Gli esiliati del jazz
Tratto dal libro di recente pubblicazione
Jazz! Appunti e Note del Secolo Breve
pp.69-71
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di Franco Bergoglio
Scarsissima considerazione ha avuto il tema dell'esilio
in rapporto al jazz. Eppure guardando il film di Betrand Tavernier
'Round Midnight (1986)
dovremmo almeno una volta chiederci cosa ci facevano tutti quei musicisti americani
a Parigi. Tra i molti intellettuali e artisti americani fuggiti all'epoca delle
persecuzioni maccartiste e stabilitisi in Europa, molti sono i musicisti di colore.
Qui hanno trovato un maggior rispetto per la loro dignità umana e artistica, ma
quasi nessuno di loro può essere considerato un profugo "politico". La ribellione
della gente del jazz è individuale e corre sempre sul filo di un possibile disimpegno:
una scontentezza di tipo esistenziale che può essere soddisfatta con una tournée
come ambasciatore culturale degli Usa, con l'invito a suonare per la Filarmonica
di New York o con migliori guadagni.
Se è vero che non ci sono esuli politici dichiarati, decine di jazzisti di vaglia
si sono volontariamente allontanati dalla loro terra, che non li accetta. Si potrebbero
interpretare come tali le permanenze europee di Sidney Bechet, Coleman
Hawkins, Dexter Gordon e la più drammatica, quella di
Bud Powell, esiliato volontario anche da se stesso. Gli esempi
di musicisti che hanno preferito vivere in Europa sono così numerosi da meritare
un excursus. L'America ripudia il jazz come arte mentre l'Europa la accetta e la
incoraggia. Ha detto l'esule illustre Johnny Griffin: "L'Europa sta salvando
il jazz e ha certamente salvato la mia vita" (Moody,
1993, p. 170). Questa e altre dichiarazioni d'amore/odio per l'America
e per l'Europa sono contenute nel lavoro di Bill Moody dedicato ai musicisti
americani espatriati. In Europa non c'è discriminazione razziale, i musicisti sono
trattati come artisti, viene loro concessa la dignità e uno status, mentre nel loro
Paese vivono (o sopravvivono) ai bordi del business, semiemarginati. Moody,
musicista egli stesso, ha vissuto per anni in Europa e da questa esperienza ha tratto
l'idea di indagare i motivi che hanno spinto all'emigrazione i suoi colleghi. Al
termine del volume presenta una lista degli espatriati eccellenti e ne esce un quadro
con circa un centinaio dei più bei nomi di jazzisti americani, che per discriminazione
o motivi politici o perché schiacciati dalla inesorabile logica del profitto, hanno
cercato la fuga dall'America.
Il trombettista Art Farmer
ha scoperto in Austria una vita meno assillata dal profitto; il cantante Jon
Hendricks ha affermato sul pubblico: "Gli europei non vedono gli artisti
neri come i figli degli schiavi, anche inconsciamente" (ivi, p. 170).
Tutto il volume sembra una risposta alle tesi di un critico
autorevole come James Lincoln Collier, il quale si è sempre dedicato a contrastare
il maggior grado di accettazione da parte europea del jazz, come di un mito perpetuato
dalla sinistra (ivi, p. XVIII). La smentita all'assunto di Collier è lasciata alle
biografie dei molti musicisti, anche bianchi, come il contrabbassista Red Mitchell,
che ha abbandonato l'America dopo l'assassinio di Robert Kennedy e dopo aver svolto
attività politica con le principali associazioni antisegregazioniste, per la più
civile ed egualitaria Svezia; o come
Phil Woods, il grande alto sassofonista che perentoriamente afferma:
"Ho lavorato con tre amministrazioni diverse nelle tournée del dipartimento di
Stato, ma c'è sempre stata una strana dicotomia tra l'aver compreso che è un bene
inviare il jazz come ambasciatore nel mondo e il modo in cui è trattato nel suo
Paese. Quello di cui l'America ha bisogno è di una Voice of America per gli americani.
Con l'eccezione della nostra gente, noi abbiamo educato il mondo intero ad apprezzare
il jazz" (ivi, p. 109). Non è chiaro? Un altro sassofonista, Eddie "Lockjaw"
Davis, mette fuor di metafora il concetto: "L'unica cosa che vuole questo
Paese è spezzare la schiena al comunismo. L'America sobbalza e invia armi e aiuti
ogni qualvolta un Paese sembri trovarsi sul punto di abbandonare la democrazia.
(…) Ma l'arte, non la si finanzia mai" (ivi, pp. 100-101).
Se il jazz ha vissuto con sofferenza la scarsa considerazione
in patria, per la musica creativa gli spazi negli anni Sessanta si sono progressivamente
ristretti, passate le rivolte razziali e con la repressione armata delle Pantere
Nere, i ghetti si sono trasformati in un deserto sociale e culturale.
Significativa è la storia della Pan African People
Arkestra. La racconta uno dei fondatori, il pianista e compositore Horace
Tapscott. Durante la sommossa di Watts la Arkestra era impegnata in un centro
comunitario d'arte. Cercavano di impostare una azione educativa per i giovani di
Los Angeles avvicinandoli alla musica. Nei giorni della sommossa suonarono all'aperto
per riportare un clima di pace mentre infuriavano gli scontri.
Furono oggetto di una irruzione della polizia durante le prove, armi in pugno. Venne
ordinato di smettere e, al rifiuto di Tapscott, l'ufficiale incaricato tira
indietro il cane del suo fucile e grida: "Ho detto di fermare questa dannata
musica!", a questo punto Tapscott chiede al complesso di sospendere,
mentre la polizia abbassa le armi e procede a mettere in fila un gruppo di ragazze
che stavano esercitando altre attività nel centro. Quando la polizia inizia ad andarsene
il bassista, in segno di sfida, riprende a suonare, presto seguito dal resto della
band, un brano dal sapore fortemente allegorico. Le disavventure della Arkestra
sono molteplici. Dopo aver partecipato a un concerto di raccolta fondi per le Pantere
Nere, Tapscott ricorda che tutti i musicisti coinvolti si trovarono spiati
dall'Fbi (Saul, 2003, pp. 302-319).
Il problema di trovare ingaggi e un pubblico ricettivo ha riguardato in maniera
massiccia l'avanguardia postfree:
Anthony Braxton, la Art Ensemble of Chicago, Leroy Jenkins
e molti altri si sono stabiliti in Europa, chi per periodi più o meno lunghi chi
in maniera stabile, come
Steve Lacy. Altri come Randy Weston si sono sistemati in
Africa (Marocco, nel suo caso) alla ricerca di un contatto più autentico con la
cultura panafricana.
Bill Moody The jazz exiles. American musicians abroad, Reno,
University of Nevada Press.
Scott Saul Freedom is, freedom ain't. Cambridge, Harvard University press.
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Data pubblicazione: 01/05/2008
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