Mc Coy Tyner – Joe Lovano Quartet
Auditorium Parco della Musica – Roma, 03 maggio 2008
di Roberto Biasco
Alfred "McCoy"
Tyner, è un "sopravvissuto". Insieme a
Sonny Rollins,
Ornette
Coleman e pochi altri ancora attivi sulle scene, è uno dei grandi del
Jazz che, a cavallo tra gli anni sessanta e settanta ha segnato il corso definitivo
della musica afroamericana.
Con cinquant'anni anni di carriera alle spalle ha attraversato quasi tutta
la storia del Jazz moderno: giovane ma già valente apprendista nel Jazztet di
Art Farmer e Benny Golson, è stato poi - dal
1961 al '65 - pietra angolare
del quartetto di
John Coltrane, partecipando alla realizzazione di alcuni dei capolavori
assoluti della musica del secolo scorso. Basta ricordare, tra i tanti, solo due
titoli: "My Favorite Things" del '61
e "A Love Supreme" del '64.
Dopo un breve ma profondo periodo di crisi,
coincidente con la fine del decennio, alla quale non poteva essere estranea la prematura
scomparsa del maestro, torna prepotentemente negli anni settanta, riprendendo il
filo del discorso laddove si era interrotto con la fine del sodalizio con "Trane".
Sono di quegli anni alcuni lavori tra i più significativi di tutta la sua carriera:
alcuni, incisi con formazioni allargate, altri con la classica formula del trio
jazz: piano, contrabbasso e batteria. Spicca tra gli altri "Echoes of a Friend"
registrato in perfetta solitudine come commosso omaggio alle composizioni dell'amico
– maestro.
In quegli anni il suo stile pianistico si fa maturo ed autorevole: uno
stile imperioso, a volte magniloquente, percussivo, nel quale le sottigliezze del
fraseggio della mano destra fanno da contraltare ad una mano sinistra semplicemente
impressionante per la capacità di caricare ritmo e armonie di una oscura, quasi
minacciosa ineluttabilità. Come un'onda oceanica che tutto travolge, grazie alla
sua potenza e forza evocativa riuscì a conquistare anche i giovani fans del rock,
che ebbero modo, anche in Italia, di ammirarlo nei tanti festival estivi.
Uno stile comunque radicato nella tradizione afroamericana, e aperto alle
contaminazioni ed ai linguaggi provenienti dal "terzo mondo", come dimostrano alcuni
dei suoi titoli più significativi: "Sahara", "Sama Layuca", "Desert
Cry", "Nubia" etc.
D'altro canto
Tyner
è stato uno tra i primi "musulmani neri" in America; uomo di grande spiritualità
fu proprio lui ad introdurre
Coltrane
alla conoscenza dell'Islam e delle filosofie orientali.
L'occasione di rivederlo in azione all'Auditorium di Roma non poteva sfuggire.
Tanto più che l'artista – ospite d'onore della serata era il sassofonista Joe
Lovano, uno dei migliori, se non il migliore dei sax tenori sulla scena internazionale.
Il concerto non ha tradito le attese. Sostenuti da una sezione ritmica
più che all'altezza – Gerald Cannon virtuoso e possente contrabbassista,
e Eric Kamau Gravatt, scoppiettante ed autorevole alla batteria – i due leader
hanno dato prova di classe ed energia. Joe Lovano in particolare, impegnato
ormai da anni nel compito improbo di uscire dal cono d'ombra dei due giganti del
sax tenore (Trane e Rollins) riuscendo a dare spessore ed originalità al suo fraseggio
obliquo e mai scontato.
Quanto a
Tyner vale il vecchio adagio che circola tra i jazzofili: i pianisti
sono come il vino – migliorano invecchiando! La sensazione di autorevolezza, confidenza
assoluta con lo strumento, capacità di far apparire "facili" i passaggi più impervi,
è - come sempre - palpabile.
Il maestro ha prosciugato il suo stile, sottraendo quanto di superfluo
e ridondante potesse apparire negli anni giovanili, arrivando ad una forma
espressiva in cui la sensazione di "potenza" è comunque presente, non declamata,
ma sottintesa, accennata, stemperata in una sensibilità lirica affinata nel tempo.
E proprio a metà concerto ci fa il regalo che segretamente aspettavamo:
tutti gli altri strumenti tacciono resta solo il pianoforte. E di nuovo si ripete
la magia. Quest'uomo, ormai anziano, ci prende per mano e ci conduce per cinque
minuti in un mondo "altro" da quello a noi conosciuto. Non un mondo di sogni, ma
un mondo di realtà profonde che forse non conoscevamo.
Un viaggio che vale la pena di fare, anche se solo per pochi minuti. L'Artista
non può fare di più.
Grazie per averci portato fin qui.
25/03/2010 | Hal McKusick si racconta. Il jazz degli anni '40-'50 visti da un protagonista forse non così noto, ma presente e determinante come pochi. "Pochi altosassofonisti viventi hanno vissuto e suonato tanto jazz quanto Hal Mckusick. Il suo primo impiego retribuito risale al 1939 all'età di 15 anni. Poi, a partire dal 1943, ha suonato in diverse tra le più interessanti orchestre dell'epoca: Les Brown, Woody Herman, Boyd Reaburn, Claude Thornill e Elliot Lawrence. Ha suonato praticamente con tutti i grandi jazzisti tra i quali Art Farmer, Al Cohn, Bill Evans, Eddie Costa, Paul Chambers, Connie Kay, Barry Galbraith e John Coltrane." (Marc Myers) |
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Data pubblicazione: 18/08/2008
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