Jazz e Politica: Il rapporto con la politica
di Franco Bergoglio
In molti lavori sul jazz compaiono fatti che si possono qualificare come
politici, ma spesso vengano analizzati seguendo un diverso punto di vista. La politica
non è quasi mai il perno centrale del discorso. Storia politica, della cultura e
del jazz vanno mescolate se si vuole dipingere un quadro vivo delle inferenze della
politica nel jazz e viceversa. Rapporto con il potere o le istituzioni; scambi per
osmosi che arrivano da economia, filosofia, arte, sociologia, cultura. Non si può
analizzare il jazz senza tenere presenti gli influssi delle ideologie novecentesche.
Sulla politica è poi passata la bufera del Sessantotto e la parola si è caricata
di un intero bagaglio di nuovi significati. Gli studenti della seconda metà degli
anni Sessanta non condividevano i valori dominanti della società capitalistica,
rifiutavano l'individualismo, il potere totalizzante della tecnologia, le catene
del consumismo. Questo periodo di decisa rottura con le istituzioni fu caratterizzato
dalla radicalità delle forme di lotta e dalla ideologizzazione del conflitto. Dagli
Stati Uniti all'Europa occidentale, alla Cecoslovacchia comunista, il movimento
giovanile era caratterizzato da una omogeneità culturale: c'era un comune nucleo
di principi ispiratori che andavano dall'egualitarismo, al libertarismo. Dalla lotta
contro ogni discriminazione razziale e sociale, al rifiuto delle élites di
potere ne derivò una concezione della politica come "Partecipazione integrale" e
"rifiuto della delega". [1]
Una politica che andava strappata dalle mani dei professionisti e dei burocrati
mestieranti e riportata al cittadino che ne subiva le conseguenze.
Politica come rovesciamento. La sovversione dei valori ha interessato
anche l'universo artistico che si è visto soppiantare in radicalità di espressione
dal movimento studentesco, ha avvertito il suo anacronismo, il rilassamento e l'adeguamento
ideologico negli schemi rigidi del bipolarismo di fine anni Sessanta. I giovani,
a differenza di intellettuali e artisti "ingessati" ideologicamente, sono stati
capaci di cogliere i fermenti terzomondisti, la critica francofortese alla società
di massa, di creare nuovi modi di far politica, liberare dalle convenzioni certi
tipi di rapporti sociali (femminismo, movimento degli omosessuali).[2]
Lo
stesso jazz di quel periodo, il free, era un movimento artistico che da una
parte assumeva gli ideali e le lotte del movimento studentesco o di quello per i
diritti civili in America; dall'altra parte all'interno della stessa musica era
una ribellione e un rovesciamento dei valori consolidati. Le contraddizioni sociali
trovavano un preciso riferimento nel mondo della musica e diventavano contraddizioni
musicali. Tutto è politico o può diventarlo, era uno degli slogans di allora.
Contemporanea è la tesi sul rovesciamento del rapporto intellettuali-politica, da
critica del potere a contestazione politica degli intellettuali. Questo anche per
l'influsso della rivoluzione culturale cinese che propone una ribellione permanente
contro la staticità del sistema (anche socialista) e una riflessione sulla figura
del "funzionario" asservito alla cultura dominante e funzionale alla riproduzione
di un potere sempre uguale nei suoi errori. L'intellettuale viene rifiutato, in
quanto residuo della società borghese. Jean-Paul Sartre
(Parigi, 21 giugno 1905 - 15 aprile
1980) disse che "era necessario che l'intellettuale si sopprimesse
in quanto intellettuale"
[3].
I giovani chiedevano azioni e prassi mentre spesso, sempre secondo Sartre,
l'intellettuale opponeva un discorso mediato, viziato da un "interesse ideologico"
[4].
Pier Paolo Pasolini (Bologna,
5 marzo 1922 - Ostia RM, 2 novembre 1975) definì il movimento studentesco
come "un movimento politico la cui ascesi consiste nel fare" inteso come
pragmatismo religioso in cui il credere scaturisce dal fare in un rovesciamento
dei termini classici del pensiero cristiano in cui il fare discende dal credere.
La frenesia di "organizzare" manifestazioni, dibattiti, nasconde una mistica religiosa
che si risolve tutta nell'azione organizzativa stessa e mai si occupa di un discorso
"sull'organizzazione".[5]
Pasolini coglieva questo interessante nesso tra l'estremo pragmatismo, che
poi era estremo idealismo della Nuova Sinistra occidentale, mosso da una domanda
angosciante che metteva in crisi il suo ruolo di intellettuale classico
[6].
Si è dato ampio spazio agli anni Sessanta perché attorno al tandem classico arte-impegno
politico andava chiarita a fondo l'ansia di rinnovamento, il fervore iconoclasta
che informavano la società di quegli anni. Gli anni Sessanta e Settanta sono lo
snodo del massimo impegno ideologico degli artisti e anche dell'intromissione della
politica nel lavoro artistico, e andava spiegato l'humus culturale che soggiaceva
a vent'anni di esperienze.
Jazzisti…esistenzialisti
Quando gli studenti rivendicano la possibilità di "fare" politica,
di "organizzare" manifestazioni; quando la classe operaia riscopre per una breve
stagione la sua vocazione rivoluzionaria, non si può pretendere che i musicisti
di jazz, da sempre allergici al sistema, si astengano dall'intervenire. E la loro
azione è una conseguenza del nuovo modo di ribellarsi: non è più un titolo di un
brano musicale contro il razzismo, ma la musica stessa che si fa grido di ribellione,
di rabbia, di denuncia. E' anche una questione di luoghi: la protesta non può esprimersi
in una sala da concerto o in un auditorium. Ci sono artisti che suonano nelle fabbriche,
altri che fondano case discografiche indipendenti, altri che usano il loro ruolo
per le loro prese di posizione, la loro avversione al sistema. Le piazze diventano
teatri di happenings ed i giovani aprono spazi di aggregazione, anche dove
non erano previsti (esempio classico: i concerti all'Umbria jazz).
La
musica non può più essere solo gesto estetico, perché allora si ritornerebbe alla
contraddizione esposta da Sartre e il musicista ritornerebbe ad essere un
intellettuale che porta in giro il suo cuore come una fascia di riconoscimento.
Anche il jazz è forzato ad una presa di coscienza, come avviene con qualsiasi altra
forma di comunicazione.
Archie Shepp,
che incarna bene il tipo dell'intellettuale engagé, si contrappone al precedente
modello dell'intellettuale maudit, che rivendica il "concetto di arte
per l'arte", incompreso dalla società ed insieme eletto, irriducibile ad una
classe e ad una condizione, e ai limiti posti da una identità sociale determinata.
Shepp
non è più un intellettuale o un artista puro, l'engagement presuppone una compromissione
totale con la società. Quando
Shepp
afferma:
"La
morte di tre bambine e il crollo di una chiesa non possono non lasciare una traccia
nella vostra esperienza culturale. Ecco che cosa intendo per avanguardia"
[7],
sviluppa un pensiero di tipo sartriano. Riabilitare l'arte, sospettata di inutilità
dalla rivoluzione, il valore di azione che essa deve assumere ed un nuovo ruolo
di responsabilità per l'intellettuale, l'artista (Sartre si limita allo scrittore)
che trova l'eterno solamente immergendosi nei problemi specifici della sua epoca:
"è nostro compito di scrittori fare intravedere i valori di eternità che sono
implicati in questi dibattiti sociali e politici".[8]
L'uomo è un assoluto. Ma lo è ora, nel suo ambiente, sulla sua terra. Quello che
conta è la sua decisione presa in un determinato momento e a proposito di certe
circostanze". Quando
Coltrane
(Hamlet, Carolina del Nord, 23 settembre
1926 - New York 17 luglio 1967) incise
Alabama
()
l'attentato cui si riferisce anche la citazione di
Shepp,
la sua musica non vibrava di quella rabbia o di passione rivoluzionaria, che invece
traboccano dalle parole del secondo. I due artisti d'avanguardia reagiscono alla
tragedia secondo le peculiarità tipiche del loro carattere e del loro impegno: l'Alabama
di Coltrane
"è una sommessa preghiera un requiescat in pace depositato sulla tomba delle
povere vittime con la grazia di un fiore".[9]
Questa fu l'unica pagina musicale di
Coltrane
dedicata esplicitamente al problema razziale. Si tratta della continua dicotomia
tra l'imperativo della coscienza e quello dell'azione, l'artista deve scegliere
se "sporcarsi le mani" o cullarsi in una lucidità impotente, rimanendo legato ad
una libertà totalmente astratta. Il discorso si complicherebbe ulteriormente se
comprendessimo anche l'ambiguità degli intellettuali che si sentono casta o mandarinato;
ma come afferma Anna Boschetti nel suo saggio su Sartre: "un'aristocrazia
dell'intelligenza è libera di stare per proprio conto, come di attribuirsi una sorta
di investitura a illuminare i suoi simili". Queste oscillazioni non sono quasi
mai scelte isolate ma rimandano a "importanti mutamenti nella relazione fondamentale
che orienta le pratiche culturali: la relazione con il campo del potere. Tutte le
fasi acute di intervento degli intellettuali corrispondono a momenti di crisi sociale
e politica, in cui i rapporti di forza tra le classi sono messi in discussione.
E' allora che, specialmente per alcune delle fazioni in conflitto, il sostegno degli
intellettuali può diventare una preziosa fonte di legittimità"
[10].
Succede nella terza repubblica francese con l'alleanza tra dreyfusisti
e repubblicani, succede nella Spagna dilaniata dalla guerra civile, succede in America
con la stretta unione tra i musicisti e gli attivisti per i diritti civili. Anche
la presunta apoliticità del jazz degli anni Venti è fuorviante, meglio parlare,
coniando una definizione ad hoc, di jazz "pre-politico". Infatti legami con
la politica si possono rinvenire, in America come in Europa, magari con un jazz
attore inconsapevole del ruolo, anche negli anni ruggenti. Le influenze sul jazz
sono condizionamenti ambientali cui la musica non si può opporre perché troppo debole:
il jazz è un piccolo mondo in formazione che subisce le pressioni dall'esterno,
non è autonomo, manca una dignità artistica che lo renda capace di esercitare delle
influenze, i musicisti non sono ancora simboli. Per sintetizzare: nasce fragilissimo.
Alcune influenze sono più sottili di altre: il condizionamento del mercato
che sceglie i criteri estetici che caratterizzano la vendibilità di un prodotto
ad un pubblico sempre più vasto fanno certamente più danno dei diktat nazi-fascisti
che proibiscono l'esecuzione di jazz nei locali pubblici. Cambia la natura dell'intervento:
nel primo caso ci troviamo di fronte alla "mano invisibile" di Adam Smith,
regolatrice dei rapporti economici, nell'altro c'è solo uso repressivo del potere.
Questo agire del mercato in modo meno scoperto rende difficile la comprensione di
quale possa essere il grado di condizionamento economico dell'arte. Una analisi
complessa che ha richiesto una lungo periodo di maturazione da parte della critica.
Solo con le opere di Jones e Carles-Comolli, il discorso jazz e politica
prende corpo. Lo stesso Marx, all'origine del pensiero dei due critici francesi,
pur conscio dei condizionamenti sociali dell'arte, avvertiva di non considerare
troppo semplicisticamente tale dipendenza.[11]
Uno sguardo ai paesi dell'est, nella loro periodo "socialista" permette di esaminare
il rapporto tra il jazz e il potere costituito.
Relazioni pericolose
Ha affermato George Orwell che tutta l'arte è propaganda. Certamente
il jazz è stato più volte interpretato e vissuto come veicolo di messaggi politici.
A ben guardare il condizionamento sociale dell'arte non è difficile da analizzare
in una musica che essendo basata sull'improvvisazione esprime sempre l'hic et
nunc del musicista nel momento dell'atto creativo e questi svela attraverso
la musica se stesso e il suo mondo con forse minori filtri rispetto ad altre arti.
Sono certi, invece, i condizionamenti di certa propaganda politica sul
jazz. Attaccato di volta in volta da destra, da sinistra, dai custodi della morale,
dalla cultura "ufficiale", il jazz è sempre stato sottoposto a pressioni. Questo
accade perché il jazz è il nemico mortale di ogni conformismo sociale. La natura
protestataria di questa musica è uno dei temi di fondo di tutta l'analisi sul rapporto
tra jazz e politica.
Secondo
Hobsbawm è facile collegare il jazz ad attività politiche radicali, specialmente
in particolari periodi di fermento politico. Tuttavia se è facile ritrovare questi
nessi in una politica di protesta, questa è generalmente "vaga e ambigua".
Perché "è molto più evidente cosa il jazz non vuole, di quello che vuole. Il
jazz è contro l'oppressione, contro la miseria, contro la disuguaglianza, la mancanza
di libertà, l'infelicità; per quel suo vago spirito d'anarchia che di solito è stato
frainteso dagli intellettuali anarchici che amano il jazz, è anche contro i poliziotti,
i giudici, le prigioni, gli eserciti e le guerre". Hobsbawm dipinge un
anarchismo individualistico alla Stirner, anche se l'autore evidentemente
giudica in modo negativo il disimpegno del musicista jazz e del pubblico. La sua
critica è che questa avversione generica contro ogni tipo di componente autoritaria
non si trasforma mai in una presa di posizione militante. Hobsbawm dedica
un intero capitolo al "Jazz come protesta", perché lo storico inglese individua
altri punti distintivi che caratterizzano questa espressione di reazione autentica
alle convenzioni sociali. Il jazz è una musica democratica: si rivolge alla "platea"
e al "loggione" perché non ammette distinzioni di classe. Il jazz è "un manifesto
del "populismo", ha creato un ideale dell'arte nella società più vasto e socialmente
più sano di quello della cultura riservata a una minoranza, ha consentito ad esecutori
ed ascoltatori di "fare" arte, di provocare interesse e discussioni artistiche tra
un pubblico che le arti ufficialmente riconosciute non avrebbero mai portato a quel
livello. "Il jazz ha superato più di qualsiasi altra forma d'arte le barriere
di classe".[12]
Lo
stesso Dyer, nel saggio già menzionato, riprende questa tesi di Hobsbawm
in una chiave differente, puntando l'attenzione sulla "prerogativa del jazz
di innalzare alla dignità di genio persone che non avrebbero mai trovato altro modo
di esprimere sé stessi"
[13].
Il jazz è un universo aperto al diverso, forse perché la sua forza creativa è data
dalla estemporaneità dell'ispirazione o forse perché conserva nel suo bagaglio culturale
l'origine di espressione di una popolazione oppressa. Per questo suo retaggio il
jazz è tenacemente antirazzista. E non solo nell'Europa nazista che condannava la
musica dei neri perché frutto di selvaggi e inferiori: il discorso razziale è trasversale
nella storia del jazz e vale, a distanza di anni, in una parte lontana del mondo:
il Sud Africa. Mike Zwerin, profondo studioso del jazz sotto il nazismo,
ha compreso la non casualità di questa relazione e nel saggio
Musica degenerata, racconta
un suo viaggio in Sud Africa, la terra della segregazione razziale ignorata dal
mondo e nel contempo la patria di jazzisti di colore tra i più validi che si siano
espressi fuori dagli Stati Uniti
[14].
Il jazz è un arte che si addice sempre ai ghettizzati, forse perché, come fa notare
un jazzista di colore sudafricano allo stesso Zwerin, permette di fuggire
dal più pericoloso degli asservimenti: "il campo di concentramento mentale",
che si verifica quando gli aguzzini sono riusciti a piegare anche la volontà dei
loro sottomessi. Quando Hobsbawm afferma che, nonostante la segregazione,
mai nessun musicista di colore è diventato un esule politico, dimentica i molti
neri sudafricani, emigrati dal loro paese per precisi motivi politici. L'ascolto
di un'opera come Anatomy of a south-african
village, non può non suggerire sensazioni dolenti, un terribile sentimento
di sradicamento, provato dal pianista espatriato per sfuggire al governo razzista:
un uomo che ama la sua terra e non può viverci. Oppure come suggerisce Charles
Fox nelle note di copertina del disco: "la musica di Dollar Brand rivela
-tra le altre cose- la minaccia di suoni interiori, voci provenienti dalla
violenza notturna delle strade sudafricane, ricomposti durante la tranquillità dell'esilio"
[15].
Gli esiliati del jazz
Tra i molti intellettuali e artisti americani fuggiti dalle persecuzioni del
maccartismo, e stabilitisi in Europa, molti sono i musicisti di colore. Qui hanno
trovato un maggior rispetto per la loro dignità umana e artistica, ma quasi nessuno
di loro può essere considerato un profugo "politico". La ribellione della gente
del jazz è individuale e corre sempre sul filo di un possibile disimpegno: una scontentezza
di tipo esistenziale che può essere soddisfatta con un incarico di andare in tournée
come ambasciatore culturale degli Usa, con l'invito a suonare per la Filarmonica
di New York, o con buoni guadagni.
Se
è vero che non ci sono esuli politici dichiarati, decine di jazzisti di vaglia si
sono volontariamente allontanati dalla loro terra, che non li accetta. Si potrebbero
interpretare come esili le permanenze europee di Sidney Bechet, Dexter
Gordon e la più drammatica, quella di
Bud Powell,
esiliato volontario anche da se stesso
[16].
Gli esempi di musicisti che hanno preferito vivere in Europa sono così
numerosi da meritare un excursus.
L'America
ripudia il jazz come arte mentre l'Europa l'accetta e incoraggia. Ha Detto l'esule
illustre Johnny Griffin: "L'Europa sta salvando il jazz ed ha certamente
salvato la mia vita"[17].
Questa ed altre dichiarazioni d'amore/odio per l'America e per L'Europa sono contenute
nel lavoro di Bill Moody dedicato ai musicisti americani espatriati in Europa.
In Europa non c'è discriminazione razziale, i musicisti sono trattati come artisti,
vale a dire che viene loro concessa la dignità ed uno status, mentre nel loro paese
vivono -o sopravvivono- ai bordi del business, quasi ignorati e semi emarginati.
Moody, musicista egli stesso, ha vissuto per anni in Europa e da questa esperienza
ha tratto l'idea di indagare i motivi che hanno spinto all'emigrazione i suoi colleghi.
Al termine del volume presenta una lista degli emigrati eccellenti e ne esce un
quadro con circa un centinaio dei più bei nomi di jazzisti americani, che per discriminazione
o motivi politici o perché schiacciati dalla inesorabile logica del profitto, hanno
cercato la fuga dall'America.
Il
trombettista Art Farmer (August
21, 1928 – October 4, 1999) ha scoperto in Austria una vita meno assillata
dal profitto, dove esprimersi con arte; il cantante Jon Hendricks ha affermato
sul pubblico: "gli europei non vedono gli artisti neri come i figli degli schiavi,
anche inconsciamente"
[18].
Tutto il volume sembra una risposta all'assunto portato avanti da un critico
autorevole come James Lincoln Collier, il quale si è sempre dedicato a contrastare
il maggior grado di accettazione da parte europea del jazz, come di un mito perpetuato
dalla sinistra [19].
La smentita è lasciata alle biografie dei molti musicisti, anche bianchi,
come il contrabassista Red Mitchell, che ha abbandonato l'America per la
più civile ed egualitaria Svezia, dopo l'assassinio di Robert Kennedy e dopo
aver svolto attività politica con le principali associazioni antisegregazioniste;
o come
Phil Woods, il grande alto sassofonista che perentoriamente afferma:
"ho lavorato con tre amministrazioni diverse nelle tourneé del dipartimento di
stato, ma c'è sempre stata una strana dicotomia tra l'aver compreso che è un bene
inviare il jazz come ambasciatore nel mondo e il modo in cui è trattato nel suo
paese. Quello di cui l'America ha bisogno è di una Voice of America per gli americani.
Con l'eccezione della nostra gente, noi abbiamo educato il mondo intero ad apprezzare
il jazz" [20].
Non è chiaro? Un altro sassofonista, Eddie 'Lockjaw' Davis, mette
fuor di metafora il concetto: "L'unica cosa che vuole questo paese è spezzare
la schiena al comunismo. L'America sobbalza e invia armi e aiuti ogni qualvolta
un paese sembri trovarsi sul punto di abbandonare la democrazia. (…) Ma l'arte,
non la si finanzia mai"
[21].
[1] I termini virgolettati sono tratti da:Peppino Ortoleva, Marco Revelli, op.
cit. p. 680-681.
[2] Per un confronto sul tema scrittori e il potere, vedere l'introduzione di:
Walter Mauro, Elena Clementelli, La trappola e la nudità, Milano: Rizzoli,
1974. Sul Sessantotto, pp.(32-33): "Il moto liberatorio,
il sobbalzo di coscienza dal quale l'immaginazione poetica ha riacquistato le proprie
connotazioni di libertà e di autonomia dell'ingegno, non ha avuto una matrice letteraria,
si deve riconoscere, bensì è stata la conseguenza del forte movimento di ribellione
giovanile che ha preso l'avvio dalla svolta del 1968.
I ragazzi del maggio francese hanno contribuito a ridestare molta gente, comptresi
gli scrittori: il grido (…) l'immagination au pouvoir!, ha assunto un significato
ben preciso, riducendo le distanze e ponendo l'intero rapporto scrittore-realtà
su basi nuove e diverse. Repentinamente (…) il poeta ha reperito nuovamente la propria
ragione di sopravvivenza, ha compreso che la fantasia, lungi dall'essere vuoto narcisismo,
rispecchiamento in se stesso del proprio dissolto edonismo, finiva per configurarsi
in lui come attività rigeneratrice di vita e di ispirazione, una matrice rivoluzionaria
insomma, sulla quale l'universo dei linguaggi avrebbe potuto operare più liberamente.
La facoltà di proiezione verso il clima primordiale delle grandi avanguardie storiche,
congenitamente rivoluzionarie, quali il surrealismo, il futurismo russo, la letteratura
come gioco e spettacolo sotteso nella filigrana del dolore, della pena di esistere,
ha finito per prevalere come naturale alternativa ad ogni forma di tirannide, ad
ogni categoria di prevaricazione".
[3] Sartre espresse questo giudizio sul ruolo dell'intellettuale dopo un'assemblea
di studenti cui era stato invitato. "…avevo parlato come un intellettuale classico,
opponendo l'universale al particolare. Era questo che essi (gli studenti) non potevano
tollerare. Era necessario che un intellettuale si sopprimesse in quanto intellettuale
fondendosi nel gruppo e parlando solo per proporre azioni da compiere assieme agli
altri, e che soprattutto non porti più in giro il proprio cuore come si porta una
fascia o un segno di riconoscimento, ma stia in mezzo al popolo secondo un certo
tipo di universalità". Philippe Gavi, Jean-Paul Sartre, Pierre Victor, Ribellarsi
è giusto, Torino: Einaudi, trad. di Alfonso Berardinelli,
1975, pp. 53-54.
[4] ibidem, pag. 56.
[5] Pier Paolo Pasolini, Il caos Roma: Editori Riuniti,
1995, p.187.
[6] "Ma parlare –e, quindi, in qualche modo essere fuori dal processo rivoluzionario-
potrebbe tuttavia definirsi il compito dell'intellettuale: che paga la funzione
della sua estraneità vivendola anche come tradimento". Pasolini, op. cit. p.188.
[7] Carles e Comolli, op. cit. p.268.
[8] Jean-Paul Sartre, Che cos'è la letteratura?, ", Milano: Il Saggiatore,
1960, p.219.
[9] Marcello Piras, "John
Coltrane, un sax sulle vette e negli abissi dell'io", Roma: Nuovi Equilibri-Stampa
alternativa, 1993, p.52.
[10] Anna Boschetti, "L'impresa intellettuale. Sartre e "les Temps Moderns",
Bari: Ed. Dedalo, 1984, pp. 156-158.
[11] K. Marx, "Lineamenti fondamentali di critica dell'economia politica", (Grundrisse),
a cura di G. Backhaus, Torino: Einaudi, 1976, vol.I,
p. 36, ne "Introduzione alla critica dell'economia politica": Nel caso dell'arte
è noto che determinati suoi periodi di fioritura non stanno affatto in rapporto
con lo sviluppo generale della società, e quindi neppure con la base materiale,
per così dire con la struttura ossea della sua organizzazione".
[12] "Non conosco altre arti che abbiano il potere di riunire a banchetto un
assortimento così incredibilmente vario di uomini –sassofonisti, ex internati d'un
riformatorio giamaicano, soldati americani d'un sobborgo nero di Cleveland, giornalisti,
figli di papà, commessi di negozio, lenoni- impegnati a fondo a discutere le differenze
stilistiche fra le scuole jazz della East Coast e della West Coast". Eric J. Hobsbawm,
op. cit. p.381.
[13] "…Molti giganti del jazz dipendevano nel loro lavoro proprio da quelle qualità
e idiosincrasie che ne avrebbero ostacolato il progresso in altri settori". Geoff
Dyer, op. cit. p.226. Le biografie di Lester Young, Bud Powell e Monk mostrano per
i più vari motivi una incapacità dolente ad affrontare la vita, altre, quelle di
Chet Baker
e Charlie Parker sono vie rapide verso l'autodistruzione. Dice Dyer: "Date le abitudini
dei jazzisti (alcool, droga, segregazione, spostamenti estenuanti, orari impossibili)
un'aspettativa di vita leggermente inferiore alla media è più che scontata. Tuttavia
le sciagure che essi sembrano tirarsi addosso sono tali e tante da farci domandare
se non ci sia qualcos'altro, qualcosa di insito nella stessa forma d'arte a imporre
un tributo così pesante ai suoi adepti". Dyer, propone un parallelo con i pittori
astratti Rothko e Pollock (una sua tela è la copertina di Free Jazz di Ornette)
che sembravano trascinati all'auto distruzione dal loro lavoro. La pazzia è il prezzo
della poesia si domanda Dyer, oppure è la rapidità con cui il jazz si è evoluto
dagli anni quaranta la causa di questo? "Sarebbe mai stato possibile per una forma
d'arte svilupparsi tanto in fretta e a un ritmo tanto concitato senza esigere in
cambio un ingente sacrificio di vite umane? Se fra il jazz e la lotta universale
dell'uomo moderno corre un legame di stretta consanguineità, come farebbero i suoi
creatori a non portarne le cicatrici?"(P.231-232). Scrive Achille Bonito Oliva nel
saggio Furor ecumenico, contenuto nel catalogo l?america di Pollock, Milano, Skira,
2002, p.56,: "La vita si muove attraverso un linguaggio
che adotta la geometria della linea curva ttravero il progetto di un disordine che
non è mai dissonanza piuttosto complessa polifonia di segni. Il passo barcollante
e circumnavigato di Pollock intorno alle tele procede secondo il trend musicale
del jazz, strutturato per geometrie afasiche e circolari come la vita".
[14] Mike Zwerin, Musica degenerata, Torino, EDT, 1993,
pp.107-117.
[15] Dollar Brand, Anatomy of a south-african village, Black Lion, incisione
del 1965, traduzione delle note di copertina mia.
[16] Francis Paudras, La danza degli infedeli. Bud Powell, Milano, Sperling&Kupfer.
[17] Citato in: Bill Moody, The jazz exiles. American musicians abroad, Reno,
University of Nevada Press, 1993, p. 170.
[18] Ibidem, p.170.
[19] Ivi, introduzione, p.XVIII.
[20] Ivi, p.109.
[21] Ivi, p.100-101.
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Data pubblicazione: 10/08/2006
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