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Hot Jazz and Cool Media
Attraverso l'analitico
di Franco Bergoglio


Manisax
acquerello di Franco Bergoglio

De Musica, Anno XIV -2010-
Rivista semestrale a cura del "Seminario di filosofia della musica"
presso l'Università di Milano.
http://users.unimi.it/~gpiana/demus.htm

Nel bel mezzo della musica tradizionale del nostro tempo, compare, forse un po' brutalmente, la jazz band, che azzarda brusche demolizioni, della melodia e secchi, ignoti, strani rumori…[1]

Ecco come appena varcato l'Atlantico nasce quel processo di fascinazione reciproca che interessa gli intellettuali e il jazz. Nell'ambito della cultura successiva alla Prima Guerra mondiale rappresenta la pars destruens, incarna quel bisogno di rigenerazione che passa necessariamente per l'eresia e l'iconoclastia. Il jazz confrontato con la musica europea appare iconoclasta, eretico e altro ancora.

Miscuglio di ibridi, si fa strada nei bar, nei cocktail, tra l'alta società dei poeti futuristi, è una "quinta" di uno spettacolo che rappresenta altro, è un po' il "colore" di quelle società [2].



Possiamo guardare al jazz come a una legittima colonna sonora del "mondo di massa". I moderni mezzi di comunicazione hanno conosciuto uno sviluppo imponente in America e successivamente in Europa, anche se il loro adattamento nel vecchio continente avvenne su tempi più lunghi, poiché dovevano confrontarsi (e scontrarsi) con una cultura fortemente stratificata e solidificata nel tempo, con la mentalità, con i rapporti tra le classi, con una minor aggressività industriale rispetto ai grandi trust del broadcasting statunitense.

La musica nera rappresentava uno degli ingredienti della moderna macchina per la diffusione delle informazioni che venivano esportate. Ogni insulto o apprezzamento espresso sul jazz dovrebbe essere analizzato partendo dall'assunto che chi formulava opinioni si portava dietro, magari anche inconscia, una precisa valutazione sui mezzi di comunicazione di massa. Qualunque esso fosse, il giudizio dato sul jazz ne celava sempre uno sulla modernità.

Nell'Europa occidentale fra le due guerre, cultura popolare significò jazz, cinema e sport [3], scrivevano in fotocopia molti intellettuali del periodo [4]. Altri aggiungono all'elenco le troupe di ballerine e i magnati che sbarcavano copiosi sul continente in uno strano mix di cultura e attività commerciali [5].

Quando gli europei pensavano all'America, pensavano ai musicisti neri, ai cantanti neri e ai ballerini neri e non certo a Hemingway, a Fitzgerald o alla Stein, che vivevano tra loro senza però influenzarli. Fino agli anni Venti, agli occhi del mondo, tranne qualche pittoresca eccezione come Buffalo Bill e Mark Twain, l'America non aveva cultura. Quando finalmente mostrò il suo volto all'Europa, era un volto nero [6].

Le ultime considerazioni, avanzate dalla scrittrice Phyllis Rose a margine della biografia dedicata a Josephine Baker, si adattano quanto mai bene ai personaggi citati, simbolo della penetrazione della civiltà americana in Europa. In stretta simbiosi con il jazz viaggiava il cinema: il primo film sonoro fu Il cantante di jazz (1929) con Al Jolson, proiettato nell'anno del crollo della borsa di New York e della fine della jazz age, o almeno di quella letteraria e proibizionista d'America. Fu la crisi di un'epoca e dei suoi costumi ma non della musica che l'aveva caratterizzata, che assieme al cinema, alla radio e ai marines partì alla conquista del mondo.

Elencando una serie di prodotti che rappresentano l'americanità lo scrittore John Kouwenhoven cita in ordine sparso lo skyline di Manhattan, i grattacieli, la model T della ford, i romanzi di Twain, i fumetti, il jazz, le soap operas, la catena di montaggio e il chewing gum. A metà anni Venti il giornale «Paris-Midi» accomunava l'orchestra di jazz alle piccole vetture, al rasoio gillette e ai capelli corti per le donne [7]. Tutte queste facce hanno qualcosa che ha a che fare con la musica del paese, come aveva precocemente intuito Le Corbusier descrivendo New York come «Hot jazz di pietra e acciaio» [8]. Musica di ambiente urbano e dei suoi luoghi caratterizzanti: la piazza e la strada per lo stile New Orleans e il club, la hall dell'albergo a Chicago. Le sale da ballo dell'era swing e per i generi moderni le caves di New York replicate in ogni importante città europea.

Lo storico inglese James Joll sintetizza la diffusione in Europa dell'arte popolare, tra musica e sport, precisando che essa contagiò anche le classi colte e il jazz, il blues, il charleston. In particolare piacevano anche «[…]ad un intellettuale austero, come il pittore astratto Piet Mondrian che ballava il foxtrot al suono del fonografo nel suo appartamento parigino» [9]; il quale più tardi dedicò al jazz un intero saggio teorico, come vedremo. Il filosofo Giovanni Piana ha rilevato questa doppia ispirazione del jazz e della Metropoli sul lavoro di Mondrian:

Il tema del jazz può così ricongiungersi con il tema del rumorismo, delle sonorità nuove - e soprattutto con quello della città metropolitana, da cui esso è inscindibile. La musica jazz risuona nel cuore della città, essa è propriamente una sua manifestazione espressiva, una vibrazione musicale della sua essenza. La città e il jazz: questi sono i due poli che annunciano una cultura nuova: e se vuoi andare sulle sue tracce e avvertirne l'annuncio -sia pure ancora incerto e forse rozzo - devi recarti non già nelle sale da concerto, ma nei «bar» in un senso del termine che comprende l'intrattenimento musicale in qualunque forma, nei locali dove risuona la jazzband, nel café chantant, nei cabaret, nei locali notturni (…) [10]

La Parigi di quegli anni fungeva da capitale delle avanguardie culturali. Le contemporanee scoperte dell'arte africana e della musica americana si mescolano in un elettrizzante calderone di invenzioni artistiche. Il circo e i suoi spettacoli, la rivista, il varietà, il music hall, squisiti prodotti urbani diffusi a Parigi e Berlino [11] risuonano costantemente delle note del jazz, come testimonia il poeta e scrittore Léon-Paul Fargue, assiduo frequentatore di locali notturni:

Un buon numero è davvero al suo posto nel moderno music-hall, tra jazz rosso rovente e retroscena violacei, in questo formicaio di corde e di gambe, fiori impudenti, assenti da altre scene. [12]

Jean Cocteau, innamorato di Strawinski, Debussy e Satie, pur non apprezzando il jazz quanto Mondrian, pensava che le "orchestre americane di negri" e il music hall fecondassero un'artista e ne stimolassero la creatività, assieme alle "macchine" [13]. E' il solito intreccio tra macchina, modernità. esotismo e scoperta della cultura nera che abbiamo già visto e approfondiremo tra poco.
Era la Parigi dei cabaret dove gli intellettuali cercavano di fuggire le ristrettezze culturali della borghesia e dove il jazz rappresentava una specie di viatico: una sorta di shock culturale, anche se Darius Milhaud nel 1924, a ridosso del fenomeno scriveva che l'influenza del jazz era già svanita, come se si trattasse di un fenomeno artisticamente volatile, inconsistente. [14]
L'anno successivo, il 1925, Wiéner e Doucet, con il loro sodalizio denominato jazz à deux pianos, mostrarono di non condividere questo prematuro funerale. Cercando di parlare al pubblico più ampio decisero di mescolarsi agli altri spettacoli del music hall parigino tra clown, acrobati e giocolieri.
Si schierarono tra coloro che consideravano il jazz un prodotto di massa confacente a più strati sociali e lavorarono anche con alcuni miti della canzone "francese" come Maurice Chevalier e la ballerina cantante Josephine Baker.
Lo storico americano Comer Vann Woodward ha annotato che:

migliaia di uomini hanno preso parte, nel corso degli ultimi due secoli, al gioco europeo consistente nel deplorare, lusingare o celebrare l'America: uomini di ogni parte d'Europa, che scrivevano con i più diversi stati d'animo ed esprimevano tutte le loro colorazioni politiche, dalla sinistra alla destra [15].

Il jazz costituisce uno dei principali ingredienti nella ricetta dell'immaginario americano. Con o contro di esso, tutti gli uomini moderni americani, europei, asiatici e anche africani, hanno dovuto rapportarsi con questo mito o a singoli elementi della sua epopea.
Oltre oceano imperversano ancora i ruggenti anni Venti, dove i "giovani tristi" tratteggiati da Scott Fitzgerald vivono in un'epoca eccentrica:

un varietà spettacolare alla fratelli Marx, con la frenetica orchestrina jazz in platea e sul palcoscenico una farsa volgare [16].

Poco importa che gli autori di simili giudizi adottino questo frasario per descrivere miti da evocare o sfatare immediatamente; la musica della jazz age è spesso sinonimo di decadenza. Fino alla Seconda Guerra mondiale questa fu la consuetudine, anche se negli anni successivi la musica afroamericana continuò a convivere con i pregiudizi di sempre, magari in forma attenuata. I giornali americani della metà degli anni Venti sono ricchi di epiteti che descrivono il jazz come volgare, primitivo, barbarico, imbastardito, addirittura malarico, una peste da trattare con un linguaggio appropriato, quasi venisse descritta una malattia da debellare [17].

Il jazz era sicuramente imbastardito; in special modo quello annacquato che popolava i primi nascenti colossi radiofonici o le orchestre commerciali che suonavano lo sweet, melodie da ballo romantiche ed edulcorate. In Europa arrivava una musica assai vagamente sincopata, soffice, priva delle qualità ritmiche e della verve improvvisativa del vero jazz. Qui a sua volta veniva riprodotta dalle orchestre locali ed adattata ai gusti dei vari paesi.

Uno dei surrogati che circolavano nel vecchio continente venne etichettato Weimar jazz, pur non possedendo caratteristiche di particolare originalità. Si trattava di un fenomeno di colore, alla moda presso le classi medie urbane e gli intellettuali; più utile ai media e ai partiti politici che attaccavano la cultura americana, che non un autentico fenomeno musicale [18].

Come l'età del jazz porta a pensare al proibizionismo e ai gangsters, così la musica "negra" rappresenta bene i tempi e le atmosfere della repubblica di Weimar, in una Germania distrutta dalla guerra e dai debiti ma ricca di fermenti culturali, di divertimento sfrenato e anche dei primi inquietanti germi del nazismo nascente, il tutto mescolato alla rinfusa, come in un quadro di Otto Dix. Spiccano nel panorama Kurt Weill che collabora con Brecht, Jonny Spielt Auf, l'opera jazzata di Ernst Krenek, il talento del regista Max Reinhardt, Artur Schnabel che entusiasma tutti con la sua passione per il jazz e la Bauhaus, la quale a sua volta vantava addirittura una propria orchestrina sincopata. Ma se in molti generava entusiasmo per altri il jazz era pernicioso, antigermanico e portava «al pacifismo e all'internazionalismo» [19]; gli incubi ricorrenti della destra novecentesca più profonda, quella che in ogni aspetto della cultura vedeva una testa di ponte per il terribile kulturbolschewismus, termine dispregiativo col quale vengono associate l'élite libertina e godereccia di Berlino e i lavoratori tedeschi, due pericolosi gruppi sociali agli occhi della piccola borghesia, entrambi affascinati dalle idee rivoluzionarie che spirano da Oriente, da Mosca [20].

La musica di Weimar si rivela formidabile materia per scrittori: Ivan Goll la descrive come una «fuga di Bach a ritmo jazz» [21], magari suonata dai Wintraub syncopators, la band più nota della Berlino swingante, tra fame, inflazione, confusione politica e feste opulente. Saul Bellow infila nel celebre racconto Quello col piede in bocca una riflessione definitiva relativa a questo coté, degna del protagonista, un anziano musicologo:

Ma è documento d'epoca e basta, questo jazz da cabaret tedesco degli anni Venti, la reazione di Berlino alla guerra in trincea e al crollo dell'umanesimo. [22]

Non si tratta comunque solo di una manifestazione berlinese. In quanto fenomeno di massa in ogni moderna metropoli da New York a Mosca, passando per Parigi, Roma, Vienna e tutte le altre importanti città mitteleuropee prosperavano cabaret che prima o poi ospitavano pseudo jass bands.[23] Mosca in particolare ricorda la Berlino di Weimar: i primi anni della Rivoluzione russa sono ricchi di vivacità culturale. La capitale russa tentennava tra seriose tentazioni avanguardiste e una spensierata vita notturna ricca di jazz bands e con tanto di ballerine nei music halls che imitano le "americane". Molte di queste orchestre condivano le trasgressive serate moscovite, tanto da aver guadagnato una parte nel gran ballo di Satana (al capitolo 23), snodo cruciale del romanzo Il maestro e Margherita di Bulgakov. L'atmosfera raccapricciante della festa trova un momento cruciale nella scena zoomorfica con protagonista la pazza orchestrina di jazz diretta da un trombettista-scimmia, accompagnato agli altri strumenti da «mandrilli, gibboni e bertucce».

Presto però il jazz sovietico divide gli animi in due opposte fazioni: i sostenitori del ritmo nuovo di provenienza umile e coloro che lo vedono (come i nazisti) frutto delle degenerazioni artistiche della borghesia occidentale. Ma torniamo ancora alla Russia degli albori rivoluzionari. Il jazz fa capolino addirittura in Siberia, in un romanzo di William Gerhardie, un distaccato, ironico sguardo sulla rivoluzione di notevole fattura stilistica. I fatti si svolgono in pieno interregno post ottobre, e le fazioni bianche mandate dalle potenze occidentali combattono l'armata rossa per soffocare la rivoluzione. Nel bel mezzo della guerra civile, tra lotte fratricide e confusione la borghesia russa, in una frenesia da ultimi giorni, si diverte in:

…una successione di balli, di pranzi, di concerti, di garden parties…

Anche gli americani partecipano entusiasti:

…avevano esagerato quanto a cortesia, inviandoci due jazz-bands invece di una, con la conseguenza che il loro quasi simultaneo impiego nelle due sale attigue riservate alle danze risultò non del tutto soddisfacente per i timpani. Mentre il complesso di chitarre hawaiane morbidamente scivolava e tremolava in un languido e malinconico valzer, il complesso d'ottoni della sala adiacente soffiava a più non posso, esplodendo in un travolgente one-step. [24]

Arte, musica, fotografia, danza e ogni attività espressiva appaiono in pieno fermento anche nei primi anni post rivoluzionari. L'importante ballerina Isadora Duncan sceglie Mosca come sede di attività della sua scuola di ballo e per il quarto anno della Rivoluzione d'ottobre danza davanti ai dirigenti russi, tra i quali figura Lenin[25]. Peraltro Duncan fu sempre critica nei confronti del jazz e del ballo nero in tutte le sue stravaganti varianti, come le animal dances (fox trot, bunny hug, grizzly bear) che definì spesso come espressione di «primitivi selvaggi» e «convulsioni sensuali del Negro»; inadatti ad esprimere la "nuova grande visione" della vita in America. [26]

Viceversa l'entusiasmo per il jazz era ravvisabile nel lavoro di un certo numero di compositori di "musica seria", pensiamo a nomi del calibro di Ervin Schulhoff, Bohuslav Martinu, per citare solo quelli di nazionalità ungherese, a testimoniare la profondità e vastità dell'influenza in area mitteleuropea; senza ricadere nel giro dei nomi maggiormente noti per il loro apprezzamento del folklore afroamericano: Stravinski, Dvorak, Shostakovich, Hindemith.

Il jazz alla moda negli anni Venti subisce negli anni Trenta gli attacchi dei regimi nazionalfascisti ma non scompare: né per la condanna del nazismo, né per quella del fascismo, né, più tardi, sotto il rigido controllo comunista.

L'arte è un prodotto della sete di vita, ha osservato lo scrittore boemo nonché sassofonista dilettante Josef Škvorecký; e il totalitarismo, che vuole controllare tutti gli aspetti dell'agire umano, tenta sempre di coartarla. Irreggimentata, muore. O si fa protesta..

Un'arte popolare e di massa come il jazz diventa protesta di massa. è per questo che le pistole degli ideologi, e talvolta anche quelle dei poliziotti, sono puntate contro gli uomini con i sax. [27]

Ancora negli anni Cinquanta, Togliatti, difendendo le scelte del partito comunista italiano sui fatti d'Ungheria, cita queste tesi, riprendendo argomenti classici della retorica anti-jazz, vecchi ormai di trent'anni:

La rivoluzione (…) fatta da quella gioventù che ha concentrato il suo interesse sui pantaloni a tubo, sullo swing, sul rhum, (…) sugli amori passeggeri, e non so che altro! [28]

Mentre oggi possiamo dire: sì! Il jazz si presenta tra le espressioni più significative del Novecento e non per la sua presunta imposizione alle masse operata dal mercato, come pretendeva Togliatti, il quale a volergli concedere un giudizio generoso, volgarizzava il pensiero di Adorno. Qualche volta nel corso della storia questa musica ha conosciuto la fortuna commerciale, come ai tempi dello swing o, più recentemente con il genere del jazz-rock e della fusion: mai, neanche lontanamente, ha incarnato valori controrivoluzionari.


[1] Piet Mondrian, Scritti scelti. Il neoplasticismo. Treviso, Linea d'ombra libri, 2006, p.36.
[2] Franco Minganti, L'oltre- jazz di Novecento: il mito del mondo atlantico dell'emigrazione, «Bollettino '900», n°16-17 dicembre 1998 e Giorgio Rimondi, Jazz band. Percorsi letterari fra avanguardia, consumo e musica sincopata, Milano, Mursia, 1994, p.14.
[3] James Joll, Cento anni d'Europa. 1870-1970, Bari-Roma, Laterza, 1975, p.403.
[4] Uno su tutti: Max Horkheimer, Teoria critica. Scritti 1932-1941, vol.II, Torino, Einaudi, 1974, p.317. «Le nuove generazioni senza una fede se non nel futuro vivevano immerse nello sport e nel jazz».Sull'importanza del modello americano (e quindi del jazz) per la società europea si veda: Philippe Ariés, Georges Duby, La vita privata. Il Novecento, Milano, Mondadori, 1994. In particolare i saggi di Omar Calabrese (p.91-92), Sophie Body-Gendrot (p.320-322), Guido Fink e Franco Minganti (p.366-372).
[5] Thomas J. Sanders, Holliwood in Berlin, Berkeley, University of California press, 1994, p.3.
[6] Phyllis Rose, Jazz Cleopatra, Milano, Frassinelli, 1990, p.89.
[7] Hobsbawm, Gente non comune, cit., P.345
[8] Kouwenhoven in O'Meally, R.G., The jazz cadence of american culture, New York, Columbia University press, 1998, pp.124-127.
[9] Joll, Cento anni d'europa, cit., p.404.
[10] Giovanni Piana, Mondrian e la musica, Milano, Guerini e associati, 1995 p.82
[11] Sugli spettacoli popolari e sulle arti circensi: Alessandro Serena, Storia del circo, Milano, Bruno Mondadori, 2008.
[12] Léon-Paul Fargue, Music-hall, Milano, Medusa, 2008, p.111.
[13] Jean Cocteau, Il gallo e l'arlecchino, Firenze, Passigli, 1987, pp.49-50.
[14] Darius Milhaud (Aix-en-Provence, 4 settembre 1892 - Ginevra, 22 giugno 1974), Les Resources nouvelles de la musique, L'Esprit nouveau 25 (1924), citato in Harold B. Segel, Turn-of-the-Century Cabaret: Paris, Barcelona, Berlin, Munich, Vienna, Cracow, Moscow, St. Petersburg, Zurich, New York: Columbia University Press, 1987, p.xiv.
[15] Comer V. Woodward, America immaginata, Milano, Il saggiatore, 1993, p.22
[16] Herbert W. Edwards, Rod W. Horton, I fondamenti della letteratura Americana, Roma, Editori Riuniti, 1984, p.207.
[17] Rudi Blesh, Shining trumpets, New York, Knopf, 1946, passim, pp.328-329.
[18] J. Brandford Robinson, Jazz reception in Weimar Germany: in search of a shimmy figure, in: Music and performance during the Weimar Republic, ed. Bryan Gilliam, Cambridge University press, 1994, p.107-116.
[19] Phyllis Rose, cit. p. 135.
[20] Marshall Dill, Jr, Germany, a modern History, Ann Arbor, The University of Michigan Press, 1961, p.326. Un affascinante analisi sulla vita culturale di Berlino, al tempo stesso riflessione generale sull'arte di massa, in: Siegfried Kracauer, La massa come ornamento, Napoli, Prismi, 1982.
[21] Ivan Goll, Sodoma e Berlino, Milano, Il formichiere, 1975, p. 58.
[22] Saul Bellow, Quello col piede in bocca e altri racconti, Milano, Mondadori, 1987, pp.28-29.
[23] Si vedano Harold B. Segel, Turn-of-the-Century Cabaret, cit. e Phillip Dennis Cate, Mary Shaw, The Spirit of Montmartre: Cabaret, Humor, and the Avant-Garde, 1875-1905, Rutgers: State University of New Jersey, 1996.
[24] William Gerhardie, Futilità, Torino, Einaudi,1988, prima ed. 1922, p.114-115
[25] In principio era il corpo…L'arte del movimento a Mosca negli anni Venti, catalogo della mostra, a cura di Nicoletta Misler, Milano, Electa, 1999.
[26] Isadora Duncan, My Life, New York: Boni and Liveright, 1927, p. 340-342.
[27] Josef Škvorecký, Il sax basso, Milano, Adelphi, 1993, p.15.

Il sociologo Packard motiva il rifiuto del jazz e del rock & roll da parte del totalitarismo sovietico con l'effetto che hanno queste musiche nel ridurre la capacità di controllare i comportamenti giovanili. The more susceptible soon faint or develop twitching hysteria. (One reason why Russia's totalitarian leaders frown on rock'n'roll and jazz is that these forms offer people release from controlled behavior. Vance Packard, Building the Beatle Image, The Saturday Evening Post, n.237, 21 Marzo, 1964, pp.36-39.

[28] Palmiro Togliatti, Irodalmi usjàg. Testimonianza sui fatti d'Ungheria, «Rinascita», anno xiv, n.3, marzo 1957; ora in: La politica culturale, Roma, Editori Riuniti, 1974, p.280.







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Data pubblicazione: 24/10/2010

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