Cronaca di un intrattenimento
Berlin, 24 Novembre 2006; Universität der Künste Konzertsaal.
di Christof Pustol per MMS
Traduzione di Luca De Mattei
info@mamus.it
Nella austera sala della UdK è affluito un pubblico pagante di circa 950
persone. La musica è iniziata intorno alle 20:30 ed è andata avanti per più di due
ore senza alcuna interruzione.
Herbie
viene fuori vestito completamente di nero. Una t-shirt nera e una medaglietta in
stile US Army attaccata al collo. Inizia quindi a intrattenersi, scherzando
con il pubblico. Dice che poteva anche disfarsi del suo telefono portatile, perché
non ha bisogno di chiamare il dottore. Il gruppo che porta in scena è formato da
Lionel Loueke alla chitarra, Nathan East al basso e Vinnie Colaiuta
alla batteria. Il primo brano è lento e sognante. Herbie stesso lo descrive poi
come "misterioso"; dice anche che quella era la prima volta che lo suonavano in
quel modo(!). Segue quindi Actual Proof, molto
più vivace, che egli stesso registrò molti anni fa con il gruppo degli Headhunters.
Dice che lo suona così spesso che oramai è diventato parte della sua pelle. Loueke
ha usato una chitarra sintetizzata con un suono molto simile ad una tastiera.
Vinnie Colaiuta poi, si è veramente scaldato, su questo brano. E le sue esperienze
con Frank Zappa probabilmente vengono fuori. Quindi il gruppo ci propone
Watermelon Man. Il solo di Herbie è veramente
brillante sulla tastiera a tracolla Roland. Nathan East continuava a sorridere,
ed Hancock probabilmente si divertiva sempre di più. Forse ecco perchè hanno
messo il bassista proprio di fronte al pubblico; anche qui le esperienze vengono
fuori. Con Eric Clapton, Michael Jackson e
Wayne Shorter. Quindi Hancock ci parla del suo ultimo album
Possibilities con Santana,
Christina Aguilera e molti altri. Dice che hanno avuto bisogno di un anno
e mezzo per farlo, troppi avvocati e management da mettere d'accordo...
Il chitarrista Lionel Loueke è originario dell'Africa; ed è anche
un interessante compositore; avendo vissuto a Parigi, Los Angeles e quindi New York
ha potuto sviluppare un suono internazionale, e probabilmente può suonare qualsiasi
cosa. Quindi i quattro hanno suonato Stitched Up
dall'album Possibilities con Nathan East interprete vocale, oltre
che bassista. La sua voce viene fuori al tempo stesso dolce e robusta. E quando
serve, anche molto acuta. Io credo che lui fosse la vera star del concerto.
Segue un brano di Loueke in sola chitarra, usando una tecnica arricchita
da elementi percussivi, e dalla voce, con fonemi e testi anche in lingua del Benin,
il suo stato africano di provenienza. Ha fatto uso anche di vari pedali e percussioni
vocali a colpi di lingua. Un poco stucchevole e "minacciosa", quest'ultima
parte, per la verità.
Quindi Hancock torna al piano con un pezzo molto morbido e profondo
nell'ispirazione, il suo tocco è veramente notevole. Quindi suonano
I just called to say I love you di Stevie Wonder.
Le tastiere di Herbie ne ricordano vagamente il suono, ma con maggiore improvvisazione.
When Love Cames to Town quindi sembra vagamente
rock & roll con Nathan East che come al solito canta e dà energia
al pubblico. Non poteva mancare al termine Cantaloupe Island.
Herbie suona la tastiera a tracolla, scambiando e alternando frasi di improvvisazione
con il basso prima e la chitarra dopo, e spesso imitando le rispettive frasi. Concludendo
devo dire di aver assistito a due ore di intrattenimento, molto brillante, di quattro
musicisti con grande talento, e direi molti anni di esperienza. Il pubblico ha apprezzato.
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Riflessioni su un concerto berlinese di
Herbie Hancock
di Giacomo Aula per MMS
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Curioso, molto curioso, come oggi la musica d'arte si faccia strada nel
difficile e competitivo mondo della musica di consumo, costretta a sua volta tra
altri settori mastodontici come il cinema o lo sport-spettacolo, e in generale nel
mondo dell'intrattenimento e della cultura in senso lato. Curioso dicevo, perché
normalmente le piccole produzioni del jazz, o della musica classica (leggermente
meno piccole) o del teatro musicale, faticano e arrancano per rimanere esse stesse
in vita. Gli artifici per farlo sono invero molteplici: dalle produzioni miste con
altre aree, alla caccia senza freno a sponsor privati o a finanziamenti pubblici
e così via. In effetti se tutti noi avessimo un poco di curiosità in più, molte
produzioni e spettacoli di grandi qualità e contenuti solidi, non faticherebbero
molto ad essere floridi. Ci vuole curiosità e passione, per apprezzare certe cose:
non sono immediate, non possono esserlo.
Ma
venendo ad uno dei pilastri della storia della musica afroamericana,
Herbie Hancock, come fa ad essere sempre in cima? Semplice: autenticità
di ispirazione e dei contenuti, ma al tempo stesso ibridazione e diversificazione.
Hancock, vogliamo ricordarlo, è una delle figure più propriamente
dentro la tradizione del pianismo jazz. Nato a Chicago nell'Aprile del '40, a pochi
anni già suonava il Concerto in re di Mozart o il secondo Brandeburghese di Bach.
Esordì discograficamente a proprio nome con l'album Takin' Off nel
'62, ma intanto aveva già collaborato con Coleman
Hawkins,
Phil Woods e Oliver Nelson, e pure conseguito una Laurea
in Ingegneria alla Grinnel University di Des Moines, Iowa. In seguito fa parte dei
gruppi di Miles Davis, e lavora con con George Coleman,
Wayne Shorter e Bob Brookmeyer. Negli anni
'70, nuova pelle, nuova mutazione, ecco il suo
jazz elettrico, abbastanza legato al funk e in qualche modo al rock: compaiono gli
Headhunters, gruppo molto popolare con Bennie Maupin ai sassofoni,
già presente nell'ultimo organico acustico di fine anni '60, con Billy Hart
alla batteria,
Buster Williams al contrabbasso e Eddie Henderson alla
tromba. Nel frattempo il nostro si dedica anche al cinema: scrive le musiche di
sei o sette film tra cui Blow Up di Michelangelo Antonioni del
'67 e
Round
Midnight di Bertrand Tavernier che gli porta anche l'Oscar nell'87.
Ma naturalmente la parte più entusiasmante è quella musicale e pianistica in senso
stretto: varrebbe la pena affrontarla in modo dettagliato in un prossimo articolo,
squisitamente tecnico-musicale. Speriamo di poterlo fare presto. Come vi dicevo
invece, e già da questi cenni biografici se ne trova riscontro, Herbie ha saputo,
nel corso di questa già lunghissima carriera, essere coerente con se stesso e la
sua poetica, ma intanto avere un pubblico via via crescente, in numero come per
varietà di gusti.
Il concerto di Berlino, e ancora di più il disco in uscita ora,
Possibilities, ne sono la prova
lampante. Nel disco
Hancock ha avuto la forza (e il coraggio artistico) di mettere
insieme, in brani e organici differenti, John Mayer e Paul Simon,
o Sting con Annie Lennox e Santana, o addirittura Christina
Aguilera... Non sembra esserci bisogno di spiegare quanto ibridata possa essere
la sua musica. Ma, e qui è la mossa sorprendente, si presenta a Berlino con un gruppo
che porta dal vivo questo disco e troviamo, con grande compattezza e credibilità,
i momenti storici di Cantaloupe Island o
Watermelom Man. Purtroppo anche i melliflui vocalizzi
di Nathan East che accompagnandosi al basso rapisce l'uditorio cantando
Stitched Up. Bravo, bravissimo, una voce così
solida, e morbida, dal timbro personale e capace di una notevole estensione di registro.
Momento di grande, grandissima vetta artistica invece, quando poi, dopo l'estroso
pezzo in solo di Loueke alla chitarra, un po' per gusto del confronto, un
po' come liberato dal peso dello show confezionato,
Hancock, il pianista
Herbie Hancock, suona lui stesso un brano in solo pianoforte,
totalmente improvvisato, densissimo di riferimenti tardo-romantici, carico di pathos
e contenuti interiori e introspettivi; mi è sembrato di trovarci anche un paio di
accenni ironici a come il pianismo pseudojazzistico si muova oggi. Le dita fluiscono
in modo impercettibile e aereo, giocoso e rigoroso al tempo stesso. Questa è magia
pura: questa, amici miei, è Musica Musica. Quindi in conclusione: contraddizione
o continuità e coerenza? Sembra un assurdo, ma credo che la risposta sia entrambi.
Contemporaneamente. Il vero problema, cari lettori, sta in noi che ascoltiamo, compriamo
i dischi o andiamo ai concerti. Il problema sta nelle nostre aspettative: nella
nostra incapacità di incuriosirci in qualcosa di nuovo e fresco, che non abbiamo
già visto passare decine di volte da qualche parte. Se
Herbie Hancock costruisse un concerto di sola Musica Musica, non
potrebbe avere oggi novecentocinquanta persone paganti e riempire quasi la Konzertsaal
UdK di Berlino. Si troverebbe in un piccolo jazzclub con sessanta appassionati,
incantati per due ore dal suo pianoforte e dal suo quartetto acustico. Ma allora
molti di noi non andrebbero ad ascoltarlo, perché «...è jazz, non lo conosco,
non sono preparato.» Il buon Herbie, l'ingegner
Hancock, questi meccanismi li ha colti da almeno cinquanta anni,
ed è riuscito in questo cammino entusiasmante ad accontentare gli uni e gli altri.
Non è da tutti. Cento, mille, diecimila di questi giorni Herbie.
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27/08/2011 | Umbria Jazz 2011: "I jazzisti italiani hanno reso omaggio alla celebrazione dei 150 anni dall'Unità di Italia eseguendo e reinterpretando l'Inno di Mameli che a seconda dei musicisti è stato reso malinconico e intenso, inconsueto, giocoso, dissacrante, swingante con armonizzazione libera, in "crescendo" drammatico, in forma iniziale d'intensa "ballad", in fascinosa progressione dinamica da "sospesa" a frenetica e swingante, jazzistico allo stato puro, destrutturato...Speriamo che questi "Inni nazionali in Jazz" siano pubblicati e non rimangano celati perchè vale davvero la pena ascoltarli e riascoltarli." (di Daniela Floris, foto di Daniela Crevena) |
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Data pubblicazione: 14/01/2007
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