Intervista con Rosario Di Rosa Riflessioni con pop corn annessi.... Milano, 2 marzo 2015 di Gianmichele Taormina foto di Amedeo Novelli
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Si intitola "Pop Corn Reflection", in uscita il 21 marzo per
la Nau Records, il nuovo intrigante episodio discografico di Rosario Di Rosa, pianista
"colto, capace di spaziare dal jazz anni Trenta, al bop, al free" (come cita Flavio
Caprera nel suo Dizionario Del Jazz Italiano). Ma Rosario non è solo questo. È un
prezioso "architetto" dal fraseggio lirico e dagli interessi multiformi: Hi-Tech
e musica contemporanea, pop, rock e minimalismo concreto, fraseggio poetico e delicato
ma anche virtuosismo poderoso e trascinante. "Pop Corn..." è il disco della svolta
e annuncia con esplicita efficacia una nuova fase di ricerca e di raggiunta maturità
artistica meritatamente conquistata dal quarantenne pianista siciliano. Un musicista
"del tutto" con i modi del jazz e il cuore altrove... Vediamo di scoprirne verso
quale direzione.
Parliamo subito di questo tuo
nuovo cd. Quinto per la precisione. Come lo definiresti dandogli cinque aggettivi?
Contemporaneo, diverso, sintetico, concettuale, improvvisato.
Esatto! E di tutte a mio avviso, quella che emerge maggiormente
in questo tuo lavoro è la dimensione contemporanea... È stato un lungo ragionamento
quello da te operato per imprimere questa scelta di campo o c'è dell'altro? "Pop Corn Reflections" manifesta appieno una mia precisa e costante esigenza
di mettermi in discussione. Cosa che è andata accentuandosi nel corso degli ultimi
anni. Poco dopo la pubblicazione di "YAWP!!!", che ha ottenuto molto in termini
di consensi critici ma poco in termini di visibilità lavorativa, mi sono ritrovato
in uno stato di totale disillusione. Un certa compagine discografica e concertistica,
in cui spesso aleggia una ritrosia ingiustificata nell'accogliere progetti "diversi"
dall'ordinario, stava quasi per indurmi ad abbandonare nuove idee per la realizzazione
di altri progetti musicali. Per mia fortuna l'incontro con la Nau Records di Gianni
Barone mi ha restituito quella spinta creativa e l'entusiasmo necessari. Una spinta
che mi ha portato in ambiti che fino ad allora conoscevo poco, legati all'area della
musica "classica". Avevo la sensazione che da lì potessero arrivare nuovi stimoli
di ispirazione e crescita musicale. Così ho deciso di (ri)studiare pianoforte stavolta
sotto la guida di due grandi didatti nonché concertisti: dapprima col Maestro Leonardo
Leonardi e successivamente con il Maestro Manuela Dalla Fontana. Con quest'ultima
ho avuto modo di approfondire anche le opere di compositori del Novecento (Debussy
e Schönberg) fino ai contemporanei come Arvo Pärt. Tutta questa musica che, per
la prima volta mi passava sotto le dita (unita a quella della corrente minimalista
di Steve Reich e Terry Riley che nel frattempo aveva cominciato a interessarmi),
non poteva non lasciare tracce. "Pop Corn Reflections" riflette dunque questo processo
di personale crescita, unito alla mia volontà di realizzare un disco che potesse
costituire un punto di svolta all'interno del mio percorso.
Nei variegati mondi di "Pop Corn Reflection" si riscontrano
anche schegge di elettronica ben dosata oltre a riferimenti e ispirazioni da te
or ora dichiarate nei confronti della musica minimale di Steve Reich. Come sei giunto
a questi parametri? Nel momento in cui con Gianni Barone pianificammo quale poteva essere
la prima pubblicazione con la Nau Records, arrivò subito l'idea di un nuovo disco
in trio. Avevo già frequentato questa formazione in passato, ma adesso diventava
mia precisa intenzione realizzare qualcosa di diverso. Un disco di trio con pianoforte
che suonasse in maniera "altra". Parallelamente avevo già manifestato da tempo l'interesse
di realizzare composizioni "minime" in cui non era previsto un tema "composto",
ma poteva essere improvvisato ogni volta pur essendo riconoscibile all'interno del
brano. Così presi le mosse da certi approcci compositivi di Reich o della musica
seriale della seconda scuola di Vienna che potevano garantirmi una certa "diversità"
di suono di gruppo e, al contempo, una nuova organizzazione formale dei pezzi. Arrivai
all'idea di un pattern, inteso come cellula generatrice, che in ogni brano poteva
assumere caratteristiche diverse e approfondire pochi aspetti per volta del linguaggio
musicale. Nell'ottica timbrica si innesta chiaramente anche l'utilizzo dell'elettronica,
col preciso intento di considerarla come "elemento in più" dal punto di vista espressivo.
E guardando al passato? Restano in te gli insegnamenti
di Bill Evans,
Paul Bley,
Salvatore Bonafede...? Mi riferisco in particolare ad una tua splendida
composizione all'interno del disco: "Spring n. 35"... ma anche ad un'altra che non
è da meno: "Pattern n, 1 – Arpeggi". "Spring n.35", in particolare, riflette il mio amore per la melodia
trasmessomi da Salvatore Bonafede, il mio insegnante "storico" di pianoforte
jazz. Spesso, durante le sue lezioni, discutendo di Paul Bley o di
Bill Evans
era facile che si arrivasse a parlare di "bel canto" e melodia, aspetto che tra
l'altro risulta evidente anche nel suo stile compositivo. Inoltre, Paul Bley
ha avuto una grande influenza sul mio modo di suonare soprattutto gli standard,
per il suo approccio asimmetrico di porre le frasi cantabili all'interno del giro
armonico. Quando si trattò dunque di utilizzare un pattern di tipo melodico, mi
venne naturale assecondare questa indole, accentuata dall'esclusione dell'aspetto
ritmico.
Come ti sei trovato all'interno della scuderia Nau Records
ideata dal produttore Gianni Barone?
Un giorno ricevetti una telefonata da Gianni Barone, che non conoscevo, il quale
mi propose di tenere un concerto in piano solo per Jazz Indiehub, una rassegna milanese
da lui curata. Quando ci incontrammo mi parlò anche della Nau Records, questa nuova
etichetta votata al jazz più contemporaneo che aveva fondato nel
2011. Successivamente fui io a proporgli una
collaborazione. Ero rimasto colpito dalle sue parole che trasudavano voglia di fare
e dal suo spirito che le avrebbe rese concrete. D'altra parte credo che lui si aspettasse
la mia proposta, tant'è che la accettò immediatamente.
Il trio presente in "Pop Corn Reflection" è oramai quello
storico al quale fai affidamento. Una formazione davvero ben consolidata nel tuo
percorso artistico costruito in questi ultimi anni. Come fate a raggiungere tali
livelli di empatia?
Questo trio è la formazione che avevo sempre voluto. Non un semplice gruppo con
un leader che detta regole, ma una sorta di laboratorio dove ognuno possa esprimersi
liberamente e in maniera funzionale al progetto. Esiste dal
2009 e da allora, Paolo Dassi e Riccardo
Tosi hanno sempre dimostrato un entusiasmo incredibile per ogni idea che proponevo.
Nel corso degli anni abbiamo anche instaurato uno stretto rapporto sul piano umano,
altro aspetto per me fondamentale. Credo che questa sintonia e amicizia che ci legano
risultino evidenti anche quando suoniamo. In "Pop Corn Reflections" in particolare,
questa peculiarità costituisce l'elemento che fa la differenza.
Sei un eccellente e valido docente ma a tua volta continui
a studiare musica classica. Qual è il tuo metodo di studio sia nel versante jazz
che in quello accademico?
In realtà anche quando studio non faccio distinzione tra i generi. Il mio metodo
consiste nel cogliere elementi che ritengo possano servirmi dai rispettivi ambiti,
creando una sorta di osmosi continua. Se studio un preludio di Debussy, lo analizzo
dapprima dal punto di vista armonico dopodiché mi concentro sull'aspetto peculiare,
ossia quello timbrico. Successivamente tento di riportare tali accorgimenti timbrici
adattandoli alle composizioni di jazz. Stesso discorso vale, ad esempio, per la
musica di Bach o di Scarlatti in merito all'equilibrio tra destra e sinistra. Analizzo
i movimenti contrappuntistici per poi usarli magari in uno standard di Cole Porter
che suono in piano solo.
Qual è il consiglio che daresti a un giovane che si avvicina
oggi allo studio di uno strumento per suonare jazz?
Semplicemente di essere sé stesso. Di studiare a fondo la tradizione e il linguaggio
di questa musica senza dimenticare mai di lasciare una porta aperta alla creatività
e alla curiosità. Spesso incontro ragazzi giovanissimi che parlano e suonano solo
jazz come se esistesse unicamente questa musica e nient'altro. È chiaramente un
atteggiamento che mutuano da alcuni musicisti più anziani, che sono rimasti agli
anni Cinquanta nel modo di concepire e suonare jazz. A sedici anni non puoi conoscere
solo
Phil Woods e non sapere nulla dei Radiohead o dei Nirvana, tanto
per dire. Sono convinto che il tuo jazz possa essere migliore se racconta a chi
ascolta le influenze che nel tempo ti hanno formato.
Tu invece? Come e quando hai percepito la chiamata a diventare
pianista?
A sette anni avevo tentato di studiare chitarra elettrica, ascoltavo già rock su
45 giri. Ma l'unico insegnante che a quel tempo esisteva a Vittoria (in provincia
di Ragusa), mi impose la chitarra classica e il solfeggio. Così abbandonai subito
e mi dedicai al disegno e alla pittura fino ai diciassette anni. Nel frattempo i
miei avevano affittato un pianoforte per mia sorella, che per un breve periodo prese
lezioni. Cominciai a studiare da solo i pezzi che avrebbe dovuto eseguire lei perché
ero sempre stato affascinato dal pianoforte. Mi ritrovai così in una cantina con
altri miei compagni di scuola a suonare una tastiera in un gruppo, diciamo rock.
Il jazz arrivò dopo, per caso, e mi impressionò quasi subito. Soprattutto Thelonious
Monk che da allora mi ricorda sempre, attraverso i suoi dischi, del perché mi
piace il jazz.
Qual è il tuo background musicale? I riferimenti saldi
del tuo linguaggio?
Componente essenziale del mio background è stato sicuramente il rock. Dai Kiss
ai Rolling Stones, fino ai Foo Fighters. Credo che questi ascolti
abbiano lasciato traccia indelebile nel mio modo di suonare, molto spesso energico
e fortemente ritmico. In ambito jazzistico, a parte Monk che sta alla base di tutto,
Herbie Hancock,
Franco D'andrea
e Martial
Solal credo siano i musicisti che più mi hanno influenzato. In merito
alla composizione invece i miei punti di riferimento sono
Andrew Hill,
Herbie Nichols e
Salvatore
Bonafede.
Sei o no affezionato a determinati tuoi lavori discografici,
e se è si perché?
Tra i miei lavori discografici ricordo sempre con molto piacere il primo, "Voices",
in duo con Carlo Nicita. È stato l'inizio di tutto ed è stato realizzato
in un periodo ricco di spensieratezza e di aspettative. Poi, per natura, mi affeziono
sempre all'ultimo disco, perché ritrae in maniera più fedele dei precedenti il mio
modo di vedere la musica che fisiologicamente muta nel tempo assieme a me.
Quanto ancora pensi di poter dire musicalmente? Quali sono
gli scogli che vorresti superare?
Per dirla alla Alessandro Bergonzoni, mi piacerebbe arrivare a essere un "Anzian
Prodige", ovvero colui che fa cose mirabolanti fino alla fine. A patto chiaramente
che le mie cose lo siano, mirabolanti. Per quanto riguarda gli scogli, fortunatamente
la musica ne presenta talmente tanti che non ci sarebbe spazio a sufficienza per
descriverli tutti.
Un desiderio nascosto. Innanzitutto dove lo nasconderesti?
Cassetto, armadio, luogo introvabile? Oppure lo espliciti?
Mi piace tenere i desideri in maniera disordinata in giro, così da poterli avere
sempre sott'occhio. Quello più grande che ho è riuscire a mantenere intatta nel
tempo quella sensazione di stupore per la musica.