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Hot Jazz and Cool Media
The musical Persuaders
di Franco Bergoglio


Manisax
acquerello di Franco Bergoglio

De Musica, Anno XIV -2010-
Rivista semestrale a cura del "Seminario di filosofia della musica"
presso l'Università di Milano.
http://users.unimi.it/~gpiana/demus.htm

True sensations, moods and pure poetry are, as commodities, difficult to handle. Society's market (the sale of kitsch culture) is mechanical and operates by formulas.
Clement Greenberg

La pubblicità plasma una profonda simbiosi tra i frutti del consumismo americano e il jazz, campione riconosciuto della cultura del Paese. La comunicazione commerciale gioca un ruolo sfaccettato: sicuramente economico, sociale e psicologico; ma, prima di approdare alla propria promozione in quanto bene per sé il jazz ha indossato una veste diversa, ponendosi come veicolo per la diffusione di altri prodotti targati Stati Uniti. La musica nera è strettamente intrecciata al mondo degli affari americano e al suo consumismo. E come potrebbe evitare questo abbraccio, in una società totalmente pervasa dalle logiche del mercato? Quello stesso jazz che durante la Seconda Guerra mondiale viaggiò il mondo come retroguardia dell'esercito a stelle e strisce, commodity al pari della cioccolata in barrette, delle calze di nylon e delle sigarette, in patria veicolava da ben più tempo altri pacifici messaggi commerciali. A buon diritto lo si può assimilare ai persuasori occulti (the hidden persuaders) di cui si iniziava a discutere negli anni Cinquanta, sotto l'egida del sociologo Vance Packard. Theodor Adorno aveva anticipato questa critica al legame tra l'industria del divertimento e jazz (Über Jazz, 1936) stigmatizzando il fenomeno sotto il titolo di gebrauchsmusik, musica di consumo, soggetta alle necessità della moda e del mercato, alla quale viene negata ogni qualsivoglia autonomia artistica [1].



Per il jazz tutto iniziò agli albori della pubblicità di massa, con un prodotto emblema dell'americanità: i cereali della colazione. La General Mills stava per ritirare dal commercio i Wheaties per scarse vendite, ma prima provò a rilanciarli con una canzone, il prototipo di tutti i jingles a venire. Have you tried Wheaties? Cantata da un quartetto vocale con armonizzazioni alla moda, esaltava il valore del cereale nella dieta al mattino perché il frumento è il miglior cibo dell'uomo. Le vendite decollarono. I Wheaties divennero un indispensabile complemento della colazione. Era il 1926, anche se il brano riprendeva una canzone di qualche anno precedente, Jazz Baby (1919), scritta dalla accoppiata Merrill/Jerome, un pezzo di una certa fortuna, inciso anche dall'orchestra di James Reese Europe di ritorno dalla guerra. Blanche Merrill, compositrice e autrice di testi, lavorava per gli show di Broadway fin dal 1912; coinvolta in produzioni di vaglia nelle Ziegfeld's follies, con brani costruiti per la stella Fanny Brice. Per un certo periodo fu sposata con una autentica gloria del jazz d'ante guerra, il pianista stride Willie "the lion" Smith; prima che questo matrimonio misto risentisse delle forti pressioni razziali dell'epoca. M.K. Jerome, songwriter in seguito molto richiesto a Hollywood per i primi musical, era nato come pianista da Vaudeville e accompagnatore di sala per i film muti. Nella sua lunga carriera fu coautore di un notevole numero di romantiche popular songs come You, You Darlin o Sweet Dreams, Sweetheart. Jazz baby tornò alla sua primaria funzione di canzone solamente nel musical Thoroughly Modern Millie (1967), interpretata con gusto retrò da Carol Channing.

Capita l'antifona la General Mills sfruttò a fondo il jingle, rafforzandolo con altre tecniche di marketing, quali l'utilizzo delle immagini di personaggi sportivi sulla confezione del prodotto: il giocatore di baseball Lou Gehrig (1934) e nel 1936 l'atleta di colore Jesse Owens.

I corn flakes arricchiti alla crusca e il loro jingle hanno in tal maniera raggiunto lo status di icona culturale, incarnando uno stile di vita. La General Mills in seguitò continuò la propria pionieristica attività dedicandosi alla sponsorship di trasmissioni radiofoniche e televisive [2].
Have you tried Wheaties? venne usata per anni: solamente il testo cambiava, seguendo l'evoluzione dei costumi e le esigenze di vendita. Per questo la canzone va considerata un jingle ante litteram: pur non essendo nata con lo scopo di vendere un pacco di cereali in scatola, Jazz babies evidentemente possedeva la caratteristica fondamentale della musica pubblicitaria che risiede nella capacità di farsi ricordare, agganciando la mente dell'ascoltatore con un motivo semplice ma indelebile (hook) che, quasi per un effetto di trascinamento, riesce a fissare nella memoria dell'ascoltatore anche il messaggio.
La musichetta pubblicitaria si trasforma in una specie di verme solitario, batterio maligno (definito non a caso earworm da James Kellaris, esperto in marketing) che si installa abusivamente nelle orecchie per non abbandonarle più. Dopo i primi esempi pionieristici, il jingle viene pensato ab ovo con quelle caratteristiche sfruttando ogni possibile advertising technique o ritrovato tecnologico (anche il gergo degli specialisti in jingles denuncia l'elaborazione di regole condotta su basi scientifiche) dove gli elementi sono combinati tra loro in modi precisi. Questa tecnica nel corso degli anni verrà perfezionata e raggiungerà livelli d'eccellenza, basti pensare a Coke Time (1944), company theme di Leonard Joy per la Coca Cola e, di poco successivi, i motivi per corporations mastodontiche quali Colgate e Chiquita.

Ma i jingles sono futili, si potrebbe obiettare. Annoiano. Non sono per niente musica, al massimo li si può considerare un codice biologico, una specie di richiamo d'accoppiamento del consumismo. Forse sì, forse no. Concepiti nel suo studio da una specie di darwiniano in incognito, il compositore di jingles; il jingle in questione ha un obiettivo, una raison d'être: la sopravvivenza. Intelligenza, bellezza, scorrevolezza, nessuna di queste caratteristiche significa qualcosa se il jingle non riesce ad attecchire immediatamente dentro il cervello che lo ospita e conficcarsi in profondità [3].

Superati da nuove e più raffinate tecniche di persuasione del consumatore, per alcuni osservatori i jingles sono diventati memorabilia dei tempi andati, materiale per nostalgici del vintage pubblicitario o in alternativa, strumento di indagine per storici del costume.

Come abbiamo osservato la musica nera si trova inserita nel meccanismo pubblicitario fin dagli albori, ben prima che i clip televisivi saccheggiassero tutta la musica afroamericana dal blues fino alla musica di James Brown, usata nel reclamizzare una macchina per liofilizzare il caffè (forse perché il funky è una sostanza eccitante?). Precede anche il successo di jazz babies. Il legame tra sette note e pubblicità si situa in un momento antecedente la riproducibilità tecnica dell'arte, ancor prima che rulli di pianola, fonografi e la radio diffondessero la musica meccanica.
Da tempi remoti la musica si commerciava in spartiti che finivano sui leggii di assopiti pianoforti da salotto dove venivano eseguiti dalle delicate mani di fanciulle in età da marito appartenenti alla buona borghesia americana.

A partire dai primi anni dell'Ottocento le ditte di edizioni musicali e spartiti avevano assunto il ruolo di veicolo per reclamizzare -più che un singolo prodotto- un complessivo immaginario americano che incorporava anche gli enormi passi avanti della tecnologia nella produzione di beni e servizi innovativi, con la celebrazione del servizio postale, del telegrafo, della ferrovia (e anche del tabacco da sigaretta), per giungere poi nel Novecento all'esaltazione del telefono e della macchina per scrivere. L'industria delle edizioni musicali vendeva centinaia di migliaia di spartiti, le canzoni che incontravano il successo potevano anche raggiungere tirature milionarie. La pubblicità intuì immediatamente le implicazioni commerciali della diffusione capillare nel ceto medio e nei primi anni del nuovo secolo prese a sponsorizzare queste pubblicazioni arrivando a regalarle come gadget promozionali. Si privilegiavano ovviamente brani semplici, melodici, dalla presa sicura che mischiavano influenze dell'opera italiana con ballate irlandesi e innocui aspetti del folklore pseudo "negro" tratti dalle coon songs, e ancora marce, ballabili come il two step e infine il valzer. La musica nera si insinua così tra gli arredi del lounge di casa in un anticipo involontario della musique d'ameublement teorizzata da Erik Satie (a sua volta promotore dell'ascolto del jazz in Francia, ma questa è un'altra storia) [4]. La loro innocenza rende queste canzoni facilmente suonabili. I compositori propongono generalmente parti strumentali semplici, adeguate a strumentisti non troppo abili e funzionali allo scopo di sottolineare il testo. Il cantante deve esprimere con la voce e la mimica facciale il sentimentalismo delle liriche del brano, generalmente rivolte verso amori lontani, perduti o ritrovati, terre esotiche, nostalgie di casa: il tutto condito da sapidi accenti romantici [5].

Tra le prime industrie a sponsorizzare gli spartiti di parlor songs si annoverano quelle che costruivano pianoforti, ma presto il medium scavalcò il recinto del mondo musicale e si mostrò ottimo viatico per prodotti di tutti i generi: dalla bevanda analcolica, alla compagnia assicurativa, passando per una fabbrica di corsetti per signora [6]. La musica poteva (e vendeva) di tutto, compreso un prodotto atipico ma purtroppo assai diffuso: la guerra. Il suono ha racchiuso fin dagli inizi dell'umanità significati marziali, ma con la prima guerra mondiale si scoprì che poteva anche svolgere ancora un ruolo in più: dal campo di battaglia si passava all'opinione pubblica; anzi il terreno di scontro si spostava sull'altrettanto strategico fronte interno: bisognava motivare una popolazione tendenzialmente isolazionista delle ragioni del conflitto. Tra la metà del 1914 e il 1919 furono coperte da copyright quasi trentasei mila canzoni di tema patriottico e di queste ben sette mila vennero pubblicate sotto forma di spartito, entrando in circolazione presso il pubblico. Si tratta di uno sforzo propagandistico a scopo bellico di immani proporzioni, forse con la malcelata ambizione di contrastare anche in campo culturale lo strapotere tedesco [7].

Ma le parlor songs, queste sentimentali canzoni ora da salotto, ora da battaglia, avevano i giorni contati: sarebbero state sostituite dal primo jazz, con i suoi rumorosi strumenti a fiato, la sua esuberanza ritmica e la sua commerciabilità. Non è certamente casuale che questa musica sia ufficialmente nata nella piazza del mercato per i neri di Congo Square a New Orleans, abbia mosso i primi timidi passi nelle case di piacere del quartiere francese della stessa città e ancora acerba sia emigrata a Chicago per vivervi una irruente adolescenza in locali dove si smercia l'alcool durante il proibizionismo[8]. Che si tratti di traffici illegali o di vendite alla luce del sole il nascente jazz ha sempre a che vedere con il commercio. I ruggenti anni Venti trovano Chicago letteralmente "risuonare" delle gesta di un trio di trombe d'eccezione: King Oliver, Louis Armstrong, Bix Beiderbecke. La città ventosa, questo il suo soprannome, non vive solamente nelle sparatorie ordinate da Al Capone o nella musica sincopata dei club notturni; rappresenta in primo luogo gli aspetti più caratteristici, ma quotidiani, della modernità americana. Da mercato del bestiame all'invenzione della carne in scatola. Dalle catene di smontaggio per la macellazione dei buoi alla commercializzazione della margarina e al fast food della McDonald. E ancora incorpora vistosissime contraddizioni: la rete ferrovia più grande che trasporta il numero di vagabondi e poveri più alto, i capitalisti più feroci. Una città frenetica, che spesso anticipa l'economia a venire: dall'accentramento del mercato agricolo globale all'invenzione dei futures in borsa. Una città che estremizza i contenuti contraddittori dell'americanità e impone al resto del paese una cultura industriale innovativa strutturata sulla uniformazione senza limiti del prodotto: da quello agricolo a quello finanziario [9]. In musica la metropoli della standardizzazione consumistica ha originato l'omonimo stile Chicago, con i suoi primi standard jazz. Una analogia forse poetica e certamente sospetta, in attesa di una conferma empirica.

Finita la guerra e passata la crisi economica del '29 il mercato musicale tornò a vendere prodotti più pacifici. Il medium del tempo era la radio che diffondeva gli spettacoli delle maggiori swing band in voga. Tutti i principali direttori d'orchestra si trovarono coinvolti nella guerra delle multinazionali del tabacco per conquistarsi una fascia di consumatori più ampia. I vari Goodman, Shaw, Dorsey all'apice della loro fama reclamizzavano notissime marche di sigarette, ricavandone cospicui introiti. Musicisti e cantanti bianchi per un pubblico bianco, su una musica di matrice afroamericana. Una contraddizione perfettamente spiegabile secondo il sociologo Stuart Ewen se si coglie il legame tra alterità nera e pubblicità che in parte mette in crisi il modello prevalente di conformismo consumistico, quello che riguarda una massa consumistizzata:

Anche se l'industria culturale bianca ha sicuramente attinto molte idee dalla musica nera, il carattere decisamente bianco delle immagini della pubblicità non faceva che rafforzare l'ispirazione razzista ed emarginante della nuova cultura. Probabilmente questa è una delle ragioni per cui la tranquillità della cultura bianca degli anni Cinquanta è stata tanto scossa dal movimento per i diritti civili dei neri (..). Poiché la cultura commerciale stava presentando il consumismo passivo in termini solo bianchi, quelli che non avevano la possibilità di partecipare a questo immenso banchetto (cioè, in gran parte, la gente di colore) venivano lasciati a occuparsi dei fatti propri [10].

Solo gli anni Sessanta portarono una ventata di controcultura nella musica popolare che invece di propagandare singoli prodotti, iniziò a veicolare su larga scala un immaginario politico [11]. Si trattava inizialmente di un messaggio antirazzista, pacifista e non consumista (Bob Dylan). Anche in questo caso l'alterità della popolazione nera rispetto all'establishment, la sua esclusione dalla ricchezza e dalle possibilità sociali del Paese fecero muovere la musica di colore in anticipo: il blues da decenni contrabbandava messaggi di protesta camuffati nei suoi testi, il be bop e più incisivamente l'hard bop levarono la loro voce dalla metà degli anni Cinquanta, in anticipo su flower power e movimento hippie.

Quel poco di mercato che si rivolgeva a un target nero, tra i più importanti l'industria discografica, vendeva un prodotto razzialmente connotato, dove la pelle giocava un ruolo "coloristico" e "feticistico" di stampo coloniale, secondo Adorno che -in quest'occasione- sicuramente coglie un aspetto veritiero [12].

La sponsorizzazione di prodotti commerciali non musicali da parte del jazz ha perso molto del suo valore dirompente con la trasformazione in musica d'arte. Non sono più i tempi di Ella Fitzgerald associata a un Bourbon whiskey o di Duke Ellington, testimonial della macchina per scrivere Olivetti Lettera.

L'ultimo importante sussulto nell'utilizzo del jazz a fini commerciali si ebbe agli inizi degli anni Sessanta con il tour africano di Louis Armstrong, organizzato dal Dipartimento di Stato americano nell'ottica di contrastare l'influenza culturale dell'Unione Sovietica. In piena guerra fredda l'anticomunista Armstrong venne sponsorizzato nel suo viaggio attraverso il continente nero dalla Pepsi cola, in cerca di clienti da sottrarre alle potenti bibite concorrenti [13]. Un evento ampiamente riportato dalle cronache dell'epoca; profondamente simbolico di questa amalgama tra diplomazia, politica internazionale, penetrazione mercantile nella quale il jazz rappresenta una speciale e attraente foglia di fico.

Tempi passati. Al più oggi, singoli jazzisti, celebri per il loro virtuosismo, possono associare il proprio nome a marche di strumenti musicali sulle apposite riviste specializzate. Con l'eccezione di una nota birra che lo sponsorizza (assieme al pop, al rock e al metal), il jazz viene abbinato a pochi prodotti: un profumo o una scattante utilitaria. Beni di consumo pensati per un target medio-alto, costituito di liberi professionisti, studenti universitari, singles, che privilegiano l'ascolto di uno stereotipato smooth jazz trasmesso dai programmi radio notturni alla eccessiva banalità della televisione. Nel ventunesimo secolo il jazz vende solamente come brand generico, metafora di un certo stile, alto ma non tedioso. Alla stregua di un abito casual ma non dozzinale. Una specie di Jacuzzi jazz, come lo ha sarcasticamente definito il musicologo Jack Wheaton.


[1] Lee B. Brown, Adorno's Critique of Popular Culture:The Case of Jazz Music, Journal of Aesthetic Education, Vol. 26, No. 1 (Spring, 1992), Chicago, University of Illinois Press, pp. 17-31.
[2] Un giovane conduttore radio dell'IOWA vinse una gara sponsorizzata dai Wheaties. Il premio era un viaggio in California a spese della General Mills. Il nome del commentatore? Ronald Reagan!
[3] James Parker, Let us now praise jingles, The Boston Globe, 6 December, 2009
[4] Per un diverso uso del concetto di Satie in rapporto al jazz si veda: Ted Gioia, L'arte imperfetta, Milano, Excelsior 1881, 2007. In particolare il primo capitolo, Louis Armstrong (New Orleans, 4 ago 1901 – 6 lug 1971) e la musica d'arredamento.
[5] Nicholas E. Tawa, The Performance of Parlor Songs in America, 1790-1860, Anuario Interamericano de Investigacion Musical, Vol. 11, 1975, pp. 69-81
[6] Copertine, spartiti, testi e l'ascolto in midi degli esempi citati si trovano nell'articolo: In Search of American Popular Song; "Vanity Music", Music as Advertising, della rivista ParlorSongs on-line music magazine, n.8, agosto 2000, prodotto dalla The Parlor Songs Association, http://parlorsongs.com/issues/2000-8/2000-8.php.
[7] Watkins, Glenn, Proof Through the Night: Music and the Great War, Berkley, University of California Press. 2003, p.265. Si veda anche: Anna Moir, Prejudice and patriotism: Frederick Stock, Anti-germanism and american music in World war I, history thesis, 2009, Haverford College, http://thesis.haverford.edu/dspace/bitstream/2010066/3598/2/2009Moira.pdf. Per approfondimenti e un catalogo di brani militari con relativi ascolti, K. A. Wells, Music as War Propaganda. Did Music Help Win The First World War? ParlorSongs on-line music magazine, N.4 aprile 2004.

[8]Catherine Gunther Kodat, Conversing with Ourselves: Canon, Freedom, Jazz, Baltimora, The Johns Hopkins University Press, American Quarterly, Vol. 55, No. 1, Mar., 2003. The market is also the inescapable horizon of jazz, and not just because jazz is an aspect of life: when we consider New Orleans's Congo Square as the originating locus of American jazz, the connection between jazz and exchange starts to appear more than merely acciden tal (p 2).

[9] Marco D'Eramo, Il maiale e il grattacielo, Milano, Feltrinelli, 1999.
[10] Stuart Ewen, I padroni della coscienza, cit., p. 196.

[11] Sul jazz come commodity e sulle implicazioni con l'immaginario politico si veda: Berndt Ostendorf, Celebration or Pathology? Commodity or Art? The Dilemma of African-American ExpressiveCulture, Columbia College Chicago and University of Illinois Press, Black Music Research Journal, Vol. 20, No. 2, 2000, pp. 217-236

[12] Les Back, Voices of Hate, Sounds of Hybridity: Black Music and the Complexities of Racism, Black Music Research Journal, Chicago, Columbia College and University of Illinois Press, Vol. 20, 2, 2000, pp. 127-149.

[13] Lisa E. Davenport, Jazz diplomacy. Promoting America in the cold war era, Jackson, University press of Mississippi, 2009, pp. 85-86.







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Data pubblicazione: 23/01/2011

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