Jazz e Politica:
La buona società. Il jazz e i pregiudizi degli inizi
di Franco Bergoglio
In Forty years jazz has travelled from the Red Light district
to the concert hall
[1].
Morroe Berger
Le Origini
Il 1917 è considerato
dagli studiosi, l'anno di nascita del jazz: questo in ragione di due avvenimenti
che vi avvengono e segnano l'inizio della vicenda ormai centenaria di questa musica.
Si parla di nascita "ufficiale", perché il jazz, come ogni autentica musica popolare,
non ha un "primo" creatore: il passaggio dall'elaborazione collettiva all'affermazione
delle prime individualità di spicco non è immediato, quindi non si può stabilire
con certezza una "data": i primi passi di questa musica risalgono alla fine dell'Ottocento,
quando non esistevano ancora i mezzi tecnici per poter documentarne i primi esperimenti
e non era ancora nata la ricerca etnomusicologica, che avrebbe in seguito permesso,
grazie alla prassi della registrazione, di salvare dall'oblio moltissimo materiale
musicale di origine popolare, tra cui il blues rurale.
Nel
1917 l'Original Dixieland
Jazz Band incise il disco in cui per la prima volta comparve la parola "jazz":
vocabolo dall'etimo incerto, che evocherebbe l'atto sessuale e parla immediatamente
dei bordelli in cui il jazz è cresciuto
[2].
Il termine jazz venne in ogni caso utilizzato per indicare una forma musicale nuova,
che fu accolta con entusiasmo dal ricettivo mondo dello spettacolo americano e ottenne
subito un notevole successo di pubblico, specialmente tra i giovani bianchi. Sembra
un controsenso che il primo disco di jazz sia opera di musicisti bianchi e che bianchi
siano stati i musicisti ad avere maggior successo negli anni Venti. Questo fatto
è però facilmente comprensibile se si pensa che comunque i dischi della ODJB sono
più commerciali delle musiche di King Oliver (New Orleans,
11 maggio 1885, 10 aprile 1938) o Freddy "King" Keppard
(1889 - 1933), i loro modelli,
imitati - e superati - anche dai musicisti di colore più giovani come
Louis Armstrong.
Per la prima volta, il termine "jazz", identifica un genere musicale e lo si deve
all'opera di un gruppo composto da soli bianchi e tra essi, due italo-americani:
Tony Sbarbaro (27 giu 1897,
New Orleans - 3 ott 1963, Forest Hill, New York) e
Nick La Rocca.
Nello stesso anno ecco l'altro avvenimento decisivo: la Marina Militare fece chiudere
Storyville, il quartiere a "luci rosse" di New Orleans, considerato moralmente deleterio
per le truppe di stanza nel porto, in partenza per il fronte europeo. Lì suonavano
i primi grandi musicisti jazz, che trovatisi senza lavoro, dovettero prendere la
decisione di emigrare al Nord in cerca di nuovi ingaggi. Un avvenimento isolato:
tra il 1910 e il
1920 trecentocinquantamila
neri emigrarono in cerca di migliori condizioni di vita. Si riversarono nei grandi
centri urbani, dove speravano di trovare un lavoro, ma spesso finirono per trovarsi
a vivere in condizioni misere, all'interno dei ghetti che stavano sorgendo proprio
come risposta a questo massiccio fenomeno di emigrazione interna. E' all'interno
di tali comunità nere urbanizzate che il jazz si sviluppa; seguendo una direttrice
di espansione che va da Sud a Nord, da New Orleans a Chicago, per poi spostarsi
verso New York. Si tratta dunque di un fenomeno prettamente urbano, che interessa
inizialmente solo alcuni grandi centri. Ma il jazz perde fin dall'inizio il suo
carattere di musica per soli neri, è un "loro" prodotto ma viene suonato anche per
l'intrattenimento dei bianchi, che a Chicago o New York possono permettersi di frequentare
locali notturni. Anche le orchestre nere possono servire a tale scopo: Fletcher
Henderson (Cuthbert, GA, 18 dic 1897 - New York, 29 dic 1952)
suonava in un club per pubblico bianco, mentre King Oliver suonava un jazz
sanguigno e pregno di blues, per un pubblico di soli neri. Le orchestre più raffinate,
come quella dello stesso Henderson, di Benny Carter o di Duke Ellington,
erano espressione di neri appartenenti alla buona borghesia di colore; la musica
per loro poteva significare un lavoro talora redditizio ed una possibilità di riconoscimento
sociale.
Il jazz piacque perché s'inseriva
in quella "moda della danza" che aveva contagiato larghi strati di popolazione nell'età
vittoriana. C'era una costante ricerca di nuovi ritmi, che permettessero balli meno
convenzionali del vecchio valzer europeo e che fossero venati di esotismo. Per rispondere
a questa domanda nacquero forme di divertimento originali, autenticamente americane,
che espressero al meglio le esigenze delle nuove classi sociali in cerca di svaghi
poco "impegnativi". Si imposero in rapida successione il turkey-trot, il
fox-trot, lo shimmy. Dopo la prima guerra mondiale fu la moda del
charleston a caratterizzare il periodo di forte espansione economica conosciuto
negli Stati Uniti come "età del jazz". L'Europa non solo non esportò più i suoi
modelli culturali, ma, per quanto riguarda le forme di spettacolo diventò ricettacolo
delle più recenti tendenze che arrivavano dall'America, il continente nuovo, e in
particolare dagli USA: il paese del benessere e delle possibilità per tutti. Come
sintetizza Eric J. Hobsbawm
(1917): "La moda della danza
immise automaticamente l'idioma afro-americano nella musica leggera".[3]
Tanto grande fu il successo
che la Original Dixieland Jazz Band venne invitata a tenere concerti all'estero:
a Londra, già nel 1919.
La parola jazz venne adottata rapidamente per indicare la musica da ballo fortemente
ritmata, dal notevole impatto commerciale: un affare per i gestori di sale da ballo,
gli editori musicali, le prime case discografiche. Le nuove tecniche di riproduzione
sonora fecero della musica un bene di consumo su larga scala. Nel
1919 vennero costruiti
oltre due milioni di grammofoni e nel
1922 si vendettero più
di cento milioni di dischi.[4]
Abbiamo citato il fenomeno della emigrazione nera negli stati del Nord e della sua
conseguente urbanizzazione. A New Orleans, dove la mitologia colloca la nascita
di questa musica, negli anni compresi tra il
1910 e il
1920, viveva la più grossa
comunità nera dell'intero Sud degli Stati Uniti; questa popolazione, economicamente
depressa, richiedeva forme di divertimento e spettacoli sportivi o di varietà e
si divertiva anche ad ascoltare cantastorie itineranti che proponevano un repertorio
folcloristico del tutto particolare: il blues, base musicale di tutta la musica
afro-americana successiva. Il jazz nacque come espressione di classi umili, bisognose
di una espressione musicale semplice, capace di esprimere in modo diretto sensazioni
e sentimenti. Le sue origini, vanno ricercate per un verso nella storia del varietà,
contenitore di tutta una serie di "numeri" di arte varia che videro all'opera professionisti
o semi-professionisti assai diversi: mimi, maghi, ballerini, domatori, imitatori,
cantanti; e per un altro verso nel già menzionato blues. Questo è certamente la
forma di canto popolare più originale della comunità afroamericana, per la forza
espressiva del suo linguaggio. Sull'importanza del blues si è scritto molto; se
ne sono messi bene in evidenza i lasciti più strettamente musicali e artistici:
il rituale schema strofico, l'antifonalità, la struttura armonica relativamente
semplice e l'atmosfera particolare che riesce a creare. Il blues esprime l'aspetto
profano del conflitto razziale, la condizione esistenziale difficile negli stati
del Sud. All'amore verso Gesù espresso nei canti spirituali si sostituiscono storie
che raccontano amori molto più terreni e materiali, fatti di tradimenti, fughe,
gelosie, pesanti allusioni sessuali. Ma non è solo questo. Stando ad Alessandro
Roffeni: "Per poter esistere socialmente occorre, nello stesso tempo, esistere
culturalmente, ed una esistenza culturale che non abbia i connotati dell'autonomia
non è più tale; ed è appunto in queste espressioni creative che gli afroamericani
hanno saputo affermare la loro autonoma identità storica e culturale."
[5]
Il blues diventa l'unica forma artistica ad avere anche una sua "funzionalità" costruttiva
nello riuscire ad opporre resistenza al razzismo e al capitalismo, cioè a quei vincoli
sociali ed economici che permettono il perpetuarsi dello sfruttamento. A questo
aspetto è connesso il rifiuto del blues da parte della borghesia nera, che lo nega
come retaggio di un passato da cancellare, o peggio come sintomo di arretratezza
culturale e economica.[6]
Secondo lo studioso Jain
Lang tutto il jazz deriva dal blues, in ogni sua componente tecnica e culturale.
Le due forme più espressive della cultura afroamericana hanno poi preso strade diverse:
il blues rimanendo ancora per anni una musica da ghetto e diventando un fenomeno
commerciale di primo piano solo negli anni Sessanta; il jazz venendo immediatamente
adottato dal mondo dello spettacolo bianco e diffondendosi rapidamente in tutta
America ed in Europa. Naturalmente le influenze che portano alla nascita del jazz
sono più ampie e non si limitano al solo blues e al varietà, ma includono anche
i canti religiosi delle Chiese nere, la musica bandistica, il ragtime… L'attento
lavoro dei ricercatori e degli studiosi, negli anni, ha messo in luce tutti questi
aspetti e molti altri.[7]
Notiamo alcune linee evolutive che rimarranno costanti. Una prima è il contributo
che al jazz viene dato dai bianchi, un apporto che non si può disconoscere o sminuire,
come ha fatto in anni passati la critica più ferocemente "arrabbiata", nel tentativo
di rafforzare la "supremazia nera" sul genere. Esiste senza dubbio il problema del
saccheggio e dello svilimento della musica operato da numerosi musicisti e orchestre
bianche e un sentimento di "privazione" che prova il nero di fronte a questa condizione
di perenne inferiorità e di evidente discriminazione all'interno del mondo dello
spettacolo. Joachim E. Berendt riferisce l'opinione di un musicista anonimo:
"I nostri scrittori scrivono come i bianchi, i nostri pittori dipingono come
loro. Solamente i nostri musicisti non suonano come i bianchi. Così abbiamo creato
la nostra musica. Quando l'abbiamo avuta –si trattava allora del Jazz vecchi stile-
i bianchi sono venuti, l'hanno amata e l'hanno imitata. Rapidamente essa ha cessato
di essere la nostra musica…"
[8]
Commentando questo stesso passo, Philippe Carles e Jean-Louis Comolli
mettono in luce due aspetti conseguenti al "furto perpetrato dai bianchi"
ai danni del jazz: in primo luogo lo sfruttamento economico, costruito sulla base
di invenzioni e idee altrui, con le quali si possono costruire autentiche fortune
(vedi il caso di
Frank Sinatra).
In secondo luogo essi lamentano che "l'imitazione, la volgarizzazione" provocano
una deformazione e un filtraggio del patrimonio musicale, con nefaste conseguenze
sulla sua stessa natura ed originalità. Sono opinioni largamente condivisibili,
se vengono riferite al jazz prebellico, alle fortune commerciali legate allo Swing,
ma perdono valore in riferimento al be-bop. Certo, ci saranno sempre casi di commercializzazione
della musica, ma il jazz, diventato forma d'arte non è più un veicolo per la ricchezza:
ci sono il pop e il rock. Comunque c'è un aspetto che Carles
e Comolli non rilevano, a proposito del "problema bianco": non sempre
i bianchi hanno "usato" il jazz per "fare soldi"; spesso lo hanno genuinamente assunto
come modello espressivo. D'altronde, le ingiustizie e i torti patiti dalla comunità
afroamericana, l'oppressione, la miseria, la disuguaglianza economica e sociale,
l'infelicità della propria condizione esistenziale l'emarginazione, sono gli stessi
patiti dalle altre minoranze etniche. Ebrei, italiani, tedeschi, polacchi, russi
sono vissuti, negli Stati Uniti, in quartieri degradati, costretti a umili lavori
e vittime della discriminazione razziale. L'estrazione sociale dei primi musicisti
jazz è simile sia per i bianchi sia per i neri: le loro origini sono quasi sempre
umili e la musica rappresenta sovente l'unica via di fuga per migliorare la propria
condizione di vita. Emblematico è l'esempio citato dei due italo-americani della
Original Dixieland Jazz Band, che hanno collaborato all'incisione del primo
disco di jazz della storia.
I
primi musicisti di jazz bianchi sono nella stragrande maggioranza dei casi provenienti
dai paesi citati, cioè emigrati di serie B. Non è forse superfluo ricordare che
il giusto pedigree per avere successo in America è quello del WASP; (White anglosaxon
Protestant). Ci sono poi le altre due importanti condizioni del carattere etnico
e religioso a fare la differenza, oltre a quella razziale. Nel
1915, ad Atlanta, in Georgia,
viene ricostituito il Ku-Klux-Klan
[9]
ad opera del pastore metodista Colonnello W. J. Simmons. Il programma della
setta segreta, di carattere decisamente nazionalistico, annovera tra i suoi punti
l'opposizione all'immigrazione negli Usa di cattolici ed ebrei, allo scopo di salvaguardare
la "purezza" della razza americana, e diffonde l'odio razziale non solo nei riguardi
dei negri ma anche contro gli ebrei e i cattolici. Questi ultimi, ad esempio, venivano
incolpati di sostenere l'uguaglianza e la fraternità tra tutti gli uomini. Si potrebbe
pensare ad una limitata e circoscritta diffusione di simili idee, nella società
multietnica e multirazziale americana; però i dati smentiscono questa ipotesi: nel
1923 il clan
contava ben quattro milioni di aderenti, concentrati per la maggior parte negli
stati del Sud, con un più forte retaggio culturale schiavista. E' un vero e proprio
seguito di massa, che avrà un forte peso anche successivamente, giungendo fino agli
anni Sessanta, quando piccoli gruppi ne porteranno avanti la filosofia. Un altro
importante fattore che emerge in questo rapidissimo sguardo sulle origini del jazz
è il carattere itinerante dei suoi protagonisti.
Gli
Stati Uniti si sono forgiati sul mito della frontiera, che è contemporaneamente
un dato reale, inteso come scoperta e civilizzazione dell'occidente selvaggio, ma
anche un aspetto dell'immaginario pionieristico: la terra promessa come speranza
di una vita migliore e come utopia di un mondo diverso, in cui trionfano la giustizia
e l'uguaglianza. Da essi trae origine il grande mito americano del viaggio con tutti
i suoi protagonisti, e tra essi i poveri e gli emarginati; anche loro alla ricerca
di un futuro impossibile. Impossibile perché l'America di cui stiamo parlando è
una società dai violenti scontri di classe, tenuta unita dal potere unificante del
mito del successo. Gli uomini ai margini di questo sistema in continua e rapidissima
espansione sono gli "hoboes", i vagabondi. "Il soldato del reparto d'assalto
dell'espansione americana, l'uomo che portava il sacco-letto in spalla e che combatteva
da mercenario oltre i fortini della comunità, costruendo canali, strade e tracciati,
arpionando binari, abbattendo alberi, cercando petrolio, scavando miniere….fu l'hobo."
Kenneth Allsop (1920 - 1973),
l'autore di questa descrizione, è forse l'unico ad aver fatto uno studio approfondito
su questa figura, che definisce "un prodotto americano indigeno unico", "…per
metà uno schiavo dell'industria, per metà un avventuriero vagabondo…" Ma l'hobo
ha una caratteristica peculiare, per cui è impossibile ignorarlo, e che Allsop
mette in piena luce. (L'Hobo) "era un viandante selvatico e recalcitrante, malvisto
dal cittadino ben sistemato che lo criticava e forse in segreto lo invidiava. Nel
suo campo d'azione, all' aperto, egli andava svolgendo una propria vita distinta
e una propria filosofia: duro, avventato, radicale, sardonico. L'essenza romantica
dello "stile hobo" ha impregnato la canzone, la letteratura e la mentalità americana."
[10]
Lo spirito dell'hobo impregna ad esempio tutto il country blues, perché i bluesmen
erano degli autentici hoboes che girarono in lungo e in largo gli Usa facendo i
clandestini sui treni e suonando la loro musica dovunque. "Portavano il diavolo
sulla schiena", cioè la loro chitarra, nella visione dei più puritani.
Il
musicologo Alan Lomax (January 31, 1915 – July 19, 2002)
ritiene che la ferrovia sia stata la sorgente della miglior musica americana: dai
canti di lavoro sui vari aspetti della costruzione delle ferrovie, agli spirituals,
alle ballate, ad una enorme quantità di blues che contengono versi con riferimenti
al treno, alla ferrovia, al viaggio. Sempre Lomax: "effettivamente il blues si
potrebbe definire un ritmo tra l'africano e la locomotiva…"
[11].
L'estetica del ribelle vagabondo, la cui origine si situa nel tardo Ottocento, ha
avuto una storia lunghissima, che accompagna tutto lo sviluppo del paese, fino alla
sua affermazione internazionale e al suo ruolo di grande potenza libera. Ma il tipo
umano dell'hobo non scompare e la sua sola presenza è la più grande critica alla
società; passando da Jack London, essa è arrivata ai vari Jack Kerouac
e Neal Cassady della beat generation, per arrivare agli hippies degli
anni Sessanta. Con la contestazione del Vietnam, torna ad essere la politica il
centro dell'attività degli anticonformisti americani. Riecheggiando le grandi lotte
sindacali del passato, quando l'hobo era un militante dell' IWW (Industrial Workers
of the World- lavoratori d'industria del mondo), il sindacato rivoluzionario
e internazionalista, fondato nel
1906, rivitalizzò nuovamente
il suo carattere di opposizione al sistema America. Quello che lo spirito Hobo preserva
dal conformismo di stampo puritano è proprio la diversità, la possibilità di una
non- integrazione, del non conformismo. Caratteristiche queste che –vedremo – passeranno
tutte al jazz e ne costituiranno una caratteristica peculiare.
Il processo di sviluppo del jazz nel periodo prebellico può essere suddiviso
in quattro fasi, [12]
seguendo la periodizzazione proposta dallo storico Eric J. Hobsbawm, interessante
perché particolarmente sensibile ai legami socioeconomici tra musica e ambiente.
Prima fase: il jazz diventa una base linguistica comune a tutta la musica
afroamericana, mentre alcuni dei suoi elementi (ragtime) vengono assorbiti nel patrimonio
della musica commerciale. Questo momento iniziale si colloca tra il
1900 e il
1917. In una seconda fase,
fra il 1917 e il
1929, il jazz conosce uno
sviluppo rapidissimo; precisa sue caratteristiche, e autonome, forme espressive.
Nello stesso tempo, una forma di jazz molto annacquato diventa parte integrante
della musica leggera –da ballo e cantata- di tutto l'occidente. Terza fase,
1929-1941:
le forme più autentiche di jazz conquistano le minoranze culturali europee e i musicisti
d'avanguardia. Un'altra forma di jazz, meno annacquato, lo Swing, si conquista nuovamente
uno spazio rilevante nella musica leggera e da ballo. Dopo il
1941 c'è il vero trionfo
internazionale del jazz e il suo deciso riconoscimento artistico da parte dell'establishment
culturale. Questa semplice suddivisione cronologica fornirà l'ossatura al nostro
discorso sul jazz della prima metà del Novecento. Lo stesso termine "jazz", passato
così rapidamente attraverso diverse fasi di sviluppo, si modifica e precisa, acquisendo
ulteriori significati. In parte, queste mutazioni di "senso" nell'uso della parola
sono inevitabili conseguenze della confusione semantica provocata dalla ancora non
perfetta conoscenza degli appassionati coevi riguardo al fenomeno "jazz".
Lo studioso Winthrop Sargeant propone cinque diversi significati per
la parola jazz, [13]
che ben si adattano ad essere posti in relazione con il periodo ora preso in esame.
1) l'improvvisazione spontanea
conosciuta come "hot jazz",
2) la musica da ballo prodotta da un'orchestra professionale che si esprime in uno
stile "pseudo –negroide";
3) le produzioni di orchestre sofisticate, basate su un repertorio commerciale (tipo
Tin Pan Alley),[14]
di carattere europeo, che introducono schemi ritmici e melodici tipici del Jazz;
4)
un brano basato su materiale plagiato dalle opre di un compositore classico e sottoposto
a un "riarrangiamento" di tipo jazzistico.
5) musica composta da un musicista di Tin Pan Alley che imita lo stile negro.
Confrontando le due schematizzazioni
proposte, emerge con chiarezza quanto già accennato nel paragrafo precedente, vale
a dire che esiste uno stretto legame tra il jazz e la musica commerciale e che entrambe
incrociano spesso le loro strade. Il musicista jazz a corto di ingaggi può sempre
accettare di suonare in una grande orchestra "sweet", dolce, termine che in quegli
anni designava i grandi organici che proponevano musica da ballo con lievi venature
di jazz. E' quello che fece ad esempio il trombettista bianco Bix Beiderbecke,
che militò nell'orchestra di Paul Whiteman. Gli stessi innovatori del be-bop
si ritrovavano al Minton's Club a creare la "loro" musica, solo dopo aver
terminato il loro lavoro di orchestrali in qualche big band. Le esigenze economiche
impongono ai musicisti queste scelte. Spesso comunque i musicisti, anche quando
fanno jazz autentico, utilizzano come base per la loro improvvisazione melodie e
temi tratti dal repertorio della canzone commerciale. Molti temi composti a Tin
Pan Alley sono diventati standards del jazz. Sargeant nota inoltre come la musica
dei neri americani venga sempre classificata in base alla sua funzione sociale:
la musica da ballo è stata definita jazz o ragtime, quella usata nelle funzioni
religiose spiritual, quella che accompagnava i lavori nei campi di cotone work-song
…Se da un lato queste rigide classificazioni sono riduttive, da un altro punto di
vista esse ci aiutano però a comprendere l'importanza della musica all'interno della
comunità, la sua importanza come fattore collante e antidisgregativo per una minoranza
alienata nella sua condizione di segregazione e sfruttamento.
Il Jazz "Attaccato"
Il pregiudizio nei confronti dell'espressione artistica della
popolazione di colore era già radicato, prima ancora della nascita del jazz. Il
ragtime, antecedente diretto del jazz, nato alla fine del XIX secolo, era una musica
per pianoforte che associava elementi ritmici tipicamente neri con la tradizione
europea, ed era una musica scritta, raffinata. Eppure già nel
1899 si attirò la stessa
critica di essere "musica degenerata"
[15]
che quasi quarant'anni dopo fu pronunciata da Goebbels a proposito dell'Hot
jazz.
Fin
dai suoi primi passi il jazz non fu considerato solamente come un'altra espressione
della musica leggera, ma elevato al rango di simbolo, e questo gli attirò le attenzioni
del mondo culturale. I giornali pubblicarono articoli in cui si cercava di spiegare
il fenomeno, o più spesso si lasciavano andare a pesanti attacchi di stampo moraleggiante.
Per molti anni il jazz non ha goduto di una buona stampa, anche se singole voci
si sono di volta in volta levate in sua difesa. Hobsbawm insinua che dietro
le parole dei moralisti, dei catoni censori della musica sincopata, si annidi in
realtà una tenace ostilità verso le classi inferiori. Certamente questo assunto
è valido per le parole del rabbino Stephen T. Wise: "Quando l'America
avrà ritrovata la sua anima, il jazz scomparirà, e non prima; vale a dire che sarà
relegato negli antri oscuri e scarlatti donde è venuto…" Gli antri oscuri a
cui si fa riferimento nel testo sono i bassifondi degradati delle grandi città,
dove è costretta a vivere la stragrande maggioranza della popolazione nera.
"Perché esiste la musica jass, e di conseguenza il jass band? E' lo stesso che
chiedersi il perché dei romanzi tascabili o della gomma da masticare. Sono tutte
manifestazioni di cattivo gusto, un gusto che non è ancora stato depurato dalla
civiltà." Questo è l'incipit del conosciutissimo attacco pubblicato dal quotidiano
Times-Picayune di New Orleans nel 20 giugno del
1918.
[16]
Già queste prime parole rivelano in chi scrive una mentalità da colonialista classico,
portatore dei "giusti" valori occidentali al buon selvaggio ancora ignaro; c'è inoltre
la presunzione, tipica di un certo paternalismo razzista, di sapere a priori ciò
che è bene o male per un popolo considerato inferiore, e dunque incapace di decidere
per sé medesimo. E' il padrone dunque a sobbarcarsi questa fatica, decidendo
a priori. Acceso difensore dei valori morali, oltre che dello status quo politico-
sociale, l'ignoto giornalista prosegue la sua filippica: "…la musica jass è la
storia sincopata e contrappuntata dell'impudicizia. (…) Il jass offre un piacere
sensuale più intenso di quello dei valzer viennesi o dei sentimenti raffinati e
rispettosi del minuetto del 18esimo secolo. (…) Sta a noi essere gli ultimi ad accettare
queste sconcezze nell'ambito di un consorzio civile."
E' curioso rilevare come i motivi addotti dai benpensanti americani per rigettare
il Jazz, siano gli stessi che portano la borghesia europea ad accettarlo così rapidamente,
stanca di annoiarsi con i valzer viennesi. I " ruggenti anni Venti", sono il momento
del divertimento, c'è il desiderio e la necessità di dimenticare in fretta gli orrori
e le devastazioni provocati dalla grande guerra. Questo non significa che l'Europa
sia immune dalle critiche nei confronti del jazz, ma queste assumono un carattere
più pacato, sovente prendono la forma della curiosità per gli aspetti più folcloristici
di un paese lontano e ancora poco conosciuto. Una corrispondenza del
1926 dagli Usa, pubblicata
dal Corriere della Sera, aveva per titolo: Musicista dei vecchi tempi morto di
crepacuore ad un concerto di Jazz. Naturalmente simili reportages improntati
sul tragicomico non aiutavano minimamente i lettori ad accostarsi nella giusta maniera
al fenomeno. Nonostante i giornali si schierino contro il jazz, l'Italia, come il
resto d'Europa, è assetata di nuovi divertimenti. Aprono i primi locali notturni,
rinasce la vita mondana. "Nei ritrovi notturni scivolano sottobanco le prime
dosi di Cocaina e si spendono biglietti da mille con una prodigalità che qualche
anno prima avrebbe fatto inorridire." Nasce un nuovo mondo fatto di ballerine,
soubrettes, viveurs…[17]
Già nel 1920 un'orchestra
italiana porta il nome di "Ambassadors jaz band" e nel
1922 il quotidiano il
Messaggero, commentando la nuova moda, scriveva: "…Abbiamo una spiccata tendenza
ad ammirare ogni novità che ci venga recata dall'estero, comprendendo nella parola
"estero" anche le civilissime tribù dei cannibali." Prosegue l'articolo a firma
di un certo Labb.: "In quell'orchestra che onora le sale dei ritrovi mondani
e degli alberghi di lusso dove la società scelta passa la notte ballando, lo strumento
più delizioso per gli orecchi è una tromba d'automobile. Una modesta tromba di automobile
che riesce a far guadagnare parecchie centinaia di lire al giorno a chi la maneggia."
Certamente quello che veniva portato nei locali alla moda del nostro Paese era un
genere musicale che non aveva molto a che vedere con il jazz autentico degli afroamericani,
che proprio in quegli anni ne stavano forgiando le caratteristiche. C'è però chi,
come Alfredo Casella, tornato da un viaggio negli Stati Uniti, scrive: "Fra
tutte le impressioni sonore che un musicista può aver provato agli Stati Uniti,
quella
che domina ogni altra per la sua originalità, la sua forza di novità e anche di
modernismo, la sua enorme dotazione infine di dinamismo e di energia propulsiva,
è senza dubbio la musica negra, detta jazz.(…). Arte fatta innanzitutto di ritmo,
di un ritmo brutale spesso, altre volte invece dolce e lascivo, ma ritmo sempre
di una forza barbarica che smuoverebbe un cadavere, ritmo che per la sua ostinazione,
la sua tremenda forza motrice, ricorda non di rado le pagine più eroiche di Beethoven
o di Stravinskij, ritmo infine che sembra -di fronte alla nostra decadente,
super raffinata musica europea- risuscitare la frenesia, la energia orgiastica di
Dyonisos."
[18]
Dunque
non mancano i pareri autorevoli, ed acuti, sul jazz, in Italia come in Francia,
di musicisti d'avanguardia come Darius Milhaud (Aix-en-Provence,
4 settembre 1892 - Ginevra, 22 giugno 1974) e il direttore d'orchestra
Ernest Ansermet (Vevey, Switzerland, November 11, 1883 – Geneva,
February 20, 1969), e in molti altri Paesi d'Europa. Il clima dunque non
è sfavorevole nel suo complesso. Grazie a queste particolari condizioni molti musicisti
americani trovarono in Europa rifugio e lavoro, dopo che la crisi del
1929 aveva ridotto drasticamente
le possibilità di ingaggio nel loro paese. Finalmente negli anni Trenta il vecchio
continente potè apprezzare i migliori esponenti della musica nero-americana:
Louis Armstrong,
Sidney Bechet, Duke Ellington; questo contribuì grandemente a creare
una piccola, ma agguerrita schiera di appassionati e musicisti del jazz meno commerciale,
che avrebbe contribuito enormemente allo sviluppo di questa musica.
La "Swing Craze"
Tra
gli anni Trenta e la seconda guerra mondiale nasce, si sviluppa ed esplode la moda
del jazz, con il fenomeno della "Swing craze", la "pazzia" per la musica sincopata.
Dapprima sono le musiche nere utilizzate per gli spettacoli di varietà a interessare
il pubblico bianco, con il loro fascino esotico e la forte carica vitalistica.
Shuffle Along, del 1921,
è la rivista che lancia la giovanissima ballerina Josephine Baker
(3 giugno 1906 - 12 aprile 1975),
e impone al mondo intero la novità della cultura "negra". Contemporaneamente,
George Gershwin (Brooklyn, New
York, 26 sett 1898 - Hollywood, 11 lug 1937) riconosce nel jazz la più autentica
forma di arte popolare americana e vi si ispira per i suoi capolavori. Gli anni
del conflitto mondiale sono scanditi dallo swing, una musica che non conosce barriere,
e viene suonata in Italia e in Germania come in Francia o Inghilterra e che al termine
del conflitto, sarà identificata come la musica della liberazione; perché i dischi
di swing arrivavano con i "liberatori" americani. Un'affermazione spettacolare,
rapida che difficilmente trova paragoni in altre forme artistiche. Il jazz diventa
un "linguaggio comune" in America ed in Europa prima di aver acquisito una sua fisionomia
definita. Si fa un gran discutere su quale sia il vero jazz, tra orchestre da ballo
e tentativi sinfonici; questo perché gli esponenti migliori di questa musica suonano
ancora ad Harlem o nel South Side, il ghetto di Chicago. Il jazz nero si fa conoscere
molto lentamente. Sono i bianchi a diffondere e a commercializzare per primi questa
musica, come è bianco il primo "re del Jazz", Paul Whiteman
(28 marzo 1890 – 29 dicembre 1967)
. Dopo, e prima di lui, molti altri sono stati i "re" e gli "inventori" di
questa musica. Alcuni, come Jelly Roll Morton
(October 20, 1890 – July 10, 1941)
e Clarence Williams (8 ottobre
1898 – 6 novembre 1965), si fanno addirittura stampare i biglietti da visita
con questa dicitura.
Il
jazz è una musica popolare, frutto di lunghi anni di elaborazione collettiva e i
suoi inizi si perdono in un passato indefinito, non più documentabile. I nomi degli
iniziatori sono spesso reali, appartenuti a persone concrete, come nel caso di
Buddy Bolden (6 settembre 1877
– 4 novembre 1931), ma le gesta sensazionali, il suono esplosivo della cornetta,
gli aneddoti che vengono tramandati sulla sua figura sono avvolti da un'aura mitica.
Il jazz come epos di una comunità ha origini che affondano nel mito. Buddy Bolden
e i musicisti che con lui diedero vita al primo jazz, sono come demiurghi, "creatori"
dal nulla di un cosmos e autori del recupero della memoria africana, riscatto
che essi compiono collettivamente e non individualmente. La nuova musica si trova
in una fase di sviluppo rapido e tumultuoso, e si sta creando una sua fisionomia.
A cavallo tra fenomeno artistico e intrattenimento, mostra i segni di una sua emancipazione
culturale, ma finisce spesso per adagiarsi sulle formule di successo immediato,
quelle che consentono al jazzista di professione di sopravvivere suonando musica
da ballo per un'orchestra alla moda e di riservare il jazz autentico alle sedute
di sala d'incisione o a jam sessions saltuarie. Sul valore del jazz si discute per
molti anni, almeno fino alla definitiva consacrazione del be-bop come fenomeno artistico.
Le varie tesi dei critici, spesso a favore o contro con argomentazioni superficiali,
sono venate di pregiudizi e dettate dall'incomprensione per un fenomeno che non
è spiegabile o interpretabile secondo i consueti canoni estetici occidentali. Mancano
gli strumenti culturali adatti a valutare gli esiti artistici; le stroncature da
parte di molti esponenti della musica e della cultura "classiche" che bollano il
jazz di "rozzezza" o di "primitivismo" mostrano i fraintendimenti in cui si può
cadere quando si crede di avere il monopolio della cultura, della scienza e anche
dell'espressione artistica. Eppure sono proprio i giudizi dei bianchi, lontanissimi
dalla sensibilità nera a dettare le prime regole di interpretazione della musica
jazz. Se i neri conservano in questi anni una loro autonomia, si deve forse ringraziare
la separazione razziale per cui il jazz bianco è solo bianco mentre quello nero
è solo nero; i due momenti corrono paralleli senza mai toccarsi e le influenze sono
mediate dalla estetica del proprio gruppo di appartenenza. In entrambi i casi, si
tratta di un giudizio inconsapevole, fondato non su una decisione razionale ma su
di un pregiudizio inconscio. Il bianco che cerca di purificare il jazz dalle sue
asperità e il nero che trova sdolcinate le musiche da ballo di Paul Whiteman
non fanno che applicare una loro idea di bello assoluta, non tenendo conto del diverso
punto di vista dell'altro. Secondo Arrigo Polillo: "la rozzezza, i suoni
rauchi e discordanti, da cui Whiteman e i suoi sostenitori volevano emendare
il jazz negro, non erano, e non sono ancora, delle caratteristiche negative se non
per chi aveva ed ha, un concetto del bello radicato nelle tradizioni di una cultura
diversa da quella che ha espresso il jazz." La ricerca del consenso e della
rispettabilità, forse il senso di inferiorità nei confronti della cultura europea
influenzano e condizionano il jazz e portano ad aumentare la confusione intorno
alla sua definizione. Il jazz vero è quello dell'orchestra di Paul Whiteman?
O, come si disse anni dopo, il suo voler cambiare il jazz per renderlo una musica
rispettabile non era piuttosto un atteggiamento paternalistico, di tipo coloniale
nei confronti di un prodotto della cultura nera?
Il
12 febbraio 1924
Whiteman presenta alla Aeolian Hall un concerto di "Jazz sinfonico" per
grande orchestra. L'intento di Whiteman è mostrare al mondo come è cambiato
il jazz moderno rispetto ai primi "rozzi" "tentativi" dei negri; a come è diventato
"melodioso" (i termini virgolettati sono sue espressioni). Qui è allo stato embrionale
un problema che si riproporrà sempre nella storia del jazz: solo il suo essere arte
poteva permettere ai bianchi di accostarsi ad esso. Le condizioni ambientali in
cui nasce il jazz, sale da ballo, bar malfamati e locali notturni impongono ai musicisti
certe regole precise: l'intrattenimento è sacro e dunque la musica proposta deve
divertire, deve far ballare e quindi deve sempre possedere una certa tensione ritmica.
I pezzi proposti devono essere di facile ascolto e di presa immediata. Evidentemente
ascoltatori, critica, "padroni del divertimento" (gestori dei locali, editori
musicali, impresari dei concerti) non hanno nessun tipo di consapevolezza di trovarsi
di fronte ad un fenomeno artistico: il jazz è una musica negra che ha saputo conquistarsi
il favore del pubblico e dunque va sfruttata per queste caratteristiche di tipo
commerciale. La diffusione commerciale del jazz prende piede quasi in parallelo
alla sua nascita: praticamente solo per il periodo New Orleans questa rimane quasi
esclusivamente musica della comunità nera ed assolve anche delle funzioni sociali
codificate nel tempo. Ricordiamo, tra queste, il tipico funerale nero, con la
marching band che suona dietro il feretro, o le orchestre che suonano durante
il Mardi Gras, il carnevale di New Orleans, che era –ed è- uno dei momenti
centrali nella vita della città. E' nella stessa New Orleans che i primi musicisti
bianchi si avvicinano alla musica dei neri anche se è a Chicago che un gruppo di
studenti delle scuole superiori decidono di dedicarsi con passione al jazz; dapprima
per loro puro divertimento, ma finendo poi per diventare dei musicisti professionisti
e dare avvio ad uno stile, il cosiddetto "jazz di Chicago". Tra loro è Bix Beiderbecke,
un giovane bianco che non è più solo un imitatore, ma possiede uno stile proprio
e temperamento d'artista. Abbiamo visto il perché il jazz sia nato a New Orleans
e ora dobbiamo dire quali caratteristiche permettono a Chicago di diventare la meta
di molti musicisti neri emigrati dal sud e la fucina di tanti talenti bianchi. Chicago
era l'ultimo scalo effettuato dai battelli fluviali, inoltre era anche una città
industriale, che prometteva alla popolazione di colore la possibilità di una sistemazione
economica migliore. Così a Chicago fu possibile realizzare quella comunicazione
tra bianchi e neri che a New York si sarebbe concretizzata qualche anno dopo, sotto
il nome di Harlem Renassaince. Il jazz di New Orleans, nelle mani dei giovani di
Chicago, perde alcune delle sue caratteristiche originali ed inizia una sua evoluzione,
parallela a quella che portano avanti i musicisti neri. Il jazz nelle mani dei bianchi
suona diverso perché era un'arte appresa, cioè ricostruita intellettualmente. "Il
musicista bianco capì il blues come musica, ma raramente come atteggiamento, il
suo modo di vedere il mondo, era necessariamente assai diverso, e, in molti casi,
in contrasto con le ragioni più profonde del jazz".
[19]
Per Leroi Jones la diversità tra jazz bianco e nero risiede essenzialmente
nell'influenza del blues, molto presente nella musica nera mentre è assai ridotta
in quella bianca. Il jazz inoltre viene piegato ad un uso improprio: in molte orchestre
bianche viene utilizzato per dare colore alla loro musica, e queste ottengono, usando
alcune peculiari caratteristiche del jazz, un enorme successo. I migliori musicisti
neri, quelli che non imbastardiscono la loro arte per piacere ad un pubblico più
numeroso sono confinati nel ghetto e non hanno le stesse possibilità di avere contratti
radiofonici, o effettuare incisioni discografiche, rispetto ai bianchi, e quindi
la loro arte non riesce a farsi sentire; inizia quella che Polillo definisce
la "mistificazione" su che cosa sia il jazz. La liberazione da questa mistificazione,
sarà un compito lungo e faticoso, che troverà una sua risposta definitiva solo dopo
lunghi anni, quando i musicisti neri riusciranno a recuperare appieno certe caratteristiche
peculiari e a svincolarsi dall'abbraccio soffocante della cultura bianca e contemporaneamente
i musicisti bianchi non si avvicineranno più al jazz per derubarlo delle sue idee
migliori o per snaturarlo con la loro mania di occidentalizzarlo, ma ci si accosteranno
con la consapevolezza di avere a che fare con un fenomeno artistico autonomo e con
una propria dignità.
L'ambiguità
di Duke Ellington
Gli stessi musicisti non sono, agli inizi, consapevoli di essere
i creatori di una nuova espressione artistica. Il primo a forzare i limiti angusti
del jazz è Duke Ellington (29 aprile 1899 - 24 maggio 1974),
che fino ai primi anni 30 si era esibito al Cotton Club, il più conosciuto
locale notturno di New York dei ruggenti anni Venti. Ellington sente il bisogno
di affrancarsi dagli stereotipi del jazz. Inizia a comporre brani di un certo respiro,
la cui esecuzione supera i tre minuti, il limite tecnico imposto dal disco a 78
giri. I titoli mostrano programmaticamente la volontà di superare gli stilemi più
consunti e di avvicinare il jazz alla musica dotta occidentale:
Creole rhapsody
()
del 1931 e, soprattutto,
Reminiscin'
in tempo ()
del 1935, sono composizioni
articolate, vere e proprie suites jazzistiche. Ellington conosce e cita
Debussy e Ravel, in un rapporto di scambio e influenze, in cui però
predomina la componente jazzistica. Duke Ellington non è solo un musicista
colto, ma anche un intellettuale che vuole portare fuori dal ghetto la musica nera
e conferirle una sua dignità. Assumendo questo presupposto si può leggere la composizione
di un'opera, vero e proprio poema musicale a tema, come
Black, Brown and
Beige (Come
Sunday e The Blues
)
come il primo passo verso la consacrazione del jazz tra le forme di cultura "alte".
Per la durata di un'ora, nel corso dei tre movimenti, ognuno con il titolo di un
colore, viene narrata la storia del popolo nero in America, dagli anni della schiavitù
attraverso il faticoso cammino dell'integrazione. La stessa rappresentazione del
lavoro ebbe luogo alla
Carnegie Hall, una sala da concerto nella quale per la prima volta
entrava un jazz da concerto e non semplicemente una musica da ballo. Duke Ellington
ha poi continuato per tutta la sua carriera a percorrere la strada del jazz da concerto,
forse con il segreto intento di creare una "musica classica nera" per il
suo popolo o come hanno detto alcuni critici tra cui Vic Bellerby "la
musica di Ellington tende a rappresentare il nuovo cittadino negro con tutta la
sua nuova e complessa sensibilità". Il cittadino negro cui si riferisce l'autore
citato è l'abitante di Harlem che negli anni trenta si trova al centro di un ambiente
più aperto al ricambio culturale, in un'atmosfera in cui la segregazione è limitata
e bianchi e neri hanno un luogo fisico in cui incontrarsi. Questo posto è Harlem,
l'unico ghetto in tutti gli Stati Uniti in cui i bianchi entrano, sia pure solo
per procacciarsi divertimenti.
[20]
Dice a questo proposito Walter Mauro: "Su questo inserimento del negro
in un più difforme contesto, agisce senza dubbio la diversa situazione dell'uomo
di colore ad Harlem, a differenza di quanto si era verificato a Chicago: si vuol
dire che mentre il South Side della città dell'Illinois rappresentava l'universo
della segregazione nelle sue più chiuse formulazioni, (..) al negro di Harlem si
presentarono occasioni maggiori di ricambio culturale, a causa della grande affluenza
di bianchi nel quartiere negro, all'indomani della chiusura delle case di tolleranza
al centro della città; per cui la Lenox Avenue divenne realmente un catino difforme
e scomposto, nel quale tutta la gracilità psicologica dell'ex schiavo fu messa a
dura prova" [21].
In questo contesto si sviluppa la "Harlem renasssaince", il movimento della
letteratura negra d'avanguardia, il cui maggior rappresentante fu Langston Hughes.
[22]
Lo stesso Hughes, con altri ispiratori
di questo movimento come Wallace Thurman e Aaron Douglas guardavano
oltre il ghetto e si rifacevano espressamente a componenti della cultura europea.
Purtroppo rileva Mauro: "l'intellettuale negro reagisce debolmente, e
con estremo candore psicologico, all'urto che gli viene dalla cultura dotta ed emancipata
dei bianchi."
L'ex
schiavo è inibito da un complesso d'inferiorità dovuto alla sua persistente condizione
di segregazione e a questo si aggiunge il peso della cultura bianca che affligge
un uomo sradicato, privo di una sua storia e di una tradizione. La mancanza di una
identità propria spinge ad un lavoro di ricerca, un processo conoscitivo che investe
in primo luogo la storia, non solo quella del passato recente, fatto di schiavitù
e repressione ma soprattutto il legame con l'Africa. "Il negro americano deve
ricostruire il suo passato per costruire il suo futuro." Questo è l'incipit
di un saggio opera di Arthur Alfonso Schomburg
(1874-1938), (uno degli esponenti
del New Negro Movement), licenziato nella metà degli anni venti. Il recupero
dell'Africa presenta altri aspetti interessanti. In prima battuta infatti sono di
nuovo intellettuali ed artisti europei a diffondere la passione per il "primitivo"
e per la cultura africana
(Picasso,
Matisse, Guillaume); questo interesse determina una vera moda per
il "negro" che influenzerà, dopo la prima guerra mondiale, la diffusione delle musiche
e delle danze di origine afroamericana. C'è poi l'aspetto politico portato avanti
dalla Universal Negro Improvement Association di Marcus A. Garvey
(17 agosto 1887 – 10 giugno 1940),
che propone il ritorno dei neri americani in Africa. Questo ritorno all'Africa è
una variante del messianismo religioso che ha sempre fatto presa sulla popolazione
nera. La salvezza del popolo nero è nella terra promessa, come lo è stata prima
per l'altro popolo oppresso degli Ebrei. E in entrambi i casi la visione mistica
e trascendente del Paradiso viene piegata ad un discorso politico immanente: sia
per il movimento sionista che per quello di Garvey non si tratta più di vagheggiare
una simbolica traversata del Giordano ma di individuare uno spazio concreto: la
Palestina, l'Africa come luogo storico, concreto della realizzazione di una nazione.
Nonostante la confusione ed il pressapochismo dei dirigenti, l'organizzazione di
Garvey gode di un ampio appoggio popolare, milioni di negri ascoltano le
sue parole di vago sapore messianico, il suo appello all'orgoglio di razza e all'unità
africana. Nel 1923
Garvey fu giudicato colpevole del reato di frode (aveva dissipato l'ingente
patrimonio di 750.000 dollari raccolto tramite azioni dalla sua società, la Black
star Line) incarcerato e in seguito espulso dagli Usa. Il suo messaggio attecchì
particolarmente tra le masse urbane dei ghetti e anche se il suo leader fu sempre
avversato dalla borghesia nera istruita come un pericoloso demagogo. I sette anni
di attività del movimento lasciarono un'impronta duratura:
Garvey
ridiede ai neri la forza di superare la vergogna per il colore della pelle e la
spinta ad una emancipazione rapida, alla conquista dei diritti naturali di essere
umano. L'appello alla separazione razziale è razzista nei contenuti e Garvey
compie addirittura l'errore di elogiare e legittimare il ku klux clan però
il suo messaggio servì a gettare le basi del nazionalismo nero dei Black Muslims,
dell'esperienza di Malcom X (Omaha, Nebraska, 19 mag 1925
- New York City, New York, 21 feb 1965), e fu anche recepito da alcuni leaders
del nazionalismo africano come Kwame Nkrumah
(Ghana, 21 settembre 1909 - Romania
27 aprile 1972).[23]
Il fulcro dell'attività di Marcus Garvey è ad Harlem dove hanno
anche sede le riviste negre che diffondono la Negro Renassaince letteraria.
Harlem è dunque la capitale culturale del mondo nero, e proprio in questo periodo
è soprannominata dagli avventori la "Parigi Nera". I bianchi vi si recano
per assaporare nuove emozioni dal sapore esotico, i canti e i balli dei neri come
manifestazioni del "primitivo", gli afroamericani sono viste come creature semplici,
"figlie della natura", il cui messaggio è importante nella misura in cui aderiscono
a questo stereotipo. Lo stile "jungle" che Ellington pratica negli anni della
sua permanenza al Cotton Club è una concessione alla moda del primitivismo.
Si tratta di musiche basate su un forte effettismo sonoro, dove gli strumenti dell'orchestra
"grugniscono, gemono, ansimano" accompagnando balletti e spettacoli con esotiche
evocazioni della giungla africana e scene erotiche. Secondo Walter Mauro
lo stile jungle che caratterizza i primi tempi dell'orchestra di Duke Ellington
è dovuto all'indifferenza del compositore verso i modelli culturali occidentali,
il quale in questo periodo "non sarebbe ancora del tutto emancipato" dal
rapido processo di presa di coscienza. Questo è un aspetto della questione, però
non bisogna dimenticare i pesanti condizionamenti commerciali imposti alle orchestre
di swing in questi anni. Duke Ellington ha superato la crisi economica del
‘29 anche incidendo
canzoni alla moda e lavorando al Cotton club; ma, quando è diventato sufficientemente
conosciuto ed affermato, ha tentato subito di innalzare la sua musica alle vette
dell'arte depurandola dalle scorie imposte dal primitivismo. Il critico nero
Leroi Jones ha sottolineato a questo proposito come la musica di Ellington dichiaratamente
"africana" nei suoi assunti ha assai meno a che vedere con l'Africa della sua musica
migliore, quella che può essere a buon diritto definita afroamericana. Lo stile
jungle invece, su di un piano squisitamente sociologico non è che una mistificazione
del concetto di Africa. Non si realizza quella sintesi di Africa-America che è l'unico
modo di concepire un recupero autentico delle radici, perché Ellington si
basa su di un immagine mitica e favolistica del continente nero, influenzato dall'immagine
che di questo si aveva nella società bianca americana, un'idea intrisa di paternalismo,
per cui l'Africa era un paese arretrato, abitato da popolazioni primitive secondo
il metro di valutazione occidentale e che andavano civilizzate. La loro cultura
non era tale agli occhi del bianco e poteva venire considerata al massimo come un
aspetto folcloristico o un divertimento.
Questi
riferimenti all'Africa, generano un equivoco nella valutazione complessiva dell'intera
opera ellingtoniana: essa reca in sé le tracce del conflitto che attraversa tutta
la storia del jazz: "Parlare dei neri-piacere ai bianchi". Ellington
colloca il Nero al centro della sua musica, recupera il blues più autentico,
ma offre al pubblico bianco dei sicuri riferimenti culturali: siano essi grossolane
emozioni esotiche o criteri estetici di tipo occidentale: cura delle forme, rigore
di scrittura e attenzione nell'esecuzione. Per altri però lo stile Jungle nasconde
un secondo significato e la giungla incarnata dai rumori e dalle grida non è altro
che la rappresentazione mimetica del ghetto di Harlem, nella visione bianca di tipo
moralistico il quartiere nero non è nient'altro che una giungla.
Anche
per Ellington il significato è questo: lo dimostra nel
1947 registrando un pezzo
dal titolo
Air
Conditioned jungle
(la
giungla con l'aria condizionata), che tra l'altro riecheggia altre definizioni di
tipo letterario date all'America da scrittori "critici" verso questa società:
Nelson Algren (March 28, 1909
- May 9, 1981) la chiamò una "giungla al neon" mentre Henry Miller
(New York, 26 dicembre 1891 - Pacific
Palisades, 7 giugno 1980) la definì "un incubo ad aria condizionata".[24]
Duke Ellington attraversa
indenne la crisi di coscienza provocata dal recupero delle proprie radici storiche,
non si pone il problema di definire la sua identità di fronte alle pressioni della
cultura occidentale. L'angoscia di Langston Hughes del "Continente nero",
lo dipinge come una specie di Paradiso perduto, ignorando volutamente ogni considerazione
di carattere realistico. Si è parlato di Duke Ellington per dimostrare che
i fermenti culturali germogliati ad Harlem negli anni venti sono stati la base di
partenza in questo processo di riappropriazione culturale e di creazione artistica
e letteraria. Sono piccolissimi segnali che mostrano come alcuni esponenti della
comunità nera, in special modo quella cittadina dei ghetti del nord, si stanno affermando
come intellettuali e portavoce della comunità. E' un discorso che vale per Duke
Ellington come per Marcus Garvey e, con un'influenza molto più circoscritta,
per Langston Hughes. Da qui a parlare di consapevolezza il passo è ancora
molto lungo. L'Autobiografia di Ellington è significativa da questo punto
di vista. Figlio di benestanti della borghesia di colore di Washington (il padre
era cameriere alla casa bianca), il giovane Edward Kennedy ebbe la possibilità
di crescere in una discreta agiatezza economica e ricevette una buona educazione
generale. Queste origini, sicuramente diverse da quelle della maggioranza dei suoi
coetanei neri, lo portarono a non tradire mai una certa fede nel sogno americano.
"Ci sono migliaia di persone negli Stati Uniti che sono nate povere e sono diventate
milionarie o hanno raggiunto posizioni politiche molto potenti. E' una questione
di occasioni, competitività e fortuna", scrive Ellington nella sua autobiografia
[25].
Duke Ellington e la sua
orchestra fecero numerose tournées per il Dipartimento di Stato come rappresentanti
della cultura americana nel mondo. Naturalmente il governo degli Stati Uniti ha
ricavato un notevole vantaggio in termini di pubblicità interna e di ritorno di
immagine a livello internazionale, in anni di forte contrapposizione ideologica
tra i blocchi. Il riconoscimento ufficiale e prestigioso della dignità della musica
e della cultura afroamericane sono un biglietto da visita di rispettabilità che
coprono il regime segregazionista ancora in vigore negli stati del sud e il crescente
fermento all'interno della comunità di colore per la conquista dei diritti civili.
Senza dimenticare la forte valenza simbolica di apertura liberale nell'eleggere
a rappresentante di un paese come gli Stati Uniti la musica di una sua minoranza.
Durante una di queste Tournée, nel 1963, in
conferenza stampa Ellington, invitato a parlare della questione razziale
negli USA, dichiarò: "Dovunque ci sono diversi livelli di ricchezza e povertà,
minoranze, maggioranze, razze, fedi, colori e caste. Gli Stati Uniti hanno un problema
di minoranze, i negri sono uno dei numerosi gruppi in minoranza, ma la base di tutto
il problema è una questione economica più che di colore." L'atteggiamento di
Ellington è cauto e moderato fino all'eccesso nei turbolenti anni Sessanta, la prudenza
delle sue parole tradisce la sua appartenenza ad una generazione precedente, quella
che negli anni Venti e Trenta lottò per conquistare una identità, ma che non riuscì
a trasferire sul piano politico e sociale le proprie rivendicazioni scegliendo di
agire di preferenza nel campo musicale o letterario. Ha ragione Walter Mauro
quando afferma che Ellington agisce nell'ambito della cultura negra comportandosi
come un osservatore esterno, con un atteggiamento in parte evasivo della realtà,
che noi possiamo constatare in uguale maniera nelle sue suites jazzistiche,
sempre perfette dal punto di vista formale, e nelle sue dichiarazioni che invece
sono capolavori, non d'arte, ma di diplomazia.
La figura di Duke Ellington,
per la peculiarità delle sue caratteristiche e per la longevità del protagonista:
nato nel 1899 e morto
nel 1974, ha attraversato tutta la storia del
novecento americano e non si è identificata con un momento particolare della storia
dei neri. Non può essere dunque presa come modello di una valutazione del rapporto
tra jazz e società americana degli anni Venti e Trenta. Anzi, la sua atipicità va
contrapposta a quella di tutti gli altri jazzisti, non solo di quelli a lui contemporanei.
"Trombettisti in America"
Tra
i jazzisti degli anni Venti, due figure sono emblematiche nel delineare il contesto
socio-culturale. Si tratta di personaggi apparentemente lontani tra loro, entrambi
stritolati dal sistema, sebbene in modo diverso: mi riferisco al cornettista bianco
Bix Beiderbecke
(Davenport, Iowa, 10 ottobre 1903 - 6 agosto 1931) e a
quello nero Louis
Armstrong (New Orleans, 4 ago 1901 – 6 lug 1971)
(peraltro i due si conoscevano ed apprezzavano reciprocamente).
Differenti
per la provenienza sociale: il primo è figlio di immigrati tedeschi, economicamente
ben inseriti; il secondo, cresciuto nel ghetto nero di New Orleans ha un'infanzia
disagiata e conosce anche, in tenera età il riformatorio. Differenze sociali che
si riflettono in differenze culturali:
Beiderbecke
era il prodotto di una sottocultura che emulava da vicino la cultura ufficiale e
viveva, nello stesso tempo una ribellione esistenziale contro i simboli sacri della
"sua" cultura che non lo accettava.
Armstrong
invece era un rappresentante riconosciuto della cultura della sua gente, un prodotto
accettato della sua società.
Armstrong
non si ribellava contro qualcosa perché non sentiva il peso di una "cultura ufficiale"
ostile, suonava la musica afroamericana più bella mai prodotta fino ad allora e
il suo valore era immediatamente riconosciuto, su di un piano emotivo, dai neri.
Nella metà degli anni Venti incidono i loro pezzi più riusciti dal punto di vista
artistico. A partire da questo momento incomincia il declino; inspiegabile se si
pensa alla loro giovane età (entrambi hanno in questo periodo meno di trent'anni),
e al talento di cui sono sicuramente dotati e di cui hanno dato buone prove. Invece
il loro declino è spiegabilissimo se osserviamo la loro vicenda umana da un altro
punto di vista: la società americana degli anni venti non è ancora pronta ad accettare
un fenomeno di rilevanza artistica "nero" e dalle origini umili e popolari. Certamente
gli afroamericani, e gli immigrati italiani, ebrei o tedeschi possono diventare
musicisti e suonare, ma il tutto deve venire all'interno delle forme classiche dell'intrattenimento
e deve produrre risultati interessanti soprattutto dal punto di vista economico.
I musicisti devono insomma far divertire la gente, farla ballare. Lo spazio per
l'espressione pura è molto limitato e comunque si deve sempre abbinare alle esigenze
intrinseche di commercializzazione e vendibilità che un prodotto deve avere. Pensiamo
al caso di Bessie Smith (July, 1892 – September 26, 1937)
che in quegli anni registrò 170 blues, molti dei quali sono classici senza tempo
della musica nera, vendendo circa dieci milioni di dischi: una cifra enorme per
l'epoca. [26]
Ma è il successo commerciale la ragione per cui alla
Smith
fu data l'opportunità di incidere così tanto; i numeri riportati non possono lasciare
dubbi. Se le possibilità di espressione dell'artista sono tanto strettamente legate
alla capacità di "vendere", non si può avere come risultato che un appiattimento
su melodie semplici, su musiche non elaborate e non impegnative per la mente dell'acquirente,
su liriche –quando il brano è cantato- incentrate sui temi classici della canzonetta:
amore, gelosia, buoni sentimenti vari…Il risultato di queste imposizioni e limitazioni
è l'alienazione dell'artista che non riesce a percepirsi come tale e sentendosi
un semplice intrattenitore accetta dietro le pressioni del mercato di corrompere
la sua musica a favore della platea. Questa è la triste fine di
Louis Armstrong,
che, dopo aver praticamente da solo cambiato le sorti del jazz, incidendone i primi
capolavori assoluti, si è sempre più ridotto al rango di entarteiner in spettacoli
di varietà.
Armstrong
si comporta come un Sambo,
[27]
il giullare nero che sorride sempre e lancia comiche occhiate, ma questo accade
perché lui si ritiene prima di tutto un uomo di spettacolo e mette innanzi le esigenze
del pubblico, che cerca di compiacere in ogni modo. Ed è il pubblico bianco di tutto
il mondo, non solo d'America a richiedere ad
Armstrong
"divertimento" e a decretare a questo
Armstrong
una popolarità immensa. Scrive Arrigo Polillo nella sua storia del Jazz:
"Armstrong crebbe in un'epoca in cui il nero americano non poteva permettersi
il lusso di fare dell'arte, ma poteva al più divertire il prossimo. Non si prese
sul serio perché non venne preso sul serio se non da una pattuglia di intenditori;
fece il giullare perché capì subito che quello era il ruolo che la società gli aveva
assegnato, e si preoccupò sempre di far contenta la platea, e anche il loggione,
perché gli avevano insegnato che ogni persona del pubblico (bianco, come fu quasi
sempre quello che si trovò dinanzi) era più importante di lui e meritava del riguardo."
[28]
Quando parlo di influenze del contesto sociale mi riferisco proprio a questi condizionamenti
che delimitano il campo d'azione di un nero al varietà, all'intrattenimento; il
ruolo assegnato dalla società, quello che impedisce ad un'artista di fare
arte. Il caso di
Armstrong è emblematico ma non è certamente isolato. Si potrebbe
ricordare ancora Fats Waller (New York, 21 maggio 1904 - 15
dicembre 1943), le cui ambizioni di diventare concertista classico furono
frustrate da un mondo che non poteva accettare un pianista nero competere in un
territorio di pertinenza esclusiva dei bianchi. Waller dovette adattarsi
a lavorare alla radio come interprete di canzoni di successo e cantante oltre che
pianista. Ancora dalla storia del jazz di Polillo: "fu proprio la comicità
del suo modo di cantare, con tutti quegli ammiccamenti, il roteare degli occhi,
e quelle soppracciglia che andavano su e giù, che assicurò a Fats una immensa popolarità
internazionale." Secondo una logica strettamente economica l'industria vende
ciò che il pubblico vuole e il
Fats
Waller clown, messe da parte le sue ambizioni di musicista serio, ottiene fama
e denaro. Con il suo gruppo incise quattrocento pezzi di cui solo undici sono assoli
di piano: i numeri rivelano meglio delle parole la situazione. Naturalmente una
simile situazione non può che portare all'alienazione: "…doveva anzitutto far
ridere il pubblico; se per poco si distraeva, e si metteva a suonare seriamente,
per sé solo, veniva presto richiamato all'ordine da qualche cliente: Come on, Fats,
sveglia Fats. -E Fats borbottava rassegnato- Sì, sì, eccomi." Il conflitto insanabile
all'interno della sua personalità tra il musicista serio e il clown non passarono
senza lasciare tracce. Fu ucciso dall'alcool, come Bix Beiderbecke. Non voglio
andare alla ricerca di facili analogie, né tantomeno tentare una lettura in chiave
psicologica del loro abuso di alcool, come palliativo alle frustrazioni artistiche.
Comunque il caso di Beiderbecke resta emblematico: morì nel
1931 all'età di ventotto
anni, dopo aver dissipato in maniera sciagurata il suo enorme talento. Unico musicista
bianco a non copiare i neri ma a suonare in uno stile proprio esprime le sue potenzialità
in pochissimi pezzi. Per motivi economici deve accettare scritture in grosse orchestre
da ballo, tra cui quella di Paul Whiteman, famoso in tutta America come "re
del jazz", ma che invece propone musiche commerciali di tipo sentimentale, solo
vagamente imparentate con il jazz autentico. Riceve un compenso di 200 dollari la
settimana, tre volte tanto la paga di
Armstrong
con l'orchestra di Fletcher Henderson (Fletcher Hamilton Henderson,
Jr. : Cuthbert, GA, 18 dic 1897 - New York, 29 dic 1952) di qualche anno
prima. Ma Beiderbecke era alla ricerca di qualcos'altro, cercava la perfezione
nella musica e il suo
In a mist
(),
con i suoi echi debussiani, era un piccolo quadretto musicale, assolutamente
diverso da tutto quanto si era provato nel jazz fino ad allora. Paul Whiteman
ha detto di lui che "lottava per raggiungere la bellezza" e in un tempo dominato
dalle melodie facili, straripanti di sentimentalismo che Tin Pan Alley proponeva
quella non era una strada praticabile. I suoi sforzi assieme a quelli di
Louis Armstrong
e Duke Ellington contribuirono a far diventare il jazz una forma d'arte.
Molti, come lo stesso Beiderbecke, Fats Waller o Bessie Smith
pagarono invece un alto costo personale per poter affermare questo principio. La
loro lotta fu totalmente inconsapevole: nessuno di loro ha mai rilasciato dichiarazioni
che lasciassero trasparire questa difficoltà, non c'è una elaborazione teorica dietro
le loro opere. Si potrebbe quasi parlare di arte inconsapevole. Il jazz, come l'uomo
di colore tout court, manca di una coscienza. Bix Beiderbecke e il
Louis Armstrong
degli anni venti ricordano l'omino di Chaplin stritolato dai meccanismi della macchina,
solo che a stritolare il primo e ad annichilire le capacità artistiche del secondo
sono gli ingranaggi della società. Questa è la conclusione di Leroi Jones
che pure paragona i due trombettisti.
[29]
"L'incredibile ironia della situazione era che ambedue stavano in posizioni analoghe
nella sovrastruttura della società americana: Beiderbecke, per l'isolamento che
comporta ogni deviazione dalla cultura di massa; e Armstrong, per l'estraniamento
storico-sociale del negro in America".
[30]
Ma il grande trombettista non è solo questo. E' anche ansia di riscatto e voglia
di riuscire che emerge netta dalla sua autobiografia. In essa Louis descrive la
sua infanzia e i suoi primi successi a New Orleans, in un crogiuolo dove si mescolano
la violenza e il razzismo, la discriminazione e la vitalità della città più interculturale
e meticcia d'America [31].
Accusato di "ziotommismo", va riconosciuto ad
Armstrong
di essere uscito dal ghetto e aver portato con sé il jazz in giro per il mondo.
Naturalmente questo è il lato sociale, il periodo artistico e creativo del Louis
musicista "serio" finisce con gli anni Trenta. Da lì in avanti rimarrà solo un validissimo
intrattenitore.
Gli anni trenta sono caratterizzati dagli effetti della Depressione. Dapprima
l'indigenza e la disperazione causate dal crollo del mercato finanziario e da quello
conseguente del mondo produttivo, che si accompagnano ad una crisi politica, con
il modello liberistico messo in discussione visti gli esiti disastrosi cui ha portato.
E' anche una crisi d'identità del mito americano, la nazione del progresso e delle
possibilità per tutti si interroga su cosa non ha funzionato nel suo sistema e ha
portato milioni di persone alla povertà. Solamente dal 1935 l'economia americana
mostra i segni della ripresa, si incominciano a sentire gli effetti positivi della
nuova politica voluta da Roosevelt e conosciuta come New Deal. La disoccupazione
rimane alta, specialmente nella popolazione di colore che per sopravvivere deve
fare sempre più spesso ricorso ai sussidi statali (nel
1935 è il 65% dei neri
in età da lavoro a farvi ricorso). L'avvenire, dopo anni di incertezza, appariva
più roseo e tra i giovani c'era nuovamente voglia di divertimento e spensieratezza.
Ecco spiegato il successo dello "swing"
[32],
una musica eccitante, festosa, che aiuta a dimenticare le difficoltà patite. Lo
Swing non era altro che il jazz delle grandi orchestre negre di Fletcher Henderson,
Cab Calloway, Jimmie Lunceford e Count Basie adattato alle
esigenze commerciali: il ritmo era stato reso più scorrevole per permettere il ballo,
le melodie erano costruite su riffs semplici e di grande effetto, più "orecchiabili"
per il grande pubblico. Nei repertori delle orchestre erano sempre più presenti
canzoni sentimentali del repertorio di Tin Pan Alley.
Il jazz, che già negli anni
venti era riuscito a farsi vera e propria arte, nelle mani di
Armstrong
o Beiderbecke, si piegava ad essere una musica di intrattenimento, un prodotto
di largo consumo, una moda, per dirla con Adorno; e dunque venne agevolmente accettata
dall' establishment, non provocò più quelle reazioni negative e scomposte che avevano
perseguitato l'autentico jazz "nero" del decennio precedente. Era una musica perfettamente
funzionale al contesto sociale in cui veniva prodotta e "consumata". Rispecchiava
fedelmente l'ideologia dell' epoca, era la colonna sonora della ripresa economica
e della spinta in avanti, vera e propria fuga dagli orrori della Depressione. E'
un prodotto culturale di consumo immediato, nato da un bisogno del pubblico e non
da una ricerca artistica autonoma. Con la loro usuale analisi ipercritica, Carles
e Comolli rilevano come lo swing restituisce una immagine "dinamica"
del nuovo capitalismo americano. "Questo swing, con la regolarità di una macchina
ben rodata, con l'alternarsi rassicurante di tensioni e distensioni sempre rinnovate,
con il movimento per il movimento, diventa perfino l'emblema, il prodotto e il marchio
di fabbrica del culto che l'ideologia capitalista dedica ai comforts, al ritmo,
al movimento, all'agitazione, in breve a tutto ciò che può esorcizzare, non fosse
che nominalmente, lo spettro della recessione".[33]
Nonostante
un'applicazione del modello marxista di struttura-sovrastruttura troppo rigidamente
deterministico, nessun critico o storico del jazz, neanche il più neutrale politicamente,
si sognerebbe di negare il binomio tra commercialismo e scarsa propensione artistica
dello swing. Le orchestre bianche che si dedicarono al nuovo "affare" furono un
numero impressionante: l'avvento della radio aveva contribuito a rendere la musica
accessibile agli strati più popolari e portava via etere il suono delle orchestre
in ogni parte d'America.
Lo swing è la prima musica
contemporanea a fare i conti con il nuovo meccanismo dei mass-media. L'orchestra
di Benny Goodman (Benjamin David, Chicago, 30 mag 1909 - 20
giu 1986), che ebbe un successo clamoroso suonando swing tanto da essere
proclamato "re dello swing", venne lanciata proprio da un programma radiofonico
che metteva a confronto tutti i sabati sera le migliori formazioni di musica da
ballo. La discriminazione razziale riguarda anche le incisioni discografiche: i
musicisti bianchi di swing hanno più possibilità di incidere dei loro colleghi neri;
e questo indipendentemente dal loro valore. Fu proprio Benny Goodman a rompere
questa barriera di discriminazione e a portare in studio musicisti neri che per
la prima volta incidevano assieme a dei bianchi. Era un passo avanti verso l'integrazione,
almeno nel mondo dello spettacolo, visto che quando uscivano dalla sala di registrazione
per la società razzista americana i neri rimanevano inferiori. Questi stessi musicisti
neri inseriti in orchestre bianche commerciali contribuiscono in qualche maniera
a svilire la loro musica. La forma canzone sostituisce infatti il blues: le orchestre
conservano alcuni aspetti formali del blues nel loro swing ma ne tradiscono lo spirito.
Il blues aveva infatti una sua funzione socio-culturale all'interno della comunità,
il bluesman era il cantore delle angosce e delle delusioni della vita quotidiana
con cui ognuno poteva identificarsi e provare un senso di sollievo nella condivisione
dei problemi. La funzione dello swing risponde invece ad una logica di sfruttamento
commerciale e alla necessità ideologica di proporre un prodotto dai contenuti evasivi
e distrattivi. Lo swing che dimentica il blues perde il suo contatto con l'America
nera, dalla quale aveva avuto origine. Questo è il pensiero di Leroi Jones
che non manca di far notare come molti neri, appartenenti alla borghesia, plaudono
e ascoltano le orchestre swing bianche; rinnegano e si vergognano del blues, che
sembra loro una forma di espressione primitiva e non abbastanza sofisticata.[34]
[1] Morroe Berger "The New popularity of jazz". Saggio pubblicato
in: Bernard Rosenberg, David Manning White, "Mass culture. The popular arts in America",
Chicago: The Free Press, 1957, pp. 404-407.
[2] Accredita questa etimologia tra gli altri Eric J. Hobsbawm, "Storia soociale
del jazz", Roma: Editori Riuniti, 1982, p.96. Questo
lavoro fu pubblicato da Hobsbawm nel 1961, con il titolo
The jazz scene, sotto lo pseudonimo di Francis Newton. L'importanza dell'autore,
uno dei maggiori storici contemporanei, nonché la serietà metodologica e argomentativa,
ne hanno fatto un'opera fondamentale per lo studio su basi scientifiche del jazz.
[3] Eric.j. Hobsbawm, "Storia sociale del Jazz", op. cit., p. 96.
[4] Peppino Ortoleva,Marco Revelli, "Storia dell'età contemporanea", Milano: Bruno
Mondadori, 1988, p. 447.
[5] Alessandro Roffeni, "Blues, ballate e canti di lavoro afroamericani", Roma:
Newton Compton, 1976, p.22.
[6] Afferma Roffeni a questo proposito: "Oggi come allora i portavoce della borghesia
nera parlano di andare avanti, di muoversi verso traguardi più elevati (per
sé stessi) all'interno del sistema vigente, e mai di mettere questo in discussione,
di trasformarlo, di combatterlo. (…) si può rintracciare un filo continuo… lungo
cui si incontrano, a livello socio-istituzionale, le Chiese autonome nere, le associazioni
integrazionistiche come la NAACP, la NUL e il CORE, il movimento per i diritti civili
di Luther King ed il capitalismo nero travestito da nazionalismo culturale, e a
livello artistico-espressivo, organicamente legato al primo, i gospel songs, gli
spirituals da concerto, il jazz più svirilizzato richiesto dai dancings per bianchi,
e financo il folk blues. Questo ininterrotto filone socio-culturale, esprimente
posizioni ed atteggiamenti oscillanti tra i piccolo- ed i medio-borghesi, ha però
sempre trovato il suo contraltare in un altro filo continuo attraversante il procedere
storico degli afroamericani, il quale ora si è svolto in netta antitesi rispetto
al primo, ora, invece, si è intrecciato ad esso dando vita a momenti e fenomeni
complessi e di difficile definizione. Comunque sia, esso ha saputo dare di sé manifestazioni
memorabili: dalle sommosse degli schiavi alle attività abolizioniste dei neri liberi,
dal pensiero e dall'opera di Du Bois a quella di Marcus Garvey, da Malcom X
(Omaha, Nebraska, 19
maggio 1925 - New York City, New York, 21 febbraio 1965) ai black panthers dei primi
anni; e, non certo ultimi per importanza, i canti del diavolo intonati dalle umili
masse nere non riconciliate e non piegate: i Worksongs, i blues." Ho riportato questo
lungo passo di Roffeni (op.cit), perché, nonostante sia viziato da un troppo rigido
schematismo nel trattare il problema delle due anime presenti nell'evoluzione storica
della comunità nera e, a mio giudizio, idealizzi troppo la funzione del blues come
musica di protesta, (io parlerei per il Blues di musica di resistenza passiva),
l'assunto di fondo è corretto e in buona parte condivisibile.
[7] Una bibliografia sugli studi pubblicati in Italia, comprendente anche gli autori
stranieri tradotti, si trova in: Gian C. Roncaglia, "Italia Jazz Oggi", Anzio: De
Rubeis, 1995.
[8] J.E.Berendt, "Il nuovo libro del Jazz", Milano: Vallardi,
1992, p.
[9] Il Ku-Klux-Klan è una setta segreta nata nel 1866 in una cittadina del Tennessee,
subito dopo la fine della guerra di secessione; fu dichiarata fuorilegge nel !869.
I dati riportati sul numero di aderenti al clan sono stati desunti dall'introduzione
di Carmen D'Eletto e Lucrezia Tesè a: Harper Lee, "Il buio oltre la siepe", Torino:
Loescher Editore, 1981, pp15-18. Il romanzo è, tra
l'altro, una splendida testimonianza sul clima di "conformismo razzista" degli stati
del Sud ad inizio secolo.
[10]Kenneth Allsop, "Ribelli vagabondi nell'america dell'ultima frontiera", presentazione
di Roberto Giammanco, Bari: Editori Laterza, 1969.,p
7-8, 280, 299. Al rapporto tra musica popolare e hoboes è dedicata l'intera parte
terza del volume: "La grande arpa".
[11] L'affermazione di Alan Lomax è riportata da Kenneth Allsop, op. cit., p.280.
[12] Eric j. Hobsbawm, op. cit, p.85
[13] Winthrop Sargeant, "jazz hot and hybrid",New York: Da Capo Press, 1946, (prima
ediz.), p.47
[14] Tin Pan Alley è una strada di New York dove hanno sede gli uffici di molti
editori musicali. Per estensione è diventato il soprannome dei luoghi dove viene
composta la musica commerciale e di un certo tipo di musica leggera, superficiale
e poco impegnativa sotto l'aspetto della fruizione.
[15] "The musical Courier", 1899, citato da Leonard Feather in "The Book of Jazz",
Meridian Book, New York, 1959, p.8.
[16] Eric J. Hobsbawm, op. cit., p.97.
[17] Il viveur è un personaggio tipico di quel mondo composto da nottambuli che
si danno alla "bella vita". Petrolini lo accosta al fine dicitore, altro personaggio
caricaturale: "ricercato nel vestire, ricercato nel parlare, ricercato dalla questura."
Michele Serra, "Questo strano secolo 1901-1960", Milano:
Rizzoli,1960.
[18] Le citazioni dagli articoli sul Jazz in Italia e la testimonianza di Casella
sono tratte da:
Adriano Mazzoletti,
"Il Jazz in Italia. Dalle origini al dopoguerra", Bari: Laterza,
1983. Il testo contiene un'abbondante documentazione
sulla campagna di stampa contro il jazz, pp.186-195.
[19] Leroi Jones, op. cit. p.152.
[20] Il ghetto nero di Chicago che rimane impermeabile alle influenze esterne
diventa la culla del blues urbano, una musica rivolta espressamente ad un pubblico
nero, con forti radici nella tradizione. New York con la sua Harlem aperta ai bianchi
e alle più disparate influenze culturali è dalla metà degli anni venti la patria
del jazz, un tipo di musica meno legata (almeno in questi anni) al discorso razziale.
Un interessante tema di ricerca potrebbe essere lo studio comparato dei vari ghetti
americani, che potrebbe mettere in evidenza la stretta relazione tra condizione
sociale e tipo di espressione artistica e culturale prodotta. Per rendere l'idea
concreta della segregazione razziale basta confrontare una mappa della città di
Chicago che riporti segnate le zone residenziali nere, la Black Chicago ed
una che evidenzi i locali in cui si suona blues. Sovrapponendo le due cartine si
può notare come tutti i clubs sono rigorosamente all'interno dei quartieri–ghetto.
Le cartine si riferiscono agli anni 50 e sono tratte da: Mike Rowe, "Chicago Breakdown",
New York: Drake Publishers,inc,1975.
[21] Walter Mauro, "Jazz e universo negro", Milano: Rizzoli Editore,
1972, p.108. l'autore dedica un intero capitolo, il
quarto, all'analisi delle tematiche sviluppate in queste pagine: "Duke Ellington
e la cultura nera"; la citazione di Vic Bellerby è tratta dallo stesso lavoro di
Mauro, p.108.
[22]Langston Hughes, op. cit. pp.11-46. Sul rapporto tra Hughes e il Jazz scrive
la Piccinato nell'introduzione: "Egli avverte in profondo tutta la forza eversiva,
la potenzialità creativa di un prodotto della cultura autenticamente afroamericana,
che come tale circola e agisce al di fuori di quella minoranza, fino ad essere uno
dei pilastri della moderna cultura degli Stati Uniti." Langston Hughes usa il ritmo
e la tecnica del jazz in poesia per innalzare un monumento ad Harlem vista come
simbolo di tutta la minoranza Afroamericana.
[23] Charles E. Silberman, "Crisi in bianco e nero", prefazione di Roberto Giammanco,
Torino: Einaudi Editore, 1965, pp. 170-172, 182. Silberman
analizza la figura di Garvey anche nei suoi aspetti più spettacolari gli stessi
che tanto facevano inorridire la buona borghesia nera che aveva in ogni modo cercato
di sottrarsi alle immagini stereotipate del negro "buffone infantile". Si era infatti
fatto proclamare presidente provvisorio della Repubblica Africana. I seguaci più
fedeli venivano ricompensati con titoli onorari come I Cavalieri del Nilo e altri
simili; forse il fascino presso le masse dei neri poveri e privi di cultura era
dato proprio da questa scintillante esteriorità che faceva un può sognare.
[24] Cit. in Fernanda Pivano, "America rossa e nera", Milano: Il formichiere,
1964, pag.362. Nelson Algren è uno "scrittore della
depressione", secondo la definizione della Pivano. Nelle sue opere il jazz vi compare
sovente con la abituale funzione di "colore". Ne parla con dovizia Minganti in un
saggio intitolato: "Il jazz nella letteratura nord-americana:appunti", tratto da:
"X roads", op.cit.pp.16-19. "…Con Nelson Algren negli anni cinquanta il jazz si
contamina con certi suoi risvolti sociali (il degrado urbano, la malavita, la droga)
e con quello slang dei bassifondi… Quello di Nelson Algren è un mondo in cui il
jazz sgorga ininterrottamente dalla radio e dai grammofoni a gettone dei bar, a
contrappuntare gli umori, le psicologie. Frankie Machine (piccolo baro e ladro dei
bassifondi), che sogna di riabilitarsi entrando nell'orchestra di Gene Krupa, sia
allena alla batteria ascoltando la radio". (P.18).
[25] La precedente citazione e le seguenti affermazioni di Duke Ellington sono
tratte dalla sua "Autobiografia", Trento: Emme Edizioni, 1981,
trad. di Elisabetta Mancini. Titolo originale dell'opera: Music is my Mistress.
[26] Per ulteriori informazioni su Bessie Smith: "Bessie Smith, la regina del
blues", a cura di Dario Salvatori, Roma: Lato Side Editori,
1981. Le citazioni sui dati di vendita sono tratte
dall'introduzione dello stesso Salvatori, p.10. La stessa Bessie Smith sperimentò
sulla sua persona il cinico meccanismo dello spettacolo. Passata la moda del blues,
i gusti del pubblico si orientarono verso altre forme di canzone e lei fu dimenticata
dall' industria discografica che non la fece quasi più incidere.
[27] Sambo: negro infantile e tonto, perennemente sorridente, servile ed ossequioso
nei confronti dei bianchi. Nei minstrels (spettacoli itineranti di varietà), non
poteva mancare un bianco dal viso annerito che parodiava i canti e le gesta dei
neri. Il primo fu un tedesco, johann Gottlieb Graupner nel 1799. In seguito queste
macchiette ebbero una diffusione enorme fino ad arrivare al nostro secolo. L'ultimo
bianco ad interpretare questa parte fu Al Jolson nel film "Il cantante di jazz"
del 1927, che celebrò la nascita del film sonoro. La durata di questo clichè
implica un perdurare del pregiudizio e della stereotipizzazione del nero che
va ben oltre l'abolizione della schiavitù.
[28] Arrigo Polillo, "Jazz.La vicenda e i protagonisti della musica afro-americana",
a cura di Franco Fayenz, Milano: Arnoldo Mondadori Editore, I edizione
1975, riveduta e aggiornata nel
1997. p. 390.
[29] Leroi Jones, op. cit. p.153. Per quanto riguarda la diversità di stile:
"Il tono delicato, meditativo e il lirismo impressionistico di Beiderbecke, sono
l'esempio più notevole di espressività del prodotto lavorato; suonava jazz
bianco… cioè una musica che è il prodotto di atteggiamenti che sono espressione
di una cultura particolare. Armstrong, naturalmente, suonava un jazz che si collocava
all'interno della tradizione afro-americana; il suo tono era franco, insolente,
aggressivamente dtrammatico. Nella sua esecuzione si affidava molto alla tradizione
vocale del blues, per amplificare l'efficacia espressiva della sua tecnica strumentale".
[30] ibidem, p.152.
[31] Louis Armstrong,
Satchmo. La mia vita a New Orleans, Roma, Minimum fax, 2004.
[32] Il termine "swing" indica una particolare qualità della musica jazz: la
forte tensione ritmica e l'andamento oscillante.
[33] P.Carles, J.L. Comolli, op.cit. pp. 185-186.
[34] Per una opinione conforme: P.Carles, J.L.Comolli, op.cit. p.188
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Data pubblicazione: 18/10/2006
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