro si scisse in una sorta di doppelgänger: a fianco dell'indimenticabile jazzista prese il sopravvento una icona pop, con la coda di sospetti mai sopiti di "svendita" e di "tradimento commerciale".



P
roprio dell'analisi di Bitches Brew, fulcro creativo del nuovo Miles Davis (Alton, 26 maggio 1926 – Santa Monica, 28 settembre 1991), si occupa il recentissimo volume di Enrico Merlin e Veniero Rizzardi. Un testo che testimonia l'interesse della casa editrice il Saggiatore per Davis, cui aveva già dedicato in passato due titoli della collana con le preziose traduzioni di Kind Of Blue del critico e giornalista statunitense Ashley Kahn e del libro di Richard Cook centrato sull'analisi delle sue 14 opere fondamentali. Ma torniamo al lavoro di Merlin e Rizzardi. Certo, i dieci anni tra Kind Of Blue e Bitches Brew si sentono anche all'ascolto più superficiale. E, come dicono gli autori, lo stesso passaggio epocale che riguarda il Miles artista coinvolge assieme quello del Miles personaggio che passa da jazzman duro, vestito con abiti neri di taglio italiano, ad uno stile afro-rock a metà tra James Brown e Jimi Hendrix. Gli autori ancor prima di addentrarsi nell'analisi musicale rilevano questo cambio di direzione fin dalla copertina del disco affidata a Mati Klarwein (autore di contemporanee copertine per i Santana) nella quale emerge la volontà di sintesi tra l'aspetto black e quello rock voluta da Miles sulla scia di Sly and the family Stone.

Miles fu l'unico responsabile di questo cambiamento? Questa domanda si agita attraverso alcuni capitoli e la risposta, nel miglior stile della critica contemporanea, è acuta e alquanto composita. Comunque la si inquadri si trattò di un concorso di cause (i detrattori direbbero di colpe). La casa discografica voleva vendere "meglio" Davis. La distribuzione di dischi jazz stava letteralmente impallidendo di fronte all'esplosione del rock giovanile e quel mercato che si stava autonomamente creando e spostando verso nuove aree espressive andava catturato, prima che a farlo fosse qualcun altro. Era una questione di tempismo, vitale per anticipare le tendenze.

Ma Bitches Brew fu anche il risultato di una serie di esperimenti squisitamente musicali durati alcuni anni, durante i quali la visione artistica di Miles si compenetrò sempre più con quella del produttore-compositore Teo Macero. Che la sterzata non fosse stata così brusca lo si sapeva, ma questo libro documenta per la prima volta l'intero percorso, dall'innamoramento iniziale per il blues elettrico di Muddy Waters fino al pastiche rock, soul, jazz dei Blood, Sweet and Tears.

Consultando per la prima volta un corposo materiale d'archivio, come gli archivi di Macero e grazie all'accesso ai nastri integrali delle session conservati presso la Columbia, Merlin e Rizzardi ricostruiscono la genesi dell'album e del particolare momento storico nel quale anche il jazz da studio cambia caratteristiche come rilevano in modo approfondito i due autori ponendo in evidenza, con opportuni diagrammi, i tagli e le cuciture dei brani. Le takes di Miles Runs The Voodoo Down, Spanish Key, Pharoah's dance vengono analizzate e smontate con cura: da questo lavoro certosino emergono le curiosità che impreziosiscono il volume.

In conclusione dall'esecuzione per takes successive si passa a un fitto lavoro di post-produzione, un'attività che consiste in un montaggio quasi filmico dei migliori momenti della session di studio.
Un montaggio che a tratti diventa ri-composizione o ri-creazione del materiale stesso e per il quale alla fine Teo Macero assume la figura del co-autore rispetto a quella del classico produttore di dischi jazz. Rispondendo al critico Ralph J. Gleason, nota firma di Rolling Stones, il quale lo aveva accusato (privatamente, i due erano amici) di essere uno degli uccisori del jazz, Macero dice di sé: Avrò anche ucciso il jazz, ma intanto ho costruito un nuovo genere di musica. Tu che cosa hai fatto ultimamente?

Ho costruito un nuovo genere di musica scrive, quindi, orgoglioso Macero. Su questa "costruzione" gli autori indagano seguendo ogni possibile direzione: partono dalle "prove generali" del biennio precedente (il lungo brano Circle In The Round, con l'innesto faticoso della chitarra elettrica o quello del piano elettrico per Stuff), analizzano la scrittura di In A Silent Way, con il particolare sodalizio creativo con Joe Zawinul, si soffermano sull'apporto di solisti "anziani" del gruppo di Miles come Shorter o Hancock e sul ruolo dei membri della studio band (in particolare McLaughlin, DeJohnette, Harvey Brooks). Il tutto a dimostrare quanto fosse eclettico…l'elettrico Miles!.

Franco Bergoglio per Jazzitalia







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Data pubblicazione: 06/01/2010

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