Ryan O'Neal in "Barry Lyndon" (1975) - regia Stanley Kybrick
Il jazz frontiera - orizzonte
luglio 2014
di Filippo Bianchi
"Life is not about finding our limitations,
it's about finding our infinity". Herbie
Hancock
Frontiera: già l'etimologia ci ricorda le origini militari del
termine, il "fronte d'armata". La frontiera segna il territorio. Definisce l'appartenenza,
a un paese, a una cultura, a una lingua. Rappresenta il "noi" rispetto agli "altri".
Semplificare il rituale di passaggio alla frontiera, sopprimere i segni convenzionali
che la delimitano (confini, barriere, segnali, boe), superare l'ostacolo naturale
(tunnel nella montagna, ponte sul fiume) significa distruggere la pelle della frontiera.
Il derma, invisibile, persiste.
I generi musicali, le forme artistiche in generale, sono spesso
definiti dalle frontiere, cioè per esclusione. Molti si chiedono quali siano le,
sempre più ampie, frontiere del jazz oggi. Io mi sono sempre chiesto se il jazz
non sia, piuttosto che una frontiera, un orizzonte: non qualcosa che chiude, ma
qualcosa che apre...
"Generato da molteplice seme", fin dalla nascita il jazz
ha accolto in séS le culture e le etnie più disparate. Dopo un secolo di storia,
possiamo dire che nessuna forma o funzione gli sia rimasta estranea: l'arte e l'intrattenimento,
la canzoncina e l'atonalità, la danza e la pittura, il cinema e la letteratura,
il misticismo e la protesta sociale.
Alcuni si lamentano del fatto che nei cartelloni dei grandi festival
jazz compaiano, ormai da molti anni, "presenze anomale", segnatamente le
grandi star della musica pop. Se lo scandalo avviene sul piano culturale, però,
la questione è mal posta, proprio per via della natura "accogliente" e non discriminatoria
del jazz. I confini fra jazz e musica popolare sono stati spesso labili, sia nell'attualità
che nella storia: fossero vivi (magari…), non direi che ci sarebbe da scandalizzarsi
se nei programmi dei festival comparissero Frank Sinatra
o Mel Tormé, che al loro tempo erano da considerarsi pop star, oltre che
grandi jazzisti.
Meglio sarebbe trasferire lo scandalo sul piano del mercato,
tenendo bene a mente però che non si tratta di un mercato normale, dove il profitto
è unica e legittima regola, ma di un mercato assistito da denaro pubblico, che quindi
deve avere ricadute pubbliche, segnatamente la promozione culturale. E invece da
troppo tempo i profitti privati crescono e le ricadute pubbliche scemano. La giustificazione,
di solito, è che in un quadro di diminuiti investimenti pubblici, quale si registra
da almeno un decennio, occorre compensare con maggiori entrate di botteghino. Sarà
anche vero, ma è altrettanto vero che fra promozione culturale e incassi occorre
mantenere un bilanciamento, che spesso si perde. E bisogna ammettere che le motivazioni
di queste scelte sono sempre più legate al desiderio degli amministratori locali
di avere quella visibilità garantita dal grande successo delle iniziative. Ora non
è che bisogna promuovere una politica di platee vuote, che non piacciono a nessuno.
Ma ci sono casi in cui, nell'ambito di festival jazz, addirittura si organizzano
concertoni di pop star per migliaia di persone gratuiti!! E qui la pur fragile giustificazione
economica ovviamente si perde e siamo in pieno panem et circenses: resta
il desiderio del sindaco o dell'assessore di turno di incrementare la propria popolarità
per essere rieletti; gli assessorati alla cultura con una spericolata mutazione
genetica si trasformano in assessorati al consenso! Sarebbe bene che le loro campagne
elettorali fossero fatte a spese dei propri sostenitori, non della totalità dei
contribuenti, sennò trattasi di "arruolamento forzato", una pratica che si sperava
estinta dai tempi di Federico II...
Purtroppo ormai siamo talmente abituati a veder spendere impropriamente il denaro
pubblico, da aver dimenticato perfino quali debbano essere le sue effettive destinazioni
di interesse generale (che includono la promozione culturale, non la propaganda
politica). Se si torna a quelle, poi diventa tutto più facile e comprensibile.