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Introduzione: Al fuoco della politica
di Franco Bergoglio

In molti testi letterari il jazz è un argomento collaterale, a margine di un discorso diverso e serve unicamente a dare un "colore" o a trasmettere l'idea di un certo "clima" sociale o culturale [1].

Non sempre si tratta di "usi" negativi: pensiamo all'atmosfera che Woody Allen ricrea nei suoi film migliori, la critica alla middle class americana, nella sua variante ebraico-newyorkese, intellettuale e nevrotica. Una scena impensabile senza il suo sottofondo di swing o di melodie in stile Chicago.

Senza contare gli economisti o i sociologi che si servono del jazz per descrivere i comportamenti del mercato o le dinamiche organizzative di gruppo [2].

1. La musica del secolo breve
L
e storie del jazz non si contano, come sono molto numerosi romanzi e racconti che si occupano a vario titolo di jazz. In molti di questi lavori è presente una messe di argomenti, dati, fatti, che opportunamente legata potrebbe costruire una affascinante avventura intellettuale: ricostruire una piena identità al jazz partendo dai suoi rapporti con il contesto economico, sociale e politico. Questa operazione non è una novità in assoluto: è già stata tentata ed ha anche avuto ottimi interpreti: LeRoi Jones in America, il duo francese Carles e Comolli e uno storico di primissimo piano come l'inglese Hobsbawm, colui che ha definito per sempre il Novecento chiamandolo il secolo breve
[3]. Ha scritto un libro sul jazz e per dieci anni tenuto una rubrica nel The New Statesman, con il nom de plume di Francis Newton, in onore di Frankie Newton (Emory, VA, 4 gen 1906 - New York, 11 mar 1954), dimenticato trombettista e comunista degli anni Trenta. Forse potremmo addirittura definire il jazz la musica par excellance del secolo breve, dal momento che il jazz ne segue fedelmente la periodizzazione. Come il Novecento nasce ufficialmente nel 1917, anno di svolta della prima guerra mondiale, della rivoluzione russa e della chiusura del quartiere a luci rosse di New Orleans. Come il secolo scorso si chiude un po' in anticipo, con il crollo del muro di Berlino ed una musica che sembra aver smesso le invenzioni per rifugiarsi negli stilemi elaborati nel suo periodo classico; senza per questo voler pregiudicare possibili futuri sviluppi.

Infine, per citare un lavoro italiano, si può segnalare di Walter Mauro Jazz e universo negro, che si poneva alla sua uscita, l'ambizioso obiettivo di analizzare i rapporti tra il jazz e l'ambito socio-culturale.

L'opera di questi studiosi è ormai datata: i loro libri sono stati dati alle stampe nel corso degli anni Sessanta e Settanta; risentono dunque del passare del tempo: a fianco di seminali intuizioni, vedono a volte la presenza di distorsioni interpretative, dettate magari dal fatto che l'obiettivo che si prefiggono di raggiungere è diverso da quello di dimostrare una dipendenza reciproca tra musica e politica, che invece costituisce la ragione d'essere di questo lavoro. La stessa mancanza di prospettiva storica, data dalla vicinanza degli avvenimenti studiati, ha impedito a questi autori di poter presentare una esaustiva disamina del nesso jazz-politica.

Se le storie del jazz sono tante, manca un approccio globale ed esclusivo, al rapporto tra questa musica e la politica.

La critica ha preferito seguire un criterio cronologico, analizzando i vari stili nella loro successione temporale, oppure facendo una storia per personaggi, attraverso gli "eroi" della musica[4].

L'approccio cronologico presenta indubbiamente dei vantaggi; non ultimo una leggibilità globale del fenomeno. Una rigida consequenzialità dei fatti però non consente quei salti indispensabili per non fare semplice cronaca, ma storia delle idee. Negli ultimi anni si è cercato un approccio finalmente scientifico al jazz: vengono prodotte opere specifiche e puntuali. Lavori di musicologia, di estetica, saggi sul rapporto tra il jazz e l'immaginario letterario o cinematografico e così via. Seguendo questo criterio che mette da parte l'analisi cronologica degli avvenimenti si operano raffronti trasversali nella storia del jazz. Il metodo storico non deve venire a mancare nei confronti di qualsivoglia fenomeno che si ritenga degno di analisi, ma neanche si deve cadere nella tentazione di fare della pura histoire événementielle o peggio, dell'aneddotica. Anche se un approccio meno "specialistico" può recuperare il senso "esistenziale" presente nel jazz [5]. Eppure su questo punto non c'è accordo tra gli studiosi: alcuni, come Luca Cerchiari [6], lamentano come si sia sempre fatta una storia di tipo sociale del jazz mentre non si è indagato abbastanza il dato tecnico, la specificità di questa arte; per altri invece - e sono i ricercatori più politicizzati - le indagini si sono sempre fermate al dato musicale, mentre il contesto economico o politico era solo un "contorno" usato per colorire le biografie dei singoli musicisti. In questo senso va intesa la rilettura "politica del jazz operata da Carles e Comolli nel 1971 [7]. Il tipo di storia che fanno i francesi si basa su di una visione critica della cultura bianca: "La critica occidentale ha fondato la storia del jazz sul modello idealista delle storie delle arti in Occidente: come una storia autonoma, semplice susseguirsi di fatti e di nomi, collocandosi ai margini della Storia, al sicuro. Era ben documentata sugli sviluppi, sulle evoluzioni degli stili, sulle scuole, ma come se si producessero gli uni dopo gli altri, per autogenerazione, indipendentemente dalle pressioni della società e della Storia" [8]. Ad una analisi più approfondita non può però sfuggire che la materia del contendere non è la storia, ma l'uso che se ne fa. Alcuni testi hanno risentito di un clima di polarizzazione ideologica ed è inevitabile che avessero un minimo di "colore" politico, magari non intenzionale. Altri parlano di jazz ignorando del tutto i suoi legami con il mondo reale. Accanto agli studi più strettamente musicologici, va inquadrata la filosofia che sta alla base del jazz è che è una esperienza esistenziale e culturale di grande fascino. Recentemente Geoff Dyer, romanziere e appassionato di jazz e fotografia, al termine del suo ciclo di racconti Natura morta con custodia di sax, ha inserito un bellissimo saggio sull'estetica del jazz, che per rigore argomentativo, capacità speculativa e inventiva non ha pari. Vediamo come esprime la sua idea sul rapporto jazz-storia, mediante un fatto storico che analizza traendone un insegnamento generale: "nel 1964 Martin Luther King andò a inaugurare personalmente il festival jazz di Berlino, volendo sottolineare con la sua presenza come la lotta dei neri per i diritti civili corresse parallela a quella dei musicisti jazz per il riconoscimento della loro arte in quanto tale. Nel suo discorso d'apertura King fece notare come la musica si fosse incaricata di articolare le sofferenze, le gioie e le speranze dei neri, molto prima che gli scrittori e i poeti ne avessero avvertito l'esigenza. Non soltanto il jazz era d'importanza centrale per l'esperienza vissuta dalla comunità nera, ma - come egli tenne a ribadire - nella lotta particolare dei negri d'America si poteva riscontrare una grande affinità con la lotta universale dell'uomo moderno. Ecco il nesso cruciale: una volta accettatolo, il jazz ci apparirà come uno strumento rappresentativo non di un popolo, bensì, implicitamente, di un secolo; uno strumento per dar voce non alla condizione del nero d'America, bensì a una condizione della storia."



Attraverso le parole di Martin Luther King, Dyer spiega il valore storico che assume il jazz nella storia universale, non soltanto in quella dei neri o degli appassionati. Uno di questi significati generali è il rapporto jazz-lotta per i diritti civili, che è anche protesta del jazz contro la società. Gli anni Sessanta sono il momento di più forte collegamento tra jazz e politica, ma una analisi sullo scambio tra il contesto sciale e artistico ha una sua validità in tempi e luoghi differenti. Le parole di King, come quelle degli studiosi che accettano con facilità l'assioma free jazz-politica, vanno vagliate con cura. Un atteggiamento troppo deterministico nel giudicare i nessi è dannoso, tanto quanto il contrario vale a dire il negare un valore semantico ed extramusicale alla musica; come ha fatto molta musicologia. Il presupposto di cui si deve tenere conto è la multicausalità degli eventi. Non si può pensare che sia possibile individuare una unica spiegazione per un singolo fatto, rammentando sempre che l'oggetto dell'indagine ha a che fare con un fenomeno artistico e l'intervento di soggettività diverse. La storia è sempre un concorso di cause, e a volte, come mostra bene Dyer nel suo saggio, anche di suggestioni estranee all'oggetto della ricerca. Il jazz è una forma culturale "alta" perché alto è il valore dei suoi contenuti, la poesia prodotta in cento anni di storia; esso richiede una analisi ugualmente alta, traboccante di correlazioni storiche e culturali che aspettano solo di essere sviluppate. Memori della lezione di H. Carr, secondo cui "la storia si nutre di generalizzazioni" [9], non si può negare che in questo lavoro di generalizzazioni se ne possono trovare molte. Naturalmente le generalizzazioni vanno "fecondate" da una analisi dialettica, capace di liberare le relazioni possibili dal ristretto ambito della storia di genere - la storia del jazz, in questo caso - in cui spesso sono relegate. Ogni capitolo avanza una sua "tesi forte" che è un corollario dell'assunto finale sull'esistenza di un preciso e dimostrabile rapporto tra la musica e la politica. Un soggettivo sguardo sul jazz e sulla politica e insieme il distacco e l'acribia dello studioso nel valutare le fonti e l'entusiasmo dell'appassionato. "Per comprendere una storia noi dobbiamo non solo comprendere che cosa essa dica in ciò, ma anche perché ciò è detto" [10]. Secondo il filosofo Maurice Mandelbaum la conoscenza storica è viziata da una "fallacia genetica", come pensano i "relativisti scettici" che sostengono tale principio, ma non per questo l'operato dello storico coscienzioso perde di validità se sono scrupolosamente documentate le affermazioni portate avanti nel suo lavoro. Come si potrebbe capire il free jazz e il suo urlo di dolore e protesta senza una analisi adeguata del momento storico attraversato dalla comunità afroamericana negli anni Sessanta? Con la fine degli anni Settanta si è verificato un calo di interesse per la politica; passato il decennio della "contestazione globale" del sistema, il free, la musica libera che della protesta si era fatta promotrice, muore; e il jazz torna ad essere arte "pura", non compromessa con il mondo circostante. Ricompare l'abituale visione idealistica di stampo occidentale, tanto criticata dal Free, per cui conta solo l'opera e non il contesto in cui essa è stata prodotta. Eppure uno sguardo "politico" è necessario e possibile, in una maniera differente rispetto al passato.

Tentare una valutazione globale dell'influenza della politica nei suoi multiformi aspetti sul jazz. Un'analisi di carattere storico che recuperi un versante della storia di questa musica in funzione di un rapporto-confronto con la politica che sempre c'è stato, e continua tuttora anche se il disimpegno dei musicisti e della critica sembra non volerlo considerare. Bisogna precisare che il termine politica è usato nella maniera più estensiva: definire è stabilire una gerarchia di valori, operare una scelta. Ha scritto Alessandro Passerin D'Entrèves che "attribuire a determinati fenomeni il carattere politico non è infatti altro che dare ad essi una rilevanza rispetto ad altri fenomeni, rilevanza che è di per sé stessa una connotazione di valore" [11]. Ecco allora il significato di una ricerca sulle fonti del periodo: articoli di riviste specializzate, dischi, testimonianze dirette di musicisti che hanno vissuto il momento storico. Si tratta di una operazione duplice: da un lato si tratta di analizzare fonti secondarie o indirette, (quelle prodotte in un'epoca successiva al periodo, come le cronache) secondo un'ottica politica ricavandone tutte le possibili suggestioni interpretative. Questo è il lavoro svolto per il jazz delle origini, per lo swing, per il Be Bop. Essendo fenomeni ormai consegnati definitivamente alla storia, l'unico modo di trattare l'insieme delle fonti prese in considerazione è stato di reinterpretarle secondo un punto di vista originale, non limitandosi alle testimonianze canoniche, che possono essere solo le già menzionate storie del jazz o gli articoli della critica, bensì allargando il campo agli studi sociologici, alle suggestioni della politica a riferimenti storici paralleli all'evoluzione musicale, alle influenze su altre forme artistiche: romanzo, poesia, cinema, pittura. L'altro tipo di lavoro è quello effettuato per gli anni Sessanta e Settanta: qui le fonti sono più numerose, gli studi si fanno più approfonditi, i dati analizzabili sono in maggior quantità e permettono una messa a fuoco più precisa. Con un limite però, che è quello già enunciato in precedenza: con la fine della contestazione studentesca e operaia, la politica rientra nel suo alveo istituzionale, dopo essere stata per almeno un decennio come un fiume in piena che tutto tocca e contamina. Muore la politica protestataria e antagonista e muore la musica "libera", senza quasi lasciare tracce di sorta. Questo provoca una inevitabile perdita di memoria storica: i dati, vicini nel tempo, non sono di difficile reperimento, inoltre sono confrontabili con testimonianze di protagonisti del periodo raccolte direttamente, con il vantaggio di poter confrontare le tracce lasciate (recensioni su dischi e concerti, interviste, e naturalmente la stessa musica) e analizzarle, avendo l'osservatorio privilegiato di una prospettiva storica e la possibilità di non fraintendere il ruolo della politica nella musica jazz degli anni Sessanta.

1.1 L'approccio storico-politico.
A
gli albori dello scorso secolo e del jazz, nel 1910 precisamente, lo storico delle idee Carl L. Becker (7 set 1873 - 10 apr 1945) formulò questo affascinante paradosso:

"i fatti storici non esistono finchè lo storico non li crea".

Ci sono venti anni (i Sessanta e i Settanta) che non hanno lasciato traccia e vanno dunque "ricreati" per quanto è successo in seguito nella storia del jazz e analizzati alla luce del completo abbandono della tematica jazz-politica. La morte del free jazz, cioè di una musica d'avanguardia strettamente legata ad un periodo storico, mostra quanto sia forte l'interdipendenza tra contesto sociale e musicista impegnato. Guardare il passato alla luce dei problemi del presente, come diceva Croce nel noto aforisma "ogni storia è storia contemporanea" [12], ma anche affrontare alla luce del presente temi del passato che sono "svaniti" senza apparentemente lasciare tracce. Per questo assume una importanza decisiva lo studio della storia del jazz italiano: al di là della maggiore facilità (relativa) di reperimento dei dati risalendo alle fonti originali del periodo e alla viva voce dei protagonisti, è necessario indagare a fondo il rapporto tra musica e politica in un paese in cui il sessantotto è stato un momento che ha dispiegato la sua influenza per almeno un decennio e in cui il rapporto tra musica e politica ha espresso dei risultati tangibili e spettacolari: pensiamo solo ai concerti jazz alla statale di Milano occupata dagli studenti, riportati nelle cronache dei quotidiani nazionali, delle riviste specializzate e dei fogli ciclostilati del movimento studentesco. Negli anni Sessanta la politica scatenava fortissime passioni tra i giovani e da sempre gli stessi sentimenti legano alla musica. La musica di protesta, parallelamente e a volte assieme al Movimento Studentesco, ha svolto in Italia un ruolo ben definito che ha lasciato numerose testimonianze. Il saggio a più mani La musica in Italia pubblicato dall'editore Savelli, che affronta molti temi legati alla musica da un punto di vista squisitamente politico contiene un capitolo di Gino Castaldo sul jazz. La rivista Musica jazz ha visto un dibattito sul rapporto tra musica e politica dalla durata decennale e che ha costretto il direttore Arrigo Polillo a chiudere la rubrica delle "lettere al direttore" sulle cui pagine si era svolto questo lungo contraddittorio tra lettori, musicisti, critici. Le lettere al direttore erano, e come tali vanno considerate, un documento prezioso dell'interesse bruciante che suscitava la politica in quegli anni. Il loro valore storico, assieme ai concerti nelle fabbriche o negli ospedali psichiatrici di Giorgio Gaslini, agli happenings del circolo Ottobre Rosso a Pisa, ai dischi di Liguori dedicati al golpe in Cile, non può andare perso perché si smarrirebbe definitivamente il sapore di un'epoca.


[1] Il jazz "in sottofondo", usato per spiegare un ambiente. L'esempio più famoso è fornito da Francis Scott Fitzgerald con i racconti de L'età del jazz. Vedere Franco Minganti, X roads, op. cit pp 13-16.

[2] Un unico esempio illuminante: Marco Revelli, Oltre il Novecento, Torino, Einaudi, 2001, p.180.

[3] Eric J. Hobsbawm, storico centrale nel xx secolo, sarà oggetto di ulteriori analisi. Il jazz attraversa la sua intera opera per comparire frequentemente anche nel suo volume più celebre dedicato appunto al secolo breve. Per l'aneddoto sullo pseudonimo: The life of the party, Terry Eagleton, The Nation, 15 september, 2003.

[4] Questo tipo di approccio alle vicende artistiche ha radici profonde: si pensi alla teoria kantiana del genio sviluppata dall'estetica romantica. Mario Rossi: Cultura e rivoluzione, Roma: Editori Riuniti, 1974, pp.552-556. Anche lo storico Thomas Carlyle si basa su di un soggettivismo totale e costruisce una storia fatta di singoli, "gli eroi", che emergono da una "massa oscura" e si perdono i dati sociali ed economici che caratterizzano l'ambiente. Questo orientamento, dal sapore romantico e romanzato, svela il contributo del singolo ma non pone in luce il contesto. Tornando al jazz si rischia di credere che cambiamenti radicali come il free o il be bop siano dovuti al solo volontarismo artistico di Parker o Coltrane. La storia del jazz è spesso fatta di "eroi", "miti", "leggende", in questo rivela la sua natura idealistica; la cultura afroamericana invece, non è solo debitrice del modello all'europea di artista solitario e maledetto, ma ha in sé delle reminiscenze africane per le quali conta anche l'elaborazione collettiva nella creazione. Giampero Cane in: Canto Nero, op. cit, p.9. "Scrivendo del Free jazz si dovrebbe in definitiva poterlo fare senza nominare mai i musicisti coinvolti se è vero che esso è frutto di un pensiero collettivo, dato che questo no esiste mai come pensiero, ma si rivela nelle cose, nelle macchine nei segni.(...) Di contro la natura economica da cui è coinvolto e il carattere occidentale, anche se antagonistico, che lo permea lo caratterizzano anche come individuale, agito dal pensiero, o capace di promuovere la riflessione, quale poetica e quale spiegazione critica".

[5] Uno studio interessante sull'importanza dell'individuo nell'universo della musica classica, il suo rapporto con la collettività e il suo rapporto con la società è in: "Privato o collettivo", di Frederic Rzewski, in Musica e politica, Venezia: Marsilio, 1977,pp. 531-532. In Capitalismo e genio artistico si afferma: "Con l'ascesa del sistema capitalistico e della sua ideologia, diventò opportuno sottolineare l'importanza del genio individuale nella produzione del valore, nell'universo economico dei beni materiali e nella sua controparte spirituale, il mondo della cultura e dell'arte.(...) Proprio come l'ambizione personale del capitalista di possedere e dominare diventò una virtù, un segno di grazia che lo separava dagli altri in un processo di auto affermazione, così, come riflesso di questo processo il genio individuale dell'artista si ingigantì fino a diventare la fonte misteriosa di ogni creatività, di ogni nobile prodotto dell'immaginazione umana". La correlazione tra genio individualistico e la società di tipo capitalistico, che sarebbe piaciuta a Max Weber, è simile a quella riecheggiata nell'opera di Philippe CARLES, Jean-Louis COMOLLI, Free jazz black power, a cura di G. Merighi, Torino: Einaudi, 1973.

[6]Luca Cerchiari, "Il jazz. Una civiltà afroamericana ed europea", Milano: Bompiani, 1997. "l'esclusività -o quasi- con cui la trattatistica ha sinora privilegiato la Storia del jazz ha avuto come paradossale conseguenza una sorta di separazione dell'oggetto dall'àmbito istituzionale della musicologia".

[7] La prima parte del loro lavoro si intitola: Non un problema nero: bensì un problema bianco. Il "problema" è della critica occidentale che si è impossessata pressoché totalmente del discorso storico ed estetico sulla musica nera. "Il nostro lavoro, dopo quello di LeRoi Jones, mentre è rivolto a demolire la storia e l'estetica bianche della musica nera, entra in polemica con l'ideologia dominante della società e con il sistema culturale della civiltà nella quale viviamo".(p.8) Questa è la chiave di lettura che gli autori danno del loro lavoro in introduzione. Sulla necessità di una rilettura storica diversa da quella abitualmente praticata dagli studiosi sono illuminanti alcuni passaggi del capitolo: Il cieco errore della critica (titolo già fortemente esplicativo). "La critica si è appellata a tutte le spiegazioni: a quelle sociologiche, psicologiche, giuridiche, religiose, psicanalitiche fatta eccezione per quelle economiche e politiche, e questa incompleta analisi non poteva non avere come conseguenza, e anche come scopo, quella di impedire di scorgere nel problema nero, un problema bianco, il capitalismo".(Carles e Comolli, op. cit.p.70).

[8] Carles e Comolli, p.71.

[9] Edward H. Carr, Sei lezioni sulla storia, introduzione di R. W. Davies, Torino: Einaudi, 1966.

[10] M.Mandelbaum, The problem of historical knowledge. An answer to relativism, New York: Harper and Row, 1976, pp. 19-20, cit. in Angelo D'Orsi, Alla ricerca della storia, Torino: Scriptorium-Paravia, 1996, p.72.

[11] N.Bobbio, N. Matteucci, Dizionario di Politica, definizione di "Filosofia della politica" di Passerin D'Entrèves, Torino: UTET, 1976.

[12] Benedetto Croce, "La storia come pensiero e come azione", Bari: Laterza, 1938, p.5.







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Data pubblicazione: 11/04/2006

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