Franco Fabbri
Il suono in cui viviamo
Il Saggiatore
Collana: Tascabili Saggi
ISBN 978-88-565-0040-0
€ 13,00
Pagine 392
settembre 2008
Il suono in cui viviamo, titolo del libro
di Franco Fabbri recentemente ristampato in una edizione accresciuta, esemplifica
meglio di ogni ulteriore commento l'approccio adottato verso la musica.
Questi saggi sulla popular music, come opportunamente li definisce
il sottotitolo, affrontano uno spettro di temi inerenti la musica del novecento
in varie diramazioni, dai jingles pubblicitari, alle contaminazioni world e alle
esperienze cosiddette "colte". L'interesse dell'operazione risiede nella formazione
del suo autore, Franco Fabbri: musicista e musicologo, studioso di lungo
corso aperto alle suggestioni di altre discipline, dall'antropologia alla semiotica
e noto per essere stato protagonista con il gruppo degli Stormy Six di alcune
avventurose pagine musicali degli Anni Settanta. Proprio la stagione del rock progressivo
con i suoi tentativi di forzare le forme più banali del rock e di traghettarlo verso
una musica complessa è uno dei fil rouge del lavoro.
Fabbri ricorda come la riscoperta da parte dei
rocchettari di Take Five, il brano di
Dave Brubeck
contenuto nell'album Time out della fine degli anni Cinquanta, rappresentò
uno dei primi segnali di trasgressione dal canonico 4/4 a favore di metri più complessi.
Una parte del libro è consacrata all'analisi della divisione in generi della musica
del novecento. Un ragionamento che parte da considerazioni più filosofiche che musicali.
Dal tema dei generi discende quello della classificazione della musica, argomento
che ha sempre interessato, diviso e appassionato critici e fans e che Fabbri analizza
utilizzando armi raffinate fino alle recenti conseguenze prodotte da internet, dove
il proliferare di suddivisioni in stili sezionano e parcellizzano il cosmo della
musica contemporanea (spesso con lo scoperto fine commerciale di meglio vendere
un prodotto).
Per i jazzofili potrebbe risultare stimolante l'approccio del capitolo
dedicato alle musiche nel novecento, dove si mostra come il jazz e il blues
-ma anche la rebetika greca, per citare un esempio non americano- abbiano aperto
scenari inediti alla tradizione orale, considerata un tempo "bassa" per la provenienza
da ambienti poveri e malfamati e ingiustamente contrapposta a quella della musica
"alta", raffinata e scritta. Il novecento musicale in questa breve storia viene
visto anche attraverso l'evoluzione delle tecnologie: radio, studio di registrazione
e supporti (dal grammofono al cd).
Anche il discorso sulla forma canzone che in ambito jazzistico solitamente
parte con Tin pan Alley e gli spettacoli di varietà per fermarsi al repertorio
codificato nel tempo degli standard trova qui diverse pagine di approfondimento
con la scomposizione analitica della struttura di numerosi brani dei Beatles, un
punto fermo per capire il pop e il rock a seguire.
C'è spazio anche per alcuni personaggi cardine cui vengono dedicati brevi
cammei: De André, Frank Zappa,
Keith
Jarrett. Per quest'ultimo Fabbri propone alcune illuminanti chiavi
di lettura della sua pratica improvvisativa applicata nei concerti in solitudine,
a partire da quel Köln concert che sarebbe divenuto il disco per una generazione,
un po' come un altro doppio lp con la copertina bianca, che appartiene alle collezioni
e alla memoria dei fratelli maggiori:The White Album dei Beatles. Tornano i
quattro baronetti inglesi, vera pietra angolare della popular music del secolo,
con Jarrett, che nelle sue improvvisazioni rimescola magistralmente tutto quel patrimonio.
Il libro propone altre chiavi di lettura: l'analisi delle logiche di uno
studio di registrazione, l'importanza del produttore e assieme quella delle nuove
risorse tecnologiche e del loro assorbimento nella produzione musicale, alcuni risvolti
dell'enorme campo di interessi economici e storici che si trovano dietro il diritto
d'autore, la preponderante massa di musica diffusa cui siamo esposti nella nostra
vita quotidiana da altoparlanti in luoghi pubblici, impianti stereo casalinghi,
autoradio, cuffie, fino alle suonerie di segreterie telefoniche e cellulari. Questo
porta Fabbri ad una analisi attualizzata della Muzak, la musica di sottofondo che
si sente sugli aerei e in molti uffici, alberghi e sale d'aspetto di tutto il mondo.
La Muzak prende il nome dalla corporation americana che fin dal 1934 si occupa di
produrre e dislocare questa "musica per ambienti", sfruttando gli effetti prodotti
sull'uomo dall'ascolto: distrazione, rilassatezza e anche incremento della produttività,
se installata sui luoghi di lavoro. Secondo Fabbri la Muzak è rigorosa nelle sue
applicazioni: infallibile nel riproporci Strangers in the night all'ora
giusta, nel bar del grande albergo internazionale, o a tranquillizzarci coi violini
poco prima del decollo o dell'estrazione di un molare. L'effetto anestetizzante
della muzak, la sua diffusione a un livello sonoro costante ha anche l'effetto (voluto,
cercato) di appiattire completamente le diversità stilistiche da brano a brano,
come può testimoniare chiunque abbia prestato orecchio all'uso che del jazz viene
fatto in quella programmazione. Eppure funziona e questo apre tutta una serie di
questioni non secondarie: se gli effetti (o gli affetti) di certa musica sono
così controllabili, addirittura programmabili, non è da rivedere qualche vecchia
teoria formalista sul senso e sul significato musicale? Il libro di Fabbri assolve
proprio la funzione di far luce sulle nostre conoscenze nel campo della popular
music e sul suono del Novecento.
Franco Bergoglio per Jazzitalia
Inserisci un commento
Questa pagina è stata visitata 3.240 volte
Data pubblicazione: 18/01/2009
|
|