Semantica del
jazz
di Franco Bergoglio
Per Massimo Mila
(Torino, 1910 - 26 dic 1988) nella musica non c'è null'altro da capire che
la musica stessa: la successione dei suoni nella loro logica continuità. "nell'espressione
artistica non esiste alcun rapporto di simbolo tra un contenuto e una forma distinti
l'uno dall'altra: non si esprime qualche cosa –e sia pure un valore spirituale-
per mezzo della musica, ma la musica è questo valore spirituale nella sua unica
veste ed espressione possibile. La musica non esprime che se stessa, anche se il
termine "espressione" ha appunto questo di pericoloso, che facilmente induce a pensare
di una duplicità della cosa da esprimere e del "mezzo" per esprimerla"
[1]. Seguendo l'idea
di Mila questo lavoro dovrebbe interrompersi ancora prima del suo inizio:
negata ogni dimensione ulteriore l'indagine del jazz dovrebbe terminare nel solo
discorso musicale. Da alcuni accenni già fatti è evidente che questo atteggiamento
non può che essere considerato riduttivo: nessun approccio serio ad una disciplina
artistica oggi nega l'influsso sociale e politico sulla personalità e sulle opere
di un artista. Dopo aver definito e circoscritto l'uso della nozione di politica
e di quello di Storia, per non lasciare nel lettore la malaugurata possibilità di
equivocare, riporterò una definizione di musica data da
Frederic
Rzewski (Westfield, Massachusetts
1938) che mi sembra perfettamente pertinente con gli intendimenti
di questa tesi. "Tutta la musica può essere considerata più o meno una forma
collettiva di espressione, sia come rappresentazione di un atteggiamento o di uno
stile tipico di una classe particolare in un momento storico definito, sia come
momento di un più ampio processo sociale che coinvolge e influenza larghi strati
della società in lunghi periodi di tempo"
[2].
Non
bisogna poi dimenticare che spesso è lo stesso compositore o esecutore che richiama
il pubblico all'attenzione su di un particolare tema sociale dando una chiave di
lettura alla sua musica con un titolo programmatico o con un discorso tenuto a margine
dell'esecuzione o in un'intervista o vestendo occasionalmente i panni di scrittore
e saggista, quando il soggetto in questione ha anche velleità letterarie.
Nel capitolo dedicato alle "lettere al direttore" di Musica jazz vedremo
spesso Arrigo Polillo (Pavullo
nel Frignano, Modena, 12 lug 1919 - 17 lug 1984) servirsi di questo
concetto espresso da Mila dell'asemanticità della musica, nel contestare
i lettori più politicizzati che si "ostinavano" a vedere nel jazz un discorso politico.
Questo dibattito, durato diversi anni, è parallelo allo sviluppo di tutto il jazz
"politicizzato" degli anni Sessanta, ma è anche una riproposizione in scala, di
tematiche affrontate contemporaneamente dalla filosofia. Certo la musica come tutte
le arti è una espressione compiuta e consapevole, il suo significato autoreferenziale
non necessita di ulteriori costruzioni a posteriori: né da parte dell'autore né
da parte della critica. Sartre
(Parigi, 21 giu 1905 - Parigi, 15
apr 1980) ha forse spiegato meglio di altri un approccio non solo
dominato da motivazioni estetiche nel giudicare una creazione artistica, o come
sottolinea Adorno, è riuscito a cogliere "il nesso tra l'autonomia di
un'opera e un volere che non è insito nell'opera stessa, ma è il suo gestus di fronte
alla realtà" [3].
Sartre rimarca il valore dell'opera come appello: "l'opera non ha fini,
in questo siamo d'accordo con Kant. Ma questo perché essa è un fine: La formula
kantiana dimentica l'appello che risuona dal fondo di ogni quadro, di ogni statua,
di ogni libro. Non è uno strumento la cui esistenza sia manifesta e il fine indeterminato:
si presenta come un compito da assolvere, si pone di primo acchito come un imperativo
categorico" [4].
E' Adorno a spiegare perché non si può parlare di incondizionata autonomia
di un'opera d'arte: "le opere d'arte opponendosi all'empiria, obbediscono alle
sue forze le quali nello stesso tempo respingono la figurazione spirituale, la fanno
ricadere sopra se stessa.
Non
c'è nessun contenuto, nessuna categoria formale d'una poesia che, per quanto trasformati
misteriosamente, per quanto nascosti a se stessi, non derivino dalla realtà empirica
da cui si sono staccati con un'aspra lotta"
[5].
L'arte è dunque un momento della vita sociale e come tale subisce ed è espressione
degli stessi condizionamenti che agiscono sul suo creatore. Quando Charles Mingus
incide Pithecanthropus erectus
nel 1956, compone una breve opera programmatica
sull'idea di evoluzione dell'uomo e –secondo l'autore- sul suo ineluttabile declino
a causa della cieca superbia che si è impadronita di lui con l'acquisizione della
posizione eretta.
L'opera è "violentemente espressionista", caratterizzata da "bruschi
cambi d'atmosfera", chiunque la senta non può non sentire questa energia negativa
che corre lungo tutta l'esecuzione ed esplode in improvvisi assieme "cacofonici"
[6]
dei musicisti che anticipano la violenza espressiva del free jazz
[7].
Mingus sentiva profondamente la rabbia per la sua condizione di nero, per
le persecuzioni razziali e i pregiudizi che circondavano lui e la sua gente. La
raison d'etre di quest'opera come di molte altre successive va ricercata
nella sua condizione di compositore e allo stesso tempo di nero
[8].
Quando il jazz, alla fine degli anni Cinquanta, diventò un veicolo di messaggi politici
diretti, fu chiaro che questa era l'unica espressione artistica della comunità afroamericana
in grado di veicolare valori politici in una espressione artistica compiuta. La
radicalizzazione della musica compie un percorso parallelo alla radicalizzazione
dei mezzi politici posti in essere dagli attivisti neri per le loro rivendicazioni.
Va detto che nel jazz non esistono molte prese di posizione esplicite sul
discorso della semanticità della musica, eppure quando la maggior parte di critici
afferma di voler analizzare le opere disgiunte dalle dichiarazioni politiche dei
loro autori, o ignora il messaggio esplicito di un brano musicale (vedi l'importanza
del titolo), risponde forse inconsapevolmente, ma in maniera precisa, al problema
sulla semanticità del discorso musicale. L'unica lodevole eccezione si trova in
Carles-Comolli, che sviluppando con coerenza la loro analisi sul rapporto
tra jazz e politica affrontano questo tema e ne danno una risposta interessante
sotto più aspetti. La citazione, molto lunga, va riportata per intero perché costituirà
la base interpretativa del capitolo dedicato alle "lettere al direttore",
dove avremo occasione di vedere all'opera gli errori della critica e le prese di
posizione del pubblico, a volte anche sopra le righe, inserite in un contesto vivo,
cioè mentre il problema del rapporto arte-politica si poneva nel nostro paese con
urgenza.
"La critica, quando cerca di giustificarsi, si preoccupa di porsi su un piano
strettamente musicale e allora esclude con cura dal suo discorso ogni considerazione
sulla razza dei musicisti, in nome dell'antirazzismo, atteggiamento invece che serve
a mascherare una antistoricità; ignora poi ogni sfumatura politica che traspare
dalle dichiarazioni dei musicisti e ogni riferimento esplicito (nei titoli e nei
richiami) all'impegno di certe opere: e ciò in nome del principio della separazione
tra i testi delle opere e l'interpretazione personale degli artisti dove solo i
primi sono passabili di analisi, mentre i loro autori sono, per l'ideologia borghese,
giudicati più o meno non responsabili. Non si dovrà parlare dunque che di musica
e non delle idee del musicista, tanto più che la musica di per sé non ha bisogno
di esprimere alcunchè… Così questi critici si impegnano solo sul terreno della musicologia
e in nome dei soli valori e verità musicali del jazz, sebbene in concreto anche
musicalmente il free jazz si discosta dal jazz precedente sotto molti aspetti, e
cioè in quanto investe la concezione del ritmo e dei temi, l'improvvisazione, la
struttura dei brani, l'utilizzazione degli strumenti…"
[9]
Carles e Comolli successivamente si impegnano in un lungo ragionamento sul
perché la critica abbia bocciato il free jazz. La sola chiosa che si può fare al
discorso dei due giornalisti francesi consiste nel chiedersi perché la critica che
in passato aveva già rifiutato il Be bop, solo con il free scopre il discorso della
semanticità della musica. La risposta è immediata: solo l'impegno politico dei jazzmen
degli anni sessanta pone il problema in questi termini: solo il loro violento attacco
al sistema scuote anche la critica dalle sue comode posizioni e la costringe ad
interrogarsi sul suo ruolo e sulla ideologia che la informa. L'idea di "bello artistico"
è profondamente convenzionale e radicata nella mentalità del critico come dell'ascoltatore.
Quando il jazzman politicizzato pone sul piatto della bilancia problemi come la
segregazione, l'odio, la violenza, l'orgoglio nero, ma lo fa in modo, per così dire
"civile", seguendo le regole della comunicazione artistica è accettato. Se invece
parla di rivoluzione utilizzando un mezzo espressivo a sua volta "rivoluzionato"
che offende il senso comune di bello "artistico" dell'ascoltatore, l'accettazione
è molto più ardua.
[1] Massimo Mila, "L'esperienza
musicale e l'estetica", p.62
[2] Frederic Rzewski, in "Musica e politica", op. cit., p.531.
[3] Theodor W. Adorno, "dialettica dell'impegno", tratta da: "Angelus Novus", n.11,
Bari: Dedalo, 1968. Traduzione di Alberto Frioli.
[4] Jean-Paul Sartre, "Che cos'è la letteratura?", op. cit. p.141.
[5] Adorno, "Dialettica dell'impegno", op. cit. p.39-40.
[6] Le espressioni virgolettate sono di Arrigo Polillo: "Jazz", Milano: Arnoldo
Mondadori Editore, acura di Franco Fayenz, 1997.
[7] Per una opinione concorde: Carles e Comolli, op. cit. p.235. Secondo i due critici
francesi in Mingus "la violenza, assunta a posizione di primo piano, struttura e
condiziona la musica e prepara così sia musicalmente che ideologicamente alcune
forme del free jazz".
[8] Sui motivi ispiratori del brano Pitencanthropus Erectus, vedi mia recensione
critica pubblicata il 24/2004/2001 su ciaojazz
[9] Carles e Comolli, op. cit. pp. 274-275.
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Data pubblicazione: 16/04/2006
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