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Jazz e Politica: Il pubblico del jazz
di Franco Bergoglio

Il pubblico della musica jazz potrebbe essere argomento di un intero saggio, tali e tante sono le considerazioni che si possono estrapolare analizzando le varie fasce di persone che vi si sono avvicinate nel corso della sua storia.



Il pubblico del jazz è cambiato costantemente nel corso della sua vicenda: come del resto è cambiata rapidamente la musica. Non solo: il pubblico è anche una fonte di conoscenza importante; spesso troveremo una categoria particolare di persone, quella degli "appassionati", che ha condotto ricerche, studi, dibattiti, prodotto materiali in modo disinteressato. Un esempio emblematico: Mike Zwerinse sappiamo qualcosa sul jazz nel periodo del nazismo, lo dobbiamo a Mike Zwerin che ha studiato l'argomento e agli appassionati da lui interpellati, che avevano conservato la memoria storica dei fatti accaduti, anche i più drammatici.

Il pubblico è fonte anche in un altro senso. Tutti gli autori "politicamente impegnati" si sono serviti del pubblico come termine di paragone per giudicare il grado di compromissione commerciale della musica. Come entra il jazz nel meccanismo del consumo e della cultura di massa? Questo è uno dei nodi interpretativi del Novecento ed il jazz - assieme alle altre esperienze artistiche - naviga in questo mare. LeRoi Jones, che vedeva la borghesia di colore come un esempio di mollezza e di sottomissione nei confronti dell'America bianca, scriveva che questa classe ripudiava il blues non attribuendovi valore, mentre ascoltava lo Swing delle grandi orchestre bianche, in cui si riconosceva. Generalizzazioni del genere sono pericolose: lo Swing era una musica commerciale e di massa e ideologicamente era in linea con il pensiero dell'America degli anni Trenta e Quaranta. Però non si può negare che anche il proletariato nero la ascoltasse. Certamente il pubblico nero, rurale o di recente inurbamento, "proletario" seguiva ancora il blues che continuava ad essere voce della loro società; ma era nel contempo attratto dallo swing ed anche da quello bianco. Ecco la testimonianza di un giovane ragazzo nero di provincia: Malcom Little, meglio conosciuto più tardi come Malcom X (Omaha, Nebraska, 19 maggio 1925 - New York City, New York, 21 febbraio 1965): "I jukebox diffondevano a tutto volume le musiche di Erskine Hawkins, Duke Ellington, Cootie Williams e tanti altri. Le orchestre più grandi, come queste, suonavano al Roseland State Ballroom sulla Massachussets Avenue di Boston, una sera per i negri e la sera dopo per i bianchi". [1] Malcom XIl giovane Malcom, che non aveva ancora intrapreso il cammino di crescita, era, come tutti i suoi coetanei, affascinato dalle grandi orchestre swing, e subiva il richiamo delle scorciatoie per dimenticare la propria condizione: "anch'egli scoprì quelle affascinanti soluzioni che erano offerte ai neri per evadere dal lavoro di fabbrica o dalla miseria della disoccupazione: il ballo, l'alcool, la droga, il furto e il gioco oltre l'illusione di essere quasi bianco grazie alla stiratura chimica delle criniere nere".[2]

Lo Swing faceva parte della vita dei giovani neri del ghetto come dei borghesi "zio Tom". In Europa lo Swing era recepito dai giovani della buona borghesia che vi vedevano qualcosa di radicalmente nuovo rispetto alla cultura grigia e accademica del vecchio continente. Anche qui però non è possibile generalizzare: per molti il jazz non era altro che un sottofondo per ballare fresco e giovane che aveva sostituito i valzer o le varie musiche popolari. Il jive, che ancora oggi è uno dei numeri tipici dei ballerini, è una figura di danza che si esegue su uno Swing veloce. Per altri, i cosiddetti appassionati, il jazz diventa una ragione di vita; tanto che molti di essi continuarono a suonarlo nonostante i divieti di regime imposti da fascismo, nazismo e comunismo. In Europa sorgono dei jazz club, veri e propri circoli per iniziati, in cui i musicisti dilettanti e gli appassionati ascoltano e si entusiasmano sui primi e rari vinili disponibili. Si potrebbe azzardare una ipotesi: che in Europa il jazz non sia mai divenuto una musica di massa ma in un modo o nell'altro sia rimasto una musica d'élite; più o meno allargata a seconda del periodo storico esaminato. Invece non ci sono dubbi sul carattere elitario che assume il pubblico di jazz dopo la seconda guerra mondiale con l'avvento del bebop. I tradizionalisti, amanti dello Swing o del "revival" dello stile "New Orleans" resistettero alcuni anni e poi dovettero cedere il passo ai "Moderni". Uno scontro di fedi, uno scisma, per usare una terminologia alla Gary Giddins, come nel jazz se ne sono visti diversi.

Nel momento in cui la musica cambia, diventa difficile, richiede uno sforzo di ascolto e comprensioni maggiori, il pubblico cambia repentinamente, sia in America che in Europa.. Gli esistenzialisti francesi che amano il jazz non sono poi così distanti dai poeti e dagli scrittori della Beat Generation. Parigi è la capitale europea del jazz; qui trovano rifugio molti musicisti di colore in fuga dall'America razzista, che non considera il jazz un'arte, cosa che avviene nei clubs della capitale francese, dove giovani intellettuali e artisti sono affascinati dalla musica afroamericana. Boris Vian, Sartre, Simone De Beauvoir, Juliette Gréco,[3] frequentano i locali dove si suona jazz: testimonianze di questo interesse sono in molte opere letterarie del periodo. Juliette Gréco & Miles Davis - Paris 1949Anche se il rapporto del movimento Beat con il jazz, è molto più fecondo di contaminazioni tra suggestioni musicali e letterarie di quanto non accada in Europa. Le nuove generazioni di intellettuali ribelli sia in America che in Europa però riconoscono nel jazz la sua qualità di essere una musica anticonformista. Eric J. Hobsbawm ha dedicato un capitolo importante del suo saggio all'analisi del pubblico in America e in Europa, con particolare attenzione alla "sua" Inghilterra. Fa notare Hobsbawm, che già i ragazzi della Austin School di Chicago tra cui erano Bix Beiderbecke, Pee Wee Russell, Bud Freeman e Dave Tough, erano rampolli della buona borghesia americana: questo fatto è provato dalla mancanza tra loro di cognomi italiani o slavi che vediamo costantemente apparire negli altri capitoli della storia del jazz. Questi giovani avevano pretese intellettuali, leggevano scrittori "impegnati" e si ribellavano contro la "rispettabilità" della classe media, condividevano spesso l'idealizzazione del nero che in uno di loro, Milton Mezzrow, arriva a dei livelli preoccupanti.[4] Gli amatori degli anni trenta sono spesso giovani con tendenze radicali delle più facoltose e influenti famiglie dell'est, spesso appartengono ai ceti medi dei liberi professionisti come avvocati e medici che rifiutano i loro diritti di nascita o addirittura accettano un declassamento sociale volontario per avvicinarsi alla vita bohémien dei musicisti jazz.

Leggiamo direttamente Hobsbawm: "La loro protesta ha anche un senso politico, in quanto è gente che rifiuta in blocco l'American way of life, senza peraltro sostituirle niente oltre la musica, la filosofia esistenzialista d'avanguardia, oltre a un certo anarchismo personale".[5] Lo storico inglese parla della generazione di appassionati degli anni Trenta, ma gli stessi scrittori della beat generation, Eric J. Hobsbawmgli Hipsters che seguono il bebop, rientrano perfettamente in questa descrizione, segno che forse l'evoluzione del pubblico non è poi caratterizzata da discontinuità così nette tra il jazz pre-bop e, generalizzando, quello avanguardistico bop e post-bop. Forse la conclusione che si può trarre al di là delle contrapposizioni borghesia-proletariato, musica di massa/avanguardia elitaria è un'altra: l'evoluzione del pubblico mostra una linea tendenziale che più o meno rimane la stessa. Musica per un pubblico eterogeneo, costituito da un numero elevato di persone dotate di una buona scolarizzazione. Nel novero dei giovani che gli si sono accostati in passato, ma nulla vieta che una indagine sociologica riesca a dimostrare che lo stesso vale oggi, è presente una quota rilevante di ribelli e anticonformisti in rivolta contro il mondo. Ecco la conclusione cui perviene Hobsbawm per spiegare questo aspetto protestatario insito nella natura stessa del jazz: "Trattandosi di una comunità di ribelli, la comunità dei jazz-amatori finisce sempre col trovare delle affinità con altri movimenti di opposizione, e qualche volta, come nei paesi anglosassoni degli anni trenta in poi, si impregna totalmente di ideologie protestatarie. Normalmente però, trattandosi di un pubblico eterogeneo e individualista, esso rimane ai margini della politica attiva, ed attrae tanto coloro che vogliono sottrarsi alle convenzioni, quanto coloro che vogliono abbatterle. Il jazz degli anni venti era completamente apolitico. Quello del ventennio successivo si orientò a sinistra, e senza dubbio partecipò alle attività della sinistra, così come non è da escludersi che in molti paesi socialisti il jazz sia vagamente antisocialista ed immischiato in attività antisocialiste".[6] Si è riportata questa lunga citazione del solito Hobsbawm perché riassume quanto si è tentato di dire in questo paragrafo e si dibatterà più a lungo in seguito, ma anche per mostrare in concreto come ci si possa imbattere nel tema politico a partire da un argomento apparentemente neutro, al limite legato ad una analisi di tipo sociologico sulla composizione, sul numero sulla divisione in classi del pubblico del jazz. Hobsbawm tocca più volte i temi della critica, del pubblico, del rapporto tra jazz e politica; senza mai farne l'argomento centrale della sua indagine. Non solo; abbiamo parlato di LeRoi Jones e del suo Blues people: ebbene in questo testo che, secondo quanto recita il sottotitolo dell'edizione italiana, è una "sociologia dei negri americani attraverso l'evoluzione del jazz", si parla di pubblico, ma in una maniera del tutto differente. Jones è completamente assorbito dalla sua contrapposizione universo bianco-universo nero tanto che l'analisi sul pubblico viene piegata ai fini di una spiegazione e di un j'accuse al "sistema bianco" americano. Questo fa sì che un testo così importante, denso di contenuti e spunti critici innovativi sia lacunoso da questo punto di vista. Poi ci sono Carles e Comolli che insistono molto sul lato economico; e quindi il pubblico entra nell'analisi come "insieme di consumatori" che acquista i dischi, come massa che balla lo swing etc…L'interesse all'analisi del pubblico delle varie classi sociali che hanno seguito e seguono il jazz, invece è interessante nella misura in cui rivela degli aspetti della società nel suo insieme. Nella metà degli anni Settanta vedremo ad esempio un pubblico giovanile "contestatore" affollare le manifestazioni estive in Italia; urlare slogans politici, provocare incidenti e determinare così la chiusura di numerosi festivals. La radicalizzazione di molti musicisti è stata provocata anche dalla presenza di questo tipo di pubblico che voleva ascoltare dei "compagni" fare jazz e che contestava altri jazzisti dando loro del "fascista". Ecco uno dei risvolti possibili da elaborare nell'analisi del rapporto jazz-politica-pubblico.

In quegli anni dire in Italia che il jazz non è musica di consumo, ma la "nobile espressione di un intero popolo" era pacifico, mentre non lo era affatto per Leroi Jones in America [7]. Parlare invece di jazz rivoluzionario era una pratica malvista in entrambi i continenti. Non a caso i nomi dei critici che circolano quando si tratta di jazz politico sono in numero limitato. Crediamo si possa affermare che il serbatoio sociale per la critica jazz è la middle class borghese, senza voler caricare questo significato di una accezione negativa.

Pochi tra i critici borghesi sono stati vicini alle forme più acute di jazz politico.

Il pubblico del jazz dagli anni Quaranta è soprattutto frequentatore di clubs, dove si tengono concerti e jam sessions.

Recentemente una tesi ha affrontato il pubblico dei locali che suonano jazz con un approccio sociologico al tema, circoscrivendo la ricerca alla città di Roma e potendo così scandagliare l'argomento in profondità [8], con la somministrazione di test agli avventori, e indagare specialmente gli aspetti grazie ai quali il pubblico influenza direttamente la performance.

Il jazz del nuovo millennio vede aggiungersi il pubblico della "sala da concerto" a quello dei clubs, anche se sembra aver smarrito definitivamente le strade dell'impegno sociale e contemporaneamente perdura la crisi di ispirazione. Il già citato Gary Giddins, forse il più influente critico contemporaneo, si pone molti interrogativi sul futuro della musica jazz.

Sta diventando una musica di statue di marmo? E' ormai un genere pronto per essere ingessato nell'Accademia o nei finanziamenti pubblici delle rassegne estive sponsorizzate? Un segnale che questo sta capitando è dato dal restringimento della storia del jazz alle sue figure centrali, canonizzate dalle edizioni economiche che raccolgono i the best of, più venduti. E' la storia del jazz che può essere ridotta ad uno scaffale porta cd. Questo va a discapito dei minori, quelle figure che per i motivi più vari non sono assurte al ruolo di stelle. Curiosamente Giddins porta ad esempio lo stesso Frank Newton caro ad Hobsbawm [9].

Per lo studioso americano la situazione non è ancora così rigida. Tra le molte visioni che si possono avere del jazz un punto fermo deve essere considerato la libertà di espressione, che si annida nel poter fare cose diverse, non finanziate dallo stato e snobbate dal mercato discografico, magari consegnandosi alla marginalità economica pur di far salva la creatività.

Vedremo se il nuovo millennio si muoverà lungo questa linea ottimistica o darà ragione alle Cassandre.


[1] Malcom X, Autobiografia, a cura di R. Giammanco, Torino: Einaudi, 1967, pp. 42-43.

[2] Carles e Comolli, op. cit. pag.183.

[3] Simone de Beauvoir nella sua autobiografia spesso parla di jazz: si veda ad es. "La forza delle cose", Torino: Einaudi, 1978. pagg. 64, 159, 508, 548. Il rapporto tra jazz ed esistenzialismo è una ulteriore testimonianza che di questa musica si interessano intellettuali anti borghesi. Ecco un passo in cui il jazz viene utilizzato per screditare Sartre e la sua filosofia. Racconta De Beauvoir: "Sartre che amava la gioventù e il jazz, era seccato di ciò che si diceva degli esistenzialisti. Vagabondare, ballare, ascoltare Vian che suonava la tromba, che male c'era? Eppure era di loro che si servivano per screditarlo. Che fiducia si poteva riporre in un filosofo che spingeva alla dissolutezza?" Boris Vian, di professione ingegnere, aveva lasciato il lavoro per dedicarsi alle sue brucianti passioni: jazz e letteratura. "…Per uno che ami a fondo l'ambiente del jazz, frequentarlo significa rendersi liberi e non legarsi ad orari di lavoro." (G.A.Cibotto, introduzione a Non vorrei Crepare, Roma: Newton Compton, 1993, di Vian, trombettista, scittore e critico, che scrisse numerosi articoli sulle riviste specializzate (raccolti in Chroniques de jazz,1967 e ora anche tradotti in italiano) e suonò nei clubs parigini. Sartre ha parlato di jazz con acume e in modo scevro da luoghi comuni. Ne "La Nausea", ed. Mondadori, 1965, pp. 38-39.

[4] Nella sua autobiografia Mezzrow mostra di essere ossessionato dal colore della pelle: lui che era appartenente ad una famiglia benestante della borghesia ebrea sceglie di vivere nel ghetto per stare vicino ai neri, sposa una donna nera, diventa uno spacciatore e finisce anche in carcere dove naturalmente suona la nella banda jazz. Non è solo più ammirazione per lo spiccato senso del ritmo o del blues e neanche anticonformismo estremo: la sua considerazione nei confronti dei musicisti jazz come Sidney Bechet rasenta l'idolatria. Milton Mezzrow, Bernard Wolfe Ecco i blues, Milano: Longanesi, 1973.

[5] Eric j. Hobsbawm, op.cit. pag.358.

[6] Eric J. Hobsbawm, op. cit. pagg. 373-4.

[7] R.P. Jones, Jazz, Firenze, Vallecchi, 1973, p.4.

[8] Andrea Veneziani, Swingin' in Rome, dinamiche comunicative nei locali jazz di Roma, tesi di Laurea della Facoltà di Sociologia dell'Università La Sapienza di Roma, anno accademico 2001-2002, docente relatore Prof. Federico Del Sordo.

[9] Gary Giddins, Visions of jazz, New York, Oxford University Press, 1998, pp. 3-10.







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Data pubblicazione: 22/09/2006

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