Intervista a Pete LaRoca Sims
di Antonio Terzo
pubblicata sul numero di settembre 2008 di
jazzColours (Anno I, n° 7)
Già drummer di Coltrane, Rollins, Bley, Lloyd e la McPartland, per un
po' Pete LaRoca Sims aveva fatto perdere le proprie tracce.
Nel 2008 l'allora ultrasettantenne batterista,
tornava a suonare in un vibrante mini-tour francese e rilasciava quest'intervista
in cui rivelava i retroscena di storiche registrazioni, il rapporto con leggendari
bassisti, la vera natura del suo approccio alle musiche e filosofie orientali, le
sue aperture al resto del mondo.
Per ricordarlo a pochi giorni dalla sua scomparsa
(19 novembre 2012), e mostrare quanto siano attuali
le riflessioni di questo grandioso batterista, che ha segnato la storia del jazz.
La sua carriera inizia circa 50 anni fa: che innovazioni pensa d'aver apportato
alla batteria jazz?
Come accompagnatore ho sempre adottato e cercato di perseguire l'idea di agevolare
il flusso del tempo. Fondamentalmente il piatto ride si unisce al basso per un
pulse scorrevole non accentato. Tale flusso è concepito per fornire ai solisti
una base non troppo invasiva, e permette a me di scegliere al momento accenti e
figurazioni di complemento allo sviluppo del solista, al tema sottostante e/o all'ensemble.
È vivace e rispondente a ciò che avviene sul palco. Prediligo un approccio non invasivo
perché per me la batteria è sempre strumento d'accompagnamento: non voglio interferire
con il solista o dirigerlo, solo incoraggiarlo a suonare al massimo. Come solista,
poiché la batteria non consente di variare l'altezza del suono o creare armonie,
uso altri modi per rendere l'assolo più intellegibile e piacevole per il pubblico.
Ad esempio, adopero la fine di una idea ritmica come inizio della successiva. Oppure,
se un motivo ha un particolare ritmo, suono la melodia: senza un pitch definito
posso solo darne un'approssimazione, ma se l'ascoltatore segue il pezzo internamente,
come credo facciano molti ascoltando un assolo, allora riuscirà a cogliere l'idea.
Non so se siano innovazioni, ma altri batteristi usano metodi diversi.
Come andò la storia del suo avvicendamento con Elvin Jones in "A Night
at Village Vanguard" di Rollins?
Questo può saperlo solo Sonny. Ad ogni modo non ci fu un vero e proprio avvicendamento.
Quello al Vanguard fu il mio primissimo lavoro con un artista di vaglia, avevo solo
19 anni. Feci l'intero ingaggio da martedì a sabato, giorno d'inizio dell'incisione.
Come prestabilito, Elvin suonò e registrò tutta la domenica, che includeva pure
una matinée. Ho sempre ritenuto che Sonny volesse i batteristi più esperti, quindi
le domande cruciali sono: perché registrò sabato e come mai non iniziò subito Elvin?
Personalmente non ne ho la più pallida idea. Io ero nuovo e avrei accettato qualunque
cosa. La mia prima volta su un disco: è un bel ricordo e sono lieto d'esservi stato
incluso.
Fra le incisioni che la legano a Paul Bley figura "Floater", con
Steve Swallow:
che contributo ritiene di aver dato a quella musica e al trio?
Mi premeva, come sempre, mantenere il mio stile di swing. Inoltre, desideravo semplicemente
suonare con empatia, specie con Paul, dato che era un suo album. Può darsi che,
avendo iniziato con la musica sinfonica, io sia recettivo verso certe idee e sollecitazioni
musicali più ai margini del jazz tradizionale. Almeno mi piace pensarlo. Un complimento
che mi ha fatto piacere ricevere è venuto da Wynton Kelly, che mi disse che
avevo "buone orecchie": risorsa importante per un accompagnatore il cui obiettivo
primo è essere sensibile e reattivo a quanto viene suonato. Forse è stata questa
reattività il mio contributo a "Floater".
Il suo primo disco da titolare è "Basra" (Joe Henderson,
Steve
Kuhn,
Steve Swallow),
stesso nome di una città irachena: come mai?
Quel titolo suonava misterioso, evocativo, romantico: avrebbe potuto essere "Desert
Sands". A causa dell'attuale conflitto fra Stati Uniti e Medio Oriente, ho chiesto
alla Blue Note
che per la ristampa nella serie RVG – Rudy Van Gelder il titolo fosse cambiato in
"Lazy Afternoon, formerly Basra". Ho un cugino in marina e preferirei glissare.
La Blue Note
ha deciso di non pubblicare l'edizione RVG negli USA, distribuendola però in Europa:
ovvio che su Internet resti pur sempre un'uscita mondiale, il che vanifica la mia
richiesta.
Il brano Basra ha una struttura mono-accordale: è da considerare una composizione
"modale", o piuttosto anticipa il suo interesse per le sonorità orientali?
Certo il jazz modale era comune già prima di Basra. Il mio interesse per
la musica indiana ed orientale, seppur comprensibile, viene esagerato. "Basra" fu
il primo album, il secondo si intitolava "Turkish Women at the Bath": sarebbe illogico
non fare deduzioni. Però, di fatto "Turkish Women" non fu una mia scelta: Alan Douglas
della Douglas Records mi diede una stampa del dipinto di Ingres con quel nome e
mi chiese se volessi fare un album jazz basato su quello. Da cinque anni per vivere
facevo il tassista, quindi risposi di sì: con questo non intendo affatto svilire
quel mio lavoro o l'offerta di Alan. Così basai ogni brano dell'album su un tema
tratto da sei-sette lavori di artisti mediorientali — tranne And So..., un
riepilogo dei precedenti. Dilagava la tendenza a prendere elementi del jazz (armonia,
gergo, ecc.,) ed inserirli in altre musiche, chiamando il risultato jazz di un qualche
tipo. A me interessava trovare materiale originale di altra musica da portare nel
jazz e trattare con swing. Ad esempio in "Swing Time" (Blue
Note), il mio disco più recente — forse messo anzitempo fuori produzione
— i brani "etnici" sono Drum Town, con temi africani, e Nihon Bashi,
con sonorità giapponesi; inoltre non ho mai inciso Baía, brasiliano, e
Bolero, una composizione originale in stile latino. Non avendo sufficienti opportunità
di lavoro per illustrarlo compiutamente, tale interesse è stato male inteso e focalizzato
sulla sola musica orientale, che mi piace e rispetto tantissimo, ma non preclude
l'interesse per altro.
Perché inserì Malagueña?
Miles aveva inciso "Sketches of Spain", Coltrane aveva almeno un brano di derivazione
spagnola: ne ascoltai uno associato alla corrida, ma non ricordo il titolo. Dati
i musicisti coinvolti — specie Henderson, partner di molte delle mie esperienze
musicali più belle, sia da leader che da sideman — Malagueña parve
una buona scelta.
Quale è la relazione fra jazz e musica indiana?
Non penso debba esserci, se non per l'immancabile scambio fra dialetti artistici.
Come nella musica sinfonica, le cui tecniche non potrebbero essere trasposte in
swing. Eppure, il jazz è dato da aspetti di musica africana combinati ad elementi
di quella europea, dunque è lecito uno scambio reciproco. La musica indiana ha invece
origini differenti. La delicata complessità della tabla, il modo in cui spesso si
intreccia al contesto melodico non si combinano al ritmo, anche il più lieve, del
jazz. Sul piano armonico, la musica indiana può essere considerata modale, ma i
jazzisti preferiscono le progressioni armoniche, usando i modi per lo più come diversivo.
Quanto alla melodia, ritengo che, accanto alla tradizione, grande peso abbia la
parola, testi inclusi. Molta musica indiana non ha poi una melodia considerabile
tale all'orecchio di un jazzofilo. Si tratta di punti di potenziale incompatibilità,
non di giudizi di merito. L'attitudine ad esplorare fonti non jazzistiche da rendere
in swing mi ha portato a scrivere un brano raga, utile per variare un normale set:
purtroppo non riesco a suonare tanto da avere una scaletta di routine cui possa
servire tale variazione!
Fra i rinomati bassisti con cui ha suonato, da La Faro a Swallow, con chi si
è trovato più sintonia?
Come accompagnatore non do giudizi né ho preferenze: il mio lavoro è sempre assecondare
ciò che gli altri stanno suonando, bassista incluso. Detto ciò, con ogni bassista
la relazione è unica, speciale. Probabilmente la più memorabile è quella con Swallow,
perché, oltre agli ingaggi con Bley,
Steve
Kuhn, George Russell ecc., abbiamo suonato assieme per
due magnifici anni con Art Farmer, ed altrettanti con Marian McPartland.
Stavamo crescendo come musicisti, in giro con quei gruppi dividevamo camera e potevamo
parlare di musica, di ciò che cercavamo di fare. Avere tale rapporto, essere così
abituato al suo modo di suonare ha reso facile concentrarmi per sviluppare il mio.
Simile ma più breve è stata l'esperienza con Albert Stinson, con il quale ho suonato
per la McPartland e per
Charles
Lloyd. Particolare l'intesa con Gene Cirico, che era un batterista prima
che un infortunio gli facesse imbracciare il basso: grazie alla sua conoscenza della
batteria capiva subito ciò che stavo per fare. Come
Chick Corea,
pure lui batterista prima di darsi al piano. Quanto a La Faro, stava estendendo
il vocabolario bassistico in direzioni mai battute prima. Pensavo di star facendo
lo stesso con la batteria. Era impressionante quanto le nostre innovazioni si amalgamassero
facilmente e bene. Wilbur Ware è stato forse il bassista più completo che ho avuto
l'onore di accompagnare. Più di chiunque altro aggiungeva alla musica un che di
inatteso preso dal grande archivio della storia del jazz. Per qualche motivo era
ed è molto sottovalutato. Milt Hinton era il Grand Old Man, il grande vecchio:
almeno una generazione prima della mia, non si poteva non averne soggezione. Rispetto
a lui, Workman è il Grand Young Man, il grande giovane: incarna una tensione ben
più antica della sua età, da restarne basiti. Grimes era sempre un po' nebuloso,
eterno work in progress; ma è la mia opinione, a chiedere a lui risponderebbe
che è proprio dove vuole stare, e non voglio contrariarlo. Con Chambers e con
Carter
non ho suonato abbastanza da farmene un'idea fondata, ma sono un loro fan.
In cosa è cambiato oggi il modo di suonare la batteria?
Penso nella prevalenza del backbeat, l'accento su 2° e 4°movimento di una
misura di 4/4. Deriva dal battimani usato dagli schiavi americani ai quali per un
periodo fu proibito suonare i tamburi: un modo naturale di tenere il tempo, cui
pressoché chiunque con un battito cardiaco saprà rispondere. Di conseguenza, il
backbeat è parte integrante del gospel afroamericano e del R&B. "Bill Haley
& his Comets" fecero storia adottando vari elementi della black music, backbeat
incluso. Elvis lo rese più popolare, poi i Beatles lo portarono a livello di
lingua franca [sic!] internazionale. Oggi domina tutta la musica popolare, perfino
il country & western, in origine basato sul downbeat come gran parte del
folk. Per imparare gli intricati ritmi creati da più drummers, di solito
ascolto musica africana: a sentire ciò che arriva dall'Africa, oggi pure lì fanno
backbeat, per essere au courant. Vergognoso!
Ed il jazz è così diverso da quello degli anni '50-'60?
È la fusion a fare la differenza, e visto il suo successo, e quello analogo del
R&B, tanti grandi jazzisti vi hanno fatto ricorso: ed anche la fusion si basa sul
backbeat!
Applica gli esercizi yoga alla sua tecnica drumming?
Ho studiato yoga, Buddismo, misticismo, ecc., e ritengo abbiano influenzato il mio
approccio alla vita, ma non credo possano applicarsi alla tecnica. Forse con una
sola eccezione: non potendo pensare così velocemente come suono, suono soltanto,
senza pensare!
A suo avviso, un batterista che non possieda l'indipendenza degli arti è limitato?
Probabilmente sì, se parliamo di batteristi jazz. Immagino che l'indipendenza di
braccia e gambe possa non importare a molti batteristi rock, più interessati al
coordinamento. Dico "probabilmente" perché i batteristi jazz possono essere efficaci
anche senza indipendenza. Non è infatti indispensabile, è piuttosto come un ombrello:
meglio possederne uno e non averne bisogno che averne bisogno e non possederlo.
In questi anni ha fatto l'assistente in uno studio legale, e adesso torna a suonare:
cosa le ha fatto cambiare idea?
In realtà sono in pensione per problemi di salute, che per fortuna non mi impediscono
di suonare. Non parlerei di "cambiare idea". Ho guidato un taxi per cinque anni
prima di tentare d'essere ammesso a legge: il "cambiamento di idea" fu non pensare
che quel taxi fosse il capolinea. Altrimenti, avrei fatto meglio già a rassegnarmi
al backbeat: del resto non è che non sappia suonarlo! Ma trattandosi di salute
non è questione di "cambiare idea", bensì di accettare la realtà. Sono felice di
avere la musica cui tornare.
È una decisione definitiva sulla quale il mondo del jazz può contare?
È più uno stato definitivo, non una decisione. E sono io più preoccupato di poter
contare sul mondo del jazz!
18/08/2011 | Gent Jazz Festival - X edizione: Dieci candeline per il Gent Jazz Festival, la rassegna jazzistica che si tiene nel ridente borgo medievale a meno di 60Km da Bruxelles, in Belgio, nella sede rinnovata del Bijloke Music Centre. Michel Portal, Sonny Rollins, Al Foster, Dave Holland, Al Di Meola, B.B. King, Terence Blanchard, Chick Corea...Questa decima edizione conferma il Gent Jazz come festival che, pur muovendosi nel contesto del jazz americano ed internazionale, riesce a coglierne le molteplici sfaccettature, proponendo i migliori nomi presenti sulla scena. (Antonio Terzo) |
25/03/2010 | Hal McKusick si racconta. Il jazz degli anni '40-'50 visti da un protagonista forse non così noto, ma presente e determinante come pochi. "Pochi altosassofonisti viventi hanno vissuto e suonato tanto jazz quanto Hal Mckusick. Il suo primo impiego retribuito risale al 1939 all'età di 15 anni. Poi, a partire dal 1943, ha suonato in diverse tra le più interessanti orchestre dell'epoca: Les Brown, Woody Herman, Boyd Reaburn, Claude Thornill e Elliot Lawrence. Ha suonato praticamente con tutti i grandi jazzisti tra i quali Art Farmer, Al Cohn, Bill Evans, Eddie Costa, Paul Chambers, Connie Kay, Barry Galbraith e John Coltrane." (Marc Myers) |
28/11/2009 | Venezia Jazz Festival 2009: Ben Allison Quartet, Fabrizio Sotti trio, Giovanni Guidi Quartet, Wynton Marsalis e Jazz at Lincoln Center Orchestra, Richard Galliano All Star Band, Charles Lloyd Quartet, GNU Quartet, Trio Madeira Brasil, Paolo Conte e l'Orchestra Sinfonica di Venezia, diretta da Bruno Fontaine, Musica senza solfiti del Sigurt�-Casagrande Duo...(Giovanni Greto) |
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Data pubblicazione: 02/12/2012
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