Tra i sassofonisti che hanno suonato con
Monk – a dire il vero non molti – solo pochi sono riusciti ad assorbirne la poetica, così distante per le sue stravaganze fatte di pause, dissonanze, armonie labirintiche e melodie dolci ma allo stesso tempo spigolose. La verità è che, suonare la musica di quello strano pianista di New York era cosa, anche per quelli tecnicamente più preparati, veramente ardua. Tra questi,
Coltrane, non fu certamente quello che spiccò di
più, probabilmente anche a causa della collaborazione fra i due, tutt'altro che
lunga – più o meno sei mesi – grazie alla quale Trane riuscì però trovare quella
maturità musicale, che proprio in questi mesi subì una forte accelerazione,
concretizzandosi in quei liberi ed energici tessuti di suono che presero poi il nome di "sheet of sound".
Questo però non vuol dire che fra i due non ci fosse intesa: tutt'altro, e il concerto al Carnegie Hall sembre esserne la prova più evidente.
Con una registrazione decisamente migliore del "Live at Five Spot" – direi ottima – questo interessante documento, si pone all'attenzione dell'ascoltatore innanzi tutto come pagina storica, che oltre ad affascinare, coinvolgere, e contribuire all'esaltazione della musica di Monk, restituisce il legittimo valore ad una collaborazione breve ma straordinaria, in cui due diverse strade si incrociano brevemente nel percorso di inesausta ricerca della propria arte.
Inutile a questo punto parlare dei pezzi, capisaldi del repertorio jazz, che da cinquant'anni fanno impazzire i jazzisti di mezzo mondo. È utile piuttosto, sottolineare la straordinaria coesione fra i musicisti –
Abdul-Malik suonerà anni dopo in alcuni dischi di
Coltrane – che anche in brani lenti come Crepuscole with Nellie sanno ascoltarsi e interagire con pungente efficacia.
Si potrebbe continuare così fino all'infinito, elogiando l'una o l'altra caratteristica di musicisti incredibilmente fuori da quella normalità, oggi così inflazionata e magra di entusiasmo.
Marco De Masi per Jazzitalia