Musica e politica,
oggi?!
A colloquio con l'etnomusicologo e sassofonista Jerome Camal.
di Franco Bergoglio
Jerome Camal,
francese di nascita, è assistente alla Washington University di Saint Louis
in jazz studies, musicologia ed etnomusicologia. Ma è anche un sassofonista
che non si accontenta di vivere di ricerche accademiche e non vuole che lo si chiami
professore, ma preferisce suonare nei locali, tuffarsi in jam sessions e insegnare
la pratica dello strumento.
Un personaggio stimolante, che ospita nella sua home page una sezione
dedicata per intero all'analisi del jazz politico degli anni Sessanta.
Le osservazioni di
Camal sono stimolanti, non ideologicamente orientate, pur riuscendo nello
stesso tempo a recuperare figure importanti di quella stagione, dando loro una giusta
collocazione (valgano su tutti gli esempi di Frank Kofsky e Amiri Baraka,
oggi poco considerati, in specie il primo).
Camal li cita,
li critica. Segno che le loro idee "forti" sul jazz mantengono intatto il loro fascino,
a distanza di anni.
Gli studi sul jazz, sempre più seri e filologicamente corretti, stanno
ricevendo spazi mai avuti prima. Ci sono autori che portano avanti tesi innovative
e letture diverse da quelle solite, ad esempio il saggio Black Atlantic di
Paul Gilroy, professore di Black studies all'università di Yale, che
offre una lettura che ha il respiro dell'affresco storico-politico-geografico.
Dalla corrispondenza via e-mail è nata questa intervista, che oltre a
pareri non scontati su
Coltrane
e Sonny Rollins, fornisce alla fine una lista -anch'essa tutt'altro che
banale - di musiche jazz "politiche".
Franco Bergoglio: Nelle
tue pagine sul jazz e il movimento per i diritti civili, o quando parli del jazz
del cosiddetto "nazionalismo nero", è frequente trovare il nome e l'opera di
Frank Kofsky. Quale opinione hai maturato del suo lavoro dopo averlo studiato
a fondo? Pensi che immettesse troppa ideologia in relazione agli argomenti trattati
o che, al contrario, il periodo sia ben descritto negli scritti di Kofsky
e Amiri Baraka?
Jerome Camal:
Kofsky è un personaggio interessante.
Effettivamente l'ideologia avviluppa i suoi scritti in maniera così poderosa da
rendere le sue argomentazioni oggetto di più obiezioni. Un esempio di questo atteggiamento
è la sua intervista a
Coltrane
nella quale egli prova, senza riuscirci, a far avallare da
Coltrane
le sue idee politiche. (Per leggere l'intervista in lingua inglese:
http://www.geocities.com/a_habib/Jazz/coltrane.html).
Tuttavia, alcuni punti del suo discorso sono affrontati in maniera interessante
e colgono aspetti significativi: l'esempio più efficace è la descrizione delle condizioni
economiche in cui devono lavorare i musicisti neri. Il suo libro
Black Nationalism in Music,
è alla fine probabilmente più utile se letto come una fonte primaria, la quale riflette
l'ideologia che informa una parte dei musicisti dell'Avant Garde.
F.B:
Secondo me Amiri Baraka
è più sociologo nelle analisi, Kofsky è più uno studioso "politico" del jazz…Penso
che la sua intenzione fosse di mettere in pratica nei suoi studi il metodo di analisi
marxista, non ti pare?
J.C.:
Concordo, ma penso che dovremmo pensare
ad entrambi come a due studiosi mossi da forti motivazioni politiche. E' passato
un bel po' di tempo dalla mia lettura di "Blues
People", ma, per quanto ricordo, mi sembra Baraka enfatizzasse
la cultura afro-americana come il prodotto e la reazione nei confronti della schiavitù
e in pari tempo come collegamento all'Africa. Gli argomenti di Baraka sono
basati su una visione "di classe", probabilmente influenzata dal marxismo e a tratti
confinante con l'esistenzialismo. Per lui le forme di jazz e blues che hanno avuto
più successo commerciale sono state corrotte dal mainstream bianco. Leggendolo
ci si fa l'idea che lui pensi che l'assimilazione è una forma di corruzione; che
il bebop sia una riaffermazione dell'eredità delle radici nere in musica e una presa
di distanza dall'egemonia bianca che si era consolidata durante la Swing Era.
Molti gruppi e artisti del movimento coagulatisi intorno alle arti afro-americane,
riecheggiavano i ragionamenti di Baraka. D'altro canto lo scrittore di colore
Ralph Ellison era in forte disaccordo con le tesi di Baraka e guardava al
blues come ad una forma di celebrazione dei risultati raggiunti dall'arte afro-americana.
Nelle manifestazioni come il blues, dove Baraka tende a vedere le persone
di colore come vittime, Ellison invece ne sottolinea il forte senso di rappresentanza
e di appartenenza.
F.B.:
Quale opinione ti sei formato sulla portata da assegnare al lavoro di
Coltrane?
Prima citavi una sua famosa intervista, e in quella come in altre, emerge la timidezza
del sassofonista, sempre di poche parole, che porta a risposte riservate, umili
e alla fine ambigue rispetto alla portata del lascito coltraniano.
J.C.:
Penso che per trattare il caso di
Coltrane
abbiamo bisogno di considerare la sua musica da due angoli visuali separati. Primo:
quale tipo di messaggio politico (se ce n'è uno) prevedeva
Coltrane
per la sua musica? Secondo: quale significato politico è stato legato
alla sua musica a posteriori, dagli ascoltatori più diversi? In altre parole, credo
ci sia una differenza tra come
Coltrane
concepiva e vedeva la sua musica e la maniera nella quale essa è stata recepita
ed interpretata. Premesso questo, io vedo un
Coltrane
che "usa" la sua musica per veicolare un messaggio di integrazione e di universalità.
Mi piace figurare un parallelo tra il suo interesse per la musica modale ed in particolare
per quella indiana, e l'attenzione di Martin Luther King per la fliosofia
della non-violenza portata avanti da Ghandi. Nei primi giorni della lotta
per i diritti civili della popolazione nera spesso M.L. King dipingeva un
parallelo tra la lotta per la libertà negli Stati Uniti e il movimento per l'indipendenza
in Africa. Mi sembra di poter affermare che entrambi gli uomini vedevano il loro
lavoro in termini universali. Tuttavia non mi sembra che la musica di
John Coltrane
sia stata accolta in questo modo e alcuni dei partiti più radicali nel Movimento
dei diritti civili furono rapidi nell'avocare a loro il sassofonista come portavoce
musicale. Coltrane
stesso all'idea non appare entusiasta, come mostra abbastanza chiaramente la sua
intervista a Kofsky, dove egli preferisce approfondire le sue spiegazioni
musicali con un significato più generale riguardante la condizione umana. Come sottolinea
Craig Werner,
Coltrane
e Malcom X videro entrambi il loro messaggio trasformato e utilizzato per
giustificare il perseguimento di obiettivi più radicali all'interno del Movimento,
indipendentemente dal fatto che loro volessero fosse usato e interpretato il loro
lavoro in tale maniera oppure no.
F.B.:
Pensi ci sia un collegamento tra la Nuova sinistra americana e il jazz? E di
che tipo?
J.C.:
E' una domanda troppo ampia per una risposta rapida. Non ho mai ragionato sul collegamento
tra New Left e musica, anche se sembra un argomento interessante da sviluppare.
F.B.:
vuoi fare una breve lista di brani politici che nella storia del jazz tu consideri
fondamentali e regalarci un breve commento per ciascuno?
J.C.:
La mia prima scelta è piuttosto ovvia:
We insist! Freedom now Suite
(Candid 1961). Questa registrazione esemplifica
per molti aspetti diversi come la musica può essere usata politicamente. In primo
luogo è un esempio di artisti di colore che usano la loro arte per riconquistare
l'autorità ed il controllo sulla propria storia e sulla sua narrazione storiografica.
La Suite di Roach segue la vicenda della popolazione di colore di discendenza
africana sia negli Stati Uniti che in Africa, partendo dall'esperienza della schiavitù,
proseguendo con la dichiarazione di emancipazione, per finire con la lotta per uguali
diritti in America come in Africa. Affrontando la questione da questo punto di vista
è stimolante osservare, come fanno Scott Saul e Ingrid Monson, che
l'ordine delle sezioni della Suite, separate tra loro, è stato cambiato rispetto
alle idee di partenza di Roach e Oscar Brown, Jr. Originariamente
la suite prevedeva la partenza con la sezione africana prima di muovere all'esperienza
della schiavitù e passare all'emancipazione. Mettere la schiavitù all'inizio serve
a radicare fortemente la storia afro-americana all'esperienza della schiavitù. Partire
con l'Africa avrebbe invece enfatizzato l'eredità africana della cultura afro-americana.
In seconda battuta la Freedom now Suite rappresenta anche bene ciò che
Gilroy definisce "black atlantic". All Africa fonde il jazz americano
con la musica cubana e le percussioni africane: si tratta di un eccellente esempio
del continuo scambio culturale che si è avuto tra popoli africani, gente dei caraibi,
esteso anche in Europa e, naturalmente, agli Stati Uniti. Da ultimo bisogna ricordare
che la Suite è in fin dei conti un grande momento di musica, nel quale si possono
vedere utilizzate tecniche avanzate di composizione. Max Roach utilizza un
5/4, forse una risposta al successo di
Take Five, ma più naturale
e coraggioso di quello di Brubeck. Il tono dei fiati, perfettamente nei "quarti"
in Driva men è interessante
e precorre i tempi. La foto di copertina che mostra degli studenti durante un sit-in
ad un bancone di una mensa è provocatoria e le note di copertina di Nat Hentoff
sono candide e fresche anche alla attuale lettura. Il secondo esempio è sicuramente
meno conosciuto. Infatti se è stato scritto molto sulla
Freedom Suite di
Sonny Rollins,
io punterei l'attenzione su una registrazione del 1956,
The house I live in,
eseguita per la Prestige. Si tratta di un brano hard bop abbastanza convenzionale,
ma è anche un gran bell'esempio di signifying in musica. Alla fine del pezzo
Rollins
inserisce come coda il tema di
Lift every voice and sing.
Quello spiritual è diventato in seguito una specie di inno non ufficiale per
la popolazione di colore. Nelle note di copertina del cd-box della Prestige,
contenente tutto quanto registrato, si spiega che il sassofonista apprezzava il
significato sociale del testo scritto da Robinson e voleva rafforzare le sue parole
finendo la canzone con Lift every voice and sing. Forse egli voleva anche
rispondere alla recente registrazione di quella canzone eseguita da
Frank Sinatra.
In ogni caso è interessante notare che questa è l'unica canzone di quella session
che non è stata realizzata immediatamente dalla Prestige, subito dopo la registrazione.
Non ho fatto molte ricerche su questo disco, ma penso sia troppo spesso ignorato,
oggi. Se poi vogliamo una lista completa di brani dovremmo includere almeno la
Haitian fight song
e Fable of Faubus
di Mingus, e Freedom rider
di Art Blakey, Alabama
di John Coltrane,
l'intera apparizione di
Archie Shepp
al festival jazz di Newport e Appointment
in Ghana di Jackie Mclean. Poi c'è
Strange Fruit di Billie
Holiday, ma la lista sarebbe molto lunga…
18/08/2011 | Gent Jazz Festival - X edizione: Dieci candeline per il Gent Jazz Festival, la rassegna jazzistica che si tiene nel ridente borgo medievale a meno di 60Km da Bruxelles, in Belgio, nella sede rinnovata del Bijloke Music Centre. Michel Portal, Sonny Rollins, Al Foster, Dave Holland, Al Di Meola, B.B. King, Terence Blanchard, Chick Corea...Questa decima edizione conferma il Gent Jazz come festival che, pur muovendosi nel contesto del jazz americano ed internazionale, riesce a coglierne le molteplici sfaccettature, proponendo i migliori nomi presenti sulla scena. (Antonio Terzo) |
25/03/2010 | Hal McKusick si racconta. Il jazz degli anni '40-'50 visti da un protagonista forse non così noto, ma presente e determinante come pochi. "Pochi altosassofonisti viventi hanno vissuto e suonato tanto jazz quanto Hal Mckusick. Il suo primo impiego retribuito risale al 1939 all'età di 15 anni. Poi, a partire dal 1943, ha suonato in diverse tra le più interessanti orchestre dell'epoca: Les Brown, Woody Herman, Boyd Reaburn, Claude Thornill e Elliot Lawrence. Ha suonato praticamente con tutti i grandi jazzisti tra i quali Art Farmer, Al Cohn, Bill Evans, Eddie Costa, Paul Chambers, Connie Kay, Barry Galbraith e John Coltrane." (Marc Myers) |
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Data pubblicazione: 04/03/2006
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