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Filippo Bianchi
Il secolo del jazz

Bacchilega editore, 2008
248 pagine

In primis due parole sulla Bacchilega di Bologna, che si conferma punto di riferimento per l'editoria sulla musica nera americana, con titoli ricchi di commistioni con la letteratura, come per il recente volume dedicato dall'accoppiata Minganti e Rimondi al poeta Amiri Baraka. Un taglio culturale che si conferma anche con la pubblicazione del lavoro di Filippo Bianchi.



Il Secolo del jazz
sintetizza in poche parole quello che ha significato la musica afroamericana per il Novecento. Dichiarato, fin dalle primissime pagine, l'omaggio a Eric J. Hobsbawm, autorevole storico inglese nonché appassionato, studioso e navigato conoscitore di cose jazzistiche. La definizione del Novecento come secolo breve coniata da Hobsbawm, dalla quale discende quella di Bianchi di secolo del jazz è affascinante. Per me poi riveste un personale motivo d'orgoglio l'aver già focalizzato questo binomio tempo storico/musica come centrale nell'interpretazione critica in Jazz! Appunti e note del secolo breve, uscito nel febbraio dello scorso anno.

Bianchi si muove ad alti livelli: quelli in cui si misura "lo stato dell'arte" del mondo jazz e dove spesso si passa con deliziosa nonchalance dall'argomento contingente al filosofico. In questo Bianchi è sicuramente uno tra gli autori più titolati del nostro Paese, con le credenziali date dalla sua decennale militanza giornalistica in ambito musicale e dall'esclusivo angolo visuale di direttore di Musica Jazz, più che una rivista una istituzione per appassionati e addetti al settore.

La prima parte del libro, denominata opportunamente editoriali traccia le coordinate. La prima inevitabile, riguarda il secolo ormai concluso: colonna sonora il jazz sia sui titoli di testa che su quelli di coda, scrive l'autore. Poi le pagine sgranano via via i numerosi risvolti cinematografici, letterari, le sfide poste dal futuro e i topoi della critica: l'improvvisazione, il jazz come esperanto musicale universale, la morte per mancanza di creatività periodicamente annunciata ma il cui funerale forse non è ancora stato celebrato. Il pregio dell'autore risiede nell'affrontare questi temi riuscendo costantemente a veleggiare al largo dai luoghi comuni, dalle secche del già detto.

La seconda parte del libro vede l'autore provare lo stato dell'arte e dei convincimenti esposti in precedenza con interviste effettuate a selezionatissimi protagonisti (dal decano Sonny Rollins, a Steve Lacy, per giungere agli sperimentatori europei come Evan Parker e Han Bennink).

Seguono ancora altre interviste a scrittori, attori, registi, filosofi…Il jazz visto dall'esterno, dai non addetti ai lavori, uno sguardo spesso altrettanto profondo.

Scrive nella postfazione Gino Castaldo elencando i meriti di Filippo Bianchi: parla di jazz, parla di musica, e lo fa benissimo, ma questa è solo una frizzante e rigogliosa maschera. E ancora: le sue arguzie, i suoi perversi sillogismi, la spietata razionalità (…) con cui analizza le cose è del tutto politica. Insomma, un libro intelligente, che parla del jazz, del suo mondo e del mondo in generale, con a volte un accenno di disincantato pessimismo, in sintonia con codesti mala tempora

Franco Bergoglio per Jazzitalia







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Data pubblicazione: 04/02/2009

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