Festival "Aosta Classica"
Herbie Hancock
Teatro Tenda/Teatro Romano - 20 Luglio 2008
Testo di Rossella Del Grande
Foto di Fabrizio Airola e Rossella Del Grande
Aosta: domenica, tardo pomeriggio. Mi trovo di fronte al Teatro Romano.
Il Teatro Tenda è situato a pochissimi metri di distanza. Ha appena smesso di piovere
ma il colore predominante è ancora il grigio. E' presto e non si può ancora entrare.
Vedo uscire Chris Potter per una breve pausa durante il sound-check e scambiamo
due chiacchiere molto cordiali. Lo avevo intervistato tempo fa al
Blue Note
di Milano e questo mi facilita molto le cose, perché saltiamo i formalismi, e ci
ritroviamo a parlare del più e del meno con rilassatezza. Mi dice che
Herbie Hancock sta per arrivare.
Ci sono alcuni fans ad aspettarlo all'ingresso
del teatro. Forse desiderano solo vederlo arrivare… L'impressione che provo è che
sembri quasi irreale trovarci, da un momento all'altro, al cospetto di un mostro
sacro del jazz come
Herbie Hancock in un luogo così antico e tranquillo. Un luogo che non
ci fa pensare minimamente all'atmosfera dei jazz club né agli auditorium delle grandi
metropoli ai quali Hancock è abituato.
Sembra tutto così normale e quieto. Chris mi parla della trasferta dell'indomani
a La Spezia. Mi chiede quante ore ci vorranno, visto che il loro furgone "va così
piano". Conversazione più da turisti che altro. Si parla dei limiti di velocità
in Italia e dell'etilometro. Ora Chris deve rientrare. Ed ecco che sopraggiunge
un'auto da cui scende il "Grande Man".
Ci rendiamo conto, forse solo allora, di essere in procinto di assistere
ad un evento che non capita di frequente. Una formazione colossale che riunisce
i massimi esponenti del panorama jazzistico mondiale degli ultimi quarant'anni:
Herbie Hancock, Vinnie Colaiuta,
Dave Holland,
Chris Potter, tutti riuniti sullo stesso palco. Loro sono gli artefici del
progetto che ha fruttato a
Herbie Hancock niente meno che un Grammy per il miglior disco dell'anno,
nel 2007: l'album "River:
The Joni letters".
L'album
fu registrato con
Wayne Shorter al sax, mentre ora, in tournée, abbiamo Chris Potter.
Ma date le indiscusse capacità di questo artista, possiamo solo dire che il posto
che ora occupa è meritatissimo.
Con loro, vi è il giovane chitarrista
Lionel Loueke,
nativo del Benin (solo pochissimi anni fa apriva i concerti di
Herbie Hancock, dopo essersi trasferito dalla nativa Africa prima a
Parigi poi negli Stati Uniti e lì diplomandosi presso il prestigioso Berklee
ed il Thelonious Monk Institute of Jazz di Los Angeles.).
Hancock è stato il suo mentore dal momento in cui lo ascoltò per la
prima volta, restandone impressionato per la sua tecnica ed abilità.
Loueke è
considerato uno dei nuovi talenti della chitarra jazz, un artista che sicuramente
ha molte cose da dire. Ha già dimostrato di trovarsi a proprio agio nei contesti
musicali più vari, spaziando agilmente dal jazz degli anni '60 al jazz elettrico,
al funky ed alla fusion, così come si è cimentato in sperimentazioni vocali. Un
musicista giovane ormai proiettato nello scenario del jazz mondiale, ma che ha anche
mantenuto le proprie radici ben salde nel cuore della nativa Africa.
Alla
formazione strumentale si uniscono anche due vocalists: la giovanissima
Sonya Kitchell, bionda, in
abito nero, ed
Amy Keys, nera, in abito bianco.
Le due cantanti non sono le voci presenti nell'album "River: The Joni
letters", ma in questa sede interpreteranno egregiamente alcuni dei brani del cd
ed altri pezzi via via illustrati da
Hancock.
Sonya
Kitchell ha manifestato il proprio talento fin dalla primissima infanzia ed
oltre che cantante è anche compositrice, chitarrista ed autrice di testi. Ha inciso
il suo primo album a 17 anni. Per quanto appaia incredibile, ora Sonya ha soltanto
19 anni!
Amy Keys vanta innumerevoli collaborazioni, specialmente in ambito soul,
funky e blues, ed ha un album al suo attivo. Ex Miss Maryland, partecipò nell'83
alle selezioni per Miss America. E' dotata di una voce tipicamente "black", dall'estensione
veramente notevole.
Il grande palcoscenico è occupato al centro da un pianoforte Fazioli. La
strumentazione elettronica, tutta attorno, è imponente, e sicuramente il service,
durante questa tournée serratissima, ha avuto parecchio da fare! Nel prosieguo ci
accorgeremo purtroppo che il suono non sarà sempre all'altezza dei protagonisti
del concerto. Un peccato, ma questo piccolo neo non ha sicuramente offuscato questo
magnifico evento.
Accanto al pianoforte, proprio di fronte al pubblico vi è un synth Korg,
"OASYS", collocato a 90° rispetto al piano, per consentire a
Hancock di passare rapidamente da uno strumento all'altro. Dietro, si
intravede un controller Roland
AX-7 al quale al momento nessuno bada particolarmente, ma che ci riserverà
delle sorprese nel finale. Uno schermo è collocato sopra al pianoforte, al posto
del leggìo.
Hancock si avvale dell'interfaccia della
MuseResearch, Inc. "Receptor".
Il lato destro del palco è occupato dalla batteria di Colaiuta.
Vi è quindi, la postazione di Potter ed ultimo a destra
Dave Holland,
che alternerà il basso elettrico al contrabbasso.
Holland
e Potter da diversi anni militano assieme nel grande quintetto del bassista
inglese, insieme a Robin Eubanks, Steve Nelson e Nate Smith.
Lo stesso Potter ha sempre riconosciuto di aver ricevuto un grandissimo stimolo
da parte di Dave
Holland, con il quale ha maturato un'esperienza musicale veramente importante.
Ci siamo: gli artisti sono tutti davanti a noi, accolti da un boato del pubblico.
Herbie Hancock presenta i musicisti e scherza. D'altra parte è quasi
superflua ogni presentazione, visto di chi si tratta! Illustra i brani, fa qualche
battuta simpatica e suona alternandosi rapidamente fra pianoforte e synth, con il
quale crea tappeti sonori intersecati all'accompagnamento pianistico.
Vi sono da subito alcuni momenti improvvisativi, ma senza eccessi.
Questa tournée si basa principalmente sui brani che fanno parte degli
album "River. The Joni letters" del 2007, e
"Possibilities" del 2005, due progetti nei quali
Herbie Hancock ha aperto ancor più che in passato le porte alla musica
nel senso più vasto del termine, includendo situazioni non prettamente jazzistiche,
ma anche pop, rock, hip-hop, soul.
Astute
manovre commerciali? Forse, secondo alcuni. Geniale lungimiranza ed abilità incontrovertibile,
secondo altri.
La maggior parte dei giudizi propende per la seconda ipotesi, perché si tratta
di progetti interessanti e credibili, perché un artista come
Hancock ha dedicato la propria vita a sperimentare veramente di tutto,
senza barriere di nessun tipo, spinto dalla grandissima curiosità di trovare continuamente
impasti nuovi, ritmi inconsueti, effetti elettronici, strumenti inusuali, derivanti
dall'incontro ed alla fusione dei generi musicali più vari, ma sempre con grande
attenzione alle radici africane del jazz, come si avverte molto tangibilmente in
questo concerto. Come giustamente è stato osservato da altri critici, se Hancock
si fosse trincerato sulle proprie posizioni di jazzista "puro", oggi avrebbe una
platea affezionata sì, ma sicuramente più limitata, mentre con le scelte che ha
operato negli anni, è riuscito a sensibilizzare e ad interessare un pubblico vastissimo.
Ad ogni suo concerto presenziano mediamente un migliaio di persone che accorrono
entusiaste ad ascoltarlo.
La sua ultima sperimentazione, appunto "River: The Joni letters", ha seguito
una genesi insolita, differente da tutti i progetti precedenti: quella originata
dalla magia del testo e della poesia. La parola è diventata fonte principale di
ispirazione. I testi di Joni Mitchell sono molto suggestivi, sono immagini
dirette, immagini che colpiscono. Pensieri rapidi e nitidi che ci fanno immediatamente
trovare al centro delle situazioni descritte dall'autrice.
Vi suggerisco di dare un'occhiata a questo sito, che li contiene tutti, ordinati
alfabeticamente: (http://jonimitchell.com/musician/alpha.cfm).
Bisogna riconoscere che tutti i progetti di
Hancock, durante oltre 40 anni di carriera, hanno sempre riscosso un
successo considerevole, soprattutto da parte del pubblico, cosa veramente notevole
in un contesto oggettivamente elitario e "per pochi" come è considerata solitamente
la musica jazz.
Successo di massa, a partire dalle sue incisioni con il quintetto di Miles
Davis, agli Head Hunters degli anni '70 ed ai progetti successivi, ma
anche al suo magico trio del '77 con Ron Carter e Tony Williams, per
arrivare al piano solo ed alle sue produzioni più recenti con voci appartenenti
al mondo della musica "leggera", pop e rock. Successo confermato anche in occasione
dei suoi concerti dal vivo tenutisi negli ultimi anni, dove in una sola esibizione
dimostrò di essere a proprio agio in tutti questi vari contesti musicali. Ricordiamo,
uno per tutti, il riuscitissimo concerto del novembre 2006
all'Università
di Berlino.
La sua attuale tournée europea, a mio parere, si avvicina molto a questa
sua precedente performance.
Hancock è un artista che ha sempre affrontato le nuove esperienze musicali
con entusiasmo, con gioia e freschezza quasi infantili, caratterizzate da quel suo
sorriso realmente divertito mentre suona, quel sorriso di quando aveva poco più
di 30 anni, come lo si vedeva anche nel celeberrimo film di Tavernier,
Round
Midnight. Lo stesso identico sorriso che ha ancora oggi, a 68 anni.
I primi due brani cantati sono "All I want"
e "When love comes to town" la cui intro dal
sapore blues è uno scambio di frasi fra chitarra e voce e strappa un grosso applauso
per le doti vocali di Amy Keys, davvero notevoli nell'imitare e ripetere
il fraseggio suggerito della chitarra di Loueke.
Poi ancora, ascoltiamo "River" con
Sonya Kitchell, che duetta con Amy Keys.
Anche Sonya Kitchell dimostra grande grinta, in un bellissimo scambio
con
Hancock al piano, molto serrato, incalzante, che crea un crescendo
di tensione emozionante e davvero coinvolgente e la soddisfazione la si legge anche
sul volto compiaciuto di
Hancock.
E' la volta di un brano composto da Lionel Loueke, che viene descritto
da
Hancock come un pezzo molto difficile da eseguire: "Seven
Teens"...Viene da associare il titolo ai teen agers, ma
Hancock ci spiega che gli adolescenti non c'entrano. Struttura difficilissima
in 17/4, se rapportata ai consueti 4/4 o al massimo ai 3/4 ai quali siamo generalmente
abituati. Potter,
Holland
e Colaiuta sono esemplari.
E'
il momento di
Dave Holland, completamente solo con il suo contrabbasso, in una
lunga improvvisazione che incanta il pubblico, silenzioso ed attentissimo, dall'inizio
alla fine del brano.
Rientra la band al completo. Sempre da "Possibilities" segue il celebre
brano di Leon Russell, "A song for you", con
la bella voce di Amy Keys.
Herbie Hancock ricorda che questo pezzo fu interpretato e reso celebre
da Donny Hathaway,
nell'incisione del 1971.
L'interpretazione di Amy Keys è molto suggestiva ed emozionante e
segue la bellissima introduzione di
Herbie Hancock al pianoforte. Esposto il tema, ascoltiamo quindi l'
improvvisazione, non solo vocale, ma "a due voci", fra la Keys e Potter
al sax. Le loro frasi si inseguono e si intersecano magistralmente.
Amy Keys ha una voce nera da soul music, dotata di un'estensione più che
notevole. Una voce possente, calda e piena, ma capace anche di diventare cristallina,
sottile ed acutissima. E' capace di eseguire frasi lunghissime senza doversi interrompere
per riprendere fiato, come farà nell'ultima parte del brano.
Sul
finale a mio parere traspare maggiore tecnica e minore sentimento, rispetto alla
prima parte del pezzo. Ma questa non è affatto una critica: Amy ha dimostrato in
questo modo di possedere entrambi gli skills ed ottiene, meritatamente, un caloroso
applauso.
Di nuovo il palco è tutto per Lionel Loueke, il quale ora con chitarra,
voce e pedaliera, inventa un brano al momento. Come dice
Hancock, si tratta di qualcosa di inedito. Tutto da scoprire. Chitarra
sì, ma suonata in un modo insolito, parole, schiocchi fatti con la lingua, sonorità
gutturali, incastri ritmici dove l'Africa fa da padrona. Lionel coinvolge il pubblico
facendo battere le mani in sequenze di tre beats, e facendo pronunciare sillabe
di una lingua purtroppo per noi sconosciuta, incastrando le due cose ad effetto,
in un'abile performance che diverte il pubblico. Nel mentre rientra la band ed il
brano prosegue ora a formazione completa. Il passaggio dalla chitarra sola al quintetto
è avvenuto con estrema naturalezza.
Vinnie Colaiuta finalmente si fa sentire in modo deciso, in un bell'assolo
che il pubblico stava senz'altro aspettando da un po' ed il lungo brano quindi si
conclude.
Nei
vari brani, in generale, si avverte un grande equilibrio, nessuno strumento prevarica,
pur dando il meglio di sé, ma sempre in un discorso corale, dove ciascun musicista
(nel ruolo di "accompagnatore") si adopera per dare il massimo sostegno ed il massimo
spazio ai solisti o alle voci.
Si è preferita la formula di concedere ai solisti, nell'arco del concerto,
uno spazio individuale, prima a Loueke, poi a
Holland,
ed ora a
Hancock in una parentesi per piano solo che ci proietta nelle sonorità
della musica classica contemporanea, dal sapore decisamente europeo. Un approccio
virtuosistico, ma anche ironico. La conclusione del pezzo è infatti molto smitizzante
e scherzosa.
Si colgono due note familiari, in mezzo a quella cascata di suoni, ma sono
come un'apparizione fulminea, quasi un messaggio subliminale che comunque raggiunge
la nostra mente. Ci rendiamo subito conto che in noi si è creata come una strana
aspettativa latente.
Il
grande
Hancock continua nella sua performance libera, passando da attimi
di silenzio solcati da poche note ben scelte, a volate virtuosistiche che toccano
tutti i tasti del Fazioli. Poi ancora, ci offre poche note eteree, per poi scatenarsi
e chiudere la propria performance da solista con quel brano completamente diverso
rispetto al clima complessivo del concerto che appare invece molto più vicino all'Africa
che non all'America, ed ancor meno all'Europa.
Eppure, … quelle due note…
Sì, si tratta proprio di Cantaloupe Island!
Il teatro esplode in un applauso fragoroso. In fondo questo brano "è"
Herbie Hancock. Ognuno di noi lo voleva ascoltare, in effetti! Dopo
l'avvio consueto, solo un po' più dilatato nell'intro e con l'esposizione del tema
eseguita da Potter al sax tenore, il brano incomincia a crescere. Aumenta la tensione.
Variano le dinamiche. Potter strabilia. Hancock trasforma quel pezzo in qualcosa
di nuovo e mai ascoltato prima, come del resto fa in ogni suo concerto dal vivo,
dimostrando l'infinità di variazioni possibili su un brano armonicamente semplice
com'è Cantaloupe Island.
Anche questa sera lo modifica, lo riarmonizza, creando sonorità ed atmosfere
inedite e porta l'entusiasmo del pubblico ai massimi livelli. La band lo segue,
sta al gioco.
Ma
Hancock, da grande uomo di spettacolo qual è, lui che conosce bene il
suo pubblico, non si accontenta di questo! Vuole ancora di più. Vuole un finale
esplosivo. Il pubblico in piedi chiede un bis, due bis, tre bis.
Hancock rientra in scena subito, e questa volta imbraccia il controller
Roland bianco, l'AX-7, quello che avevamo notato sin dall'inizio, ma che avevamo
quasi dimenticato di aver visto, incantati da due ore di grande musica.
E' il momento "elettrico", un ritorno agli anni 70: è il momento di
Chameleon e degli Head Hunters!.
Nuova ovazione. L'entusiasmo del pubblico ora è incontenibile. Gli applausi
aumentano esponenzialmente quando
Hancock e Potter improvvisano dialogando fra di loro in maniera
serratissima, creativa e grintosa, ma anche giocosa e divertita. Potter dà veramente
il massimo di sé.
Hancock appare veramente compiaciuto, i due si spronano a vicenda, difficile
dire ora chi conduca il discorso. Potter è un uragano e
Hancock gli risponde per le rime, sfoderando con quello strumento a
tracolla una quantità infinita di idee, frasi, interventi ritmici, effetti.
Holland
e Colaiuta a loro volta ridono, trasportati dal groove contagioso che si
è creato.
E' un momento di grandissima gioia collettiva, che la formazione condivide
con il grande Herbie e con tutto il pubblico presente.
Herbie Hancock ci regala di nuovo quel suo sorriso che non è mai cambiato
e che ci riporta di colpo indietro di più di trent'anni: Siamo tutti di nuovo nel
1973 in compagnia del funky degli Head Hunters!
Anche il terzo bis è un funky elettrizzante eseguito in modo molto teso
che porta l'entusiasmo al clou. Ora sì che Herbie è soddisfatto!
Si chiude così questo concerto memorabile. La tranquilla Aosta è letteralmente
impazzita sotto alla struttura bianca del Teatro Tenda, in un'atmosfera arroventata.
Dopo due ore di concerto in continuo crescendo ed un finale infuocato, il pubblico
si placa ed ora sta scivolando lentamente fuori dalla grande struttura.
E' una notte fresca di montagna, silenziosa e quieta. Il cielo ora è finalmente
terso, illuminato dalla luna che sbuca dal profilo frastagliato e nero dei monti
in controluce.
Mi incammino lentamente per le vie antiche del centro di Aosta, mentre mi
risuonano ancora nella mente i riffs tesissimi del basso elettrico di
Dave Holland
negli ultimi brani del concerto e penso fra me: "io c'ero, nel ''73…"
Ed ora, mentre scrivo, mi dico che c'ero anche in questa notte incredibile,
35 anni dopo…Certi appuntamenti non si possono proprio mancare.
Galleria Fotografica:
(by Fabrizio Airola)
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18/08/2011 | Gent Jazz Festival - X edizione: Dieci candeline per il Gent Jazz Festival, la rassegna jazzistica che si tiene nel ridente borgo medievale a meno di 60Km da Bruxelles, in Belgio, nella sede rinnovata del Bijloke Music Centre. Michel Portal, Sonny Rollins, Al Foster, Dave Holland, Al Di Meola, B.B. King, Terence Blanchard, Chick Corea...Questa decima edizione conferma il Gent Jazz come festival che, pur muovendosi nel contesto del jazz americano ed internazionale, riesce a coglierne le molteplici sfaccettature, proponendo i migliori nomi presenti sulla scena. (Antonio Terzo) |
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Data pubblicazione: 16/09/2008
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