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Il jazz non è una setta, è un mondo...
marzo 2013
di Filippo Bianchi

I am a musician and play jazz/art music. Please tell me again, when was the economy good? I don't worry about recession. I was broke during prosperity!
Jack Walrath

Nelle scorse settimane, il mondo del jazz nel suo complesso – musicisti, organizzatori, giornalisti, produttori, fotografi, semplici appassionati – ha preso per la prima volta un'iniziativa politica, rivendicando per questa musica la dignità istituzionale che ha negli altri paesi europei. No, sto esagerando: qualcosa di anche vagamente simile a quanto avviene nel resto del continente, rispetto a cui, come spesso ci accade, siamo un'eccezione; ciò che raramente è una buona notizia, perché di solito si racchiude nella formula "costi più elevati e servizi peggiori".



Siccome persiste in alcuni ambienti la visione del mondo del jazz come di una strana setta, sarà bene specificare subito: questa non è una rivendicazione "corporativa" o di settore; è semmai parte di una più generale battaglia di civiltà per maggiori finanziamenti pubblici alle attività culturali. Anzi, rientra in un più generale movimento d'opinione europeo per invertire la diffusa tendenza alla contrazione della spesa continentale in quell'ambito. Assodato questo, non v'è chi non veda che, della cultura contemporanea, il jazz è componente fondamentale e indispensabile, come nessun'altra permeabile, statutariamente vocata a intrattenere rapporti di scambio e comune creazione con le altre musiche e le altre arti. L'esatto contrario di una setta, semmai. E infatti, nell'appello che ha raccolto migliaia di firme citato all'inizio, si sottolinea subito come il problema non riguardi solo il jazz, ma molte altre musiche d'oggi che ne condividono la condizione.
Ed è curioso come lo stato si faccia carico di sostenere economicamente quelle forme artistiche – dalla danza fino alla sperimentazione "colta" – che spesso si rivolgono al jazz per trarre ispirazione o per arricchire il linguaggio, ma non il jazz stesso. Come se la sua origine popolare impedisse l'accesso a corte. Diciamo che il jazz è un po' come quelle fidanzate con cui si passa volentieri il tempo ma che ci si vergogna di esibire in pubblico. Bene, i firmatari dell'appello suggeriscono che sia ora di ufficializzare finalmente il rapporto convolando – come si dice – a giuste nozze con le istituzioni.

Gli aspetti culturali che impongono una tale scelta sono innumerevoli, e sono accuratamente elencati nella dichiarazione con cui l'Unesco, lo scorso anno, ha decretato il jazz "patrimonio dell'umanità". Non sarà il caso di ripeterli, salvo che per rilevare come le caratteristiche stesse del mondo contemporaneo siano perfettamente aderenti alla "filosofia del jazz": il cosmopolitismo delle informazioni, il pluralismo delle razze, l'impollinazione incrociata fra le culture, l'improvvisazione, cioè la capacità di reagire istantaneamente alle sollecitazioni.

Giusto vent'anni fa, in un articolo significativamente intitolato "I cortigiani della cultura", un commentatore tutt'altro che barricadiero come Sergio Romano scriveva su La Stampa: "La curva della creatività nazionale è piatta; se potessimo misurare la vita intellettuale come si misura il debito pubblico scopriremmo che tutte le cifre sono in rosso: nei settori in cui era tradizionalmente forte – teatro, opera, arti visive – l'Italia esporta poco, e ha un saldo negativo che deve pagare in valuta". Da allora, le politiche culturali adottate hanno ulteriormente indebolito l'industria culturale italiana in formato esportazione, che pure è sempre stata nostra vocazione storica. Ma proprio nel medesimo periodo il jazz italiano si guadagnava un'inedita altissima reputazione internazionale, senza che alcuna istituzione si preoccupasse di rafforzare e sviluppare questo fenomeno, trascurando non solo le implicazioni culturali ed economiche, ma anche il suo non indifferente impatto sociale: le "professioni del jazz", infatti, riguardano ormai parecchie migliaia di individui.

Ora io ricordo che nel XX Secolo si diceva che l'atteggiamento delle istituzioni era rimasto fermo all'Ottocento. E tira via. Adesso però siamo nel XXI, non sarebbe l'ora di aggiornare? Nei quarant'anni in cui mi sono occupato professionalmente di jazz, quando mi interrogavo sugli incomprensibili squilibri del nostro sistema musicale, la risposta era sempre la stessa: "Quella della lirica è una lobby molto potente". Bene, vi do una notizia: è nata anche la lobby del jazz, ed è un lotto di produttori e consumatori di notevole peso. E comprende, per così dire, il punto di vista del "contribuente di base", che vuole sapere chiaramente per cosa e perché deve pagare, vuole mettere bocca su come si investe. Quali che siano le risposte che le istituzioni e la politica vorranno dare a questo appello, un primo risultato è già stato raggiunto: la comunità del jazz (non mi viene parola migliore) si è riconosciuta come tale. Questo fatto in sé mi pare un esito molto interessante.

Io sono un musicista, e suono jazz/musica d'arte. Ricordatemi per favore, quand'è che l'economia era favorevole? Io non mi preoccupo della recessione. Io già non c'avevo un quattrino durante la prosperità!

La petizione: Firma anche tu l'appello per il Jazz







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Data pubblicazione: 03/04/2013

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