Il Metasassofono
Introduzione ad una estetica jazz.
di Franco Bergoglio
Il momento d'attacco di un brano musicale apre uno spiraglio
sulla natura stessa dell'arte.
John Berger
Le copertine di alcuni dischi storici di
John Coltrane
o Miles Davis colpiscono per l'intensità emotiva che sanno suscitare.
"La fotografia riesce ad essere sensibile al suono come alla luce. Le migliori
fotografie di jazz sono cariche di una loro sonorità."
[1]
Così
il romanziere Geoff Dyer spiega il fascino emanato da queste immagini. L'iconografia
mostra sempre il musicista con il suo strumento, colto nell'istante più alto del
processo creativo. Il flusso della musica sembra farsi beffe della fissità del momento;
quello che rimane stampato sulla copertina non è il semplice ritratto di un jazzista
e del suo sassofono, ma immortalato per sempre è il gesto artistico dell'uomo che
produce arte. Il jazz è la musica dell'uomo solo con il suo strumento. Come se l'obiettivo
si insinuasse in un momento privato dell'artista, particolarmente delicato: nel
rapporto tra l'io e opera in corso. Il jazz è pura espressione dell'istante; arte
basata sull'individualità dell' improvvisatore/compositore istantaneo. Questa rapsodica
caratteristica del jazz manifesta l'influenza filosofica della cultura occidentale
e della componente romantica, ottocentesca della cultura europea.
Altri ragionamenti si potrebbero dipanare; questo è uno tra i possibili
approcci all'estetica del jazz.
L'estetica getta sul mondo uno sguardo con gli occhi dell'arte, ma società,
politica, filosofia o credenze religiose non possono essere considerate aliene in
questa panoramica; tantomeno in una espressione musicale radicata nel tessuto sociale
come è il jazz.
Radici
Nel momento in cui il jazz è esaltazione dell'individualità è anche riaffermazione
di appartenenza alle radici del gesto collettivo, retaggio tipicamente africano.
L'occidente si mescola a reminiscenze africane e suggestioni orientali. La stessa
improvvisazione, segno distintivo del jazz, è debitrice della duplice influenza,
africana ed europea. Il jazz è ibridazione, contaminazione e meticciato continuo.
Nel corso della sua storia ha attraversato diverse fasi evolutive che hanno visto
ora il predominio dell'individualità europeizzante del musicista di genio, ora delle
radici africane, con un accento più marcato sulla coralità nell'esecuzione. Questa
duplicità genera una contraddizione costante, ma feconda, come nota Giampiero Cane:
"conciliare la natura di pensiero collettivo e la soggettività del musicista
non è semplice e forse nemmeno possibile". [2]
Nella cultura africana non è presente la distinzione tra artista e pubblico, la
musica è partecipativa, tutti possono cantare o suonare e conoscere le forme tipiche
di una espressione musicale. Inoltre esiste un'altra importante distinzione tra
l'estetica africana e quella occidentale: per la prima l'arte è una parte della
vita e non può essere separata da essa, ha funzioni sociali, religiose che accompagnano
l'uomo durante il corso della giornata e dell'intera vita; nella cultura europea,
invece, c'è una tendenza a compartimentare le arti, a renderle autonome le une dalle
altre e infine a separarle dalla quotidianità. Ruolo e funzione sono diversificati
a seconda che si tratti di arte pura, "seria" o arte commerciale. Quest'ultima distinzione
è angusta quando si parla di jazz.
Le
sue radici affondano nella tradizione popolare, nel folclore nero (canto di lavoro
o gospel religioso), e nella musica bandistica di matrice europea. La stessa
pratica di rielaborare le melodie di successo per trasformarle in riusciti standards
è trasversale a tutto lo sviluppo del jazz e mostra un tenace attaccamento alla
cultura popolare, spesso in chiave ironica o parodistica.
Il
primo momento di rottura con la musica commerciale arriva con la fine della seconda
guerra mondiale e la nascita della prima avanguardia be bop ad opera di una ristretta
consorteria di artisti di colore. Charlie Parker, Dizzy Gillespie,
Thelonious Monk, Bud Powell suonano una musica ostica, di maggior
spessore tecnico, senza compromissioni con il pubblico. Proprio in questo momento
le carte dei critici si imbrogliano irrimediabilmente. Diviene impossibile usare
i rozzi schemi interpretativi degli anni Venti o Trenta, giudicare questa nuova
produzione con un epidermico criterio di bello - non bello, o fare come
Hugues Panassiè, che secondo il trombonista-critico Mike Zwerin scriveva
"bibbie" più che libri. L'America che vede la nascita del bop è diversa da quella
che si specchiava nello Swing. New York e la sua cultura di scrittori, pittori avanguardisti,
autori di teatro tra Broadway e la 52esima strada
[3].
Jack Kerouac in Mexico City
blues compone choruses (ritornelli), immaginando di essere un
sassofonista che suona un intervento solistico.[4]
Le immagini usate da Kerouac per evocare Parker, a volte ricordano un
mantra, dove il sax diventa "il sassofono perfetto in grado di "liberare
dalla sventura" il poeta e l'umanità intera"; in altri punti invece lo scrittore
mostra di aver compreso non solo l'importanza del fenomeno artistico, ma anche il
dramma esistenziale del musicista
[5]
e per un esperto come Franco Minganti il suono del sassofono viene innalzato
ad "immagine estetica e sacrale della purezza"
[6].
Il significato profondo del "genio" del bebop viene chiarita in un altro passo:
"Parker è lo spirito del disordine, e la funzione della mitologia che lo costituisce
in racconto è l'integrazione dell'ordine col caos, legittimazione dell'illecito
entro i limiti definiti da ciò che è lecito". Lasciando da parte il discorso
riguardante il lecito-illecito, che attiene più che altro alle ricostruzioni narrative
e affabulatorie della biografia dell'uomo Parker, e tornando al discorso
sul bebop come esperienza d'avanguardia, rubiamo una suggestione da Adorno,
quando afferma che "il compito attuale dell'arte è di introdurre caos nell'ordine"
[7].
Il bebop, per la prima volta dalla nascita del jazz, è in grado di elaborare risposte
più complesse a questioni di ordine estetico e filosofico, forse anche in modo inconsapevole
ma certamente non involontario. Il discorso verrà ripreso una ventina d'anni più
tardi dal free jazz che assocerà alla volontarietà del gesto la piena consapevolezza
dell'idea. Quando la Beat Generation interiorizza nella scrittura il concetto di
improvvisazione, mutuandolo dal bebop e facendone un criterio estetico-letterario
oltre che musicale, il jazz smette di essere solo musica e diventa una categoria
concettuale. Dopo il bebop, il sax alto suonato da Parker perde il suo valore
di strumento, per diventare un "metasassofono". Si fa simbolo, segno, portavoce
di una complessità semantica che prima non esisteva. Non più oggetto musicale, ma
medium dell'azione, rivendicativa e artistica assieme Con il "metasassofono" di
Parker inizia la stagione del riconoscimento della dignità artistica ai prodotti
culturali della comunità afroamericana. Anche se la piena consapevolezza di questa
conquista arriverà solo più tardi con il "risveglio" socio-culturale e politico
[8].
La drammaticità che immette nell'atto creativo è la cifra per una chiave
di lettura condivisa del sax di Charlie Parker.
La produzione poetica intorno al solo Parker è sterminata e va dagli esempi
più conosciuti della beat generation alla produzione contemporanea che investe la
pittura, il balletto, il cinema, il teatro e ogni genere di espressione artistica.
La figura parkeriana è ormai assurta ad un valore universale, la poesia che sgorga
dalla sua figura assume i significati più disparati e lontani tra loro.
Se uno specchio potesse parlare
Sarebbe ironico e umiliante
Ci ha visto cambiare, intristire e rallegrare
Al ritmo di un assolo di Charlie Parker
[9]
Cosa più di un frammento poetico come questo spiega in quale misura l'alto
di Parker vada oggi considerato un metasassofono, forse il primo? Quanti
artisti seguono i propositi di Sam Greenlee, poeta e romanziere di colore,
che ha dichiarato:
"Come
scrittore, io mi considero un musicista jazz, il cui strumento è una macchina da
scrivere" [10].
In quante introduzioni dallo scrivere bop
[11]
di Kerouac in avanti si spiega col jazz una poesia? Passando dagli intellettuali
beat alla società, il sassofono è anche la metafora dell'emancipazione di tutta
la comunità nera. Secondo
Ornette
Coleman: "le migliori formulazioni mai fatte dai neri sulla loro
anima sono state modulate al sax tenore"
[12].
A dispetto di questo, il sax è stato introdotto nel jazz dalle orchestre bianche
degli anni Venti: lo strumento più "nero" del jazz è stato inventato e suonato per
la prima volta da bianchi. Di nuovo è presente un abbraccio stretto tra culture,
una sorta di destino yin yang.
Il sassofono borghese
Il sax tenore nel tempo assume il ruolo di espressione pura della ricerca
interiore, come per
John Coltrane
o diviene portavoce della comunità nera, come
Archie Shepp.
Questi è un esempio emblematico: quando l'uomo smette di essere "politico", lo strumento
perde la sua voce caratteristica, quella teatrale e aggressiva che sembra sempre
presagire eventi rivoluzionari per ritornare ad un lirismo da sassofono borghese.
Il tenore agisce come mezzo insieme musicale e di lotta politica. Lo stesso avviene
secondo
Fredric
Jameson nella musica classica con un altro strumento: "In tutta la sua lunga
progressione ascendente il violino conserva questa stretta identificazione con l'emergere
della soggettività individuale"
[13].
Su questa falsariga Adorno ha osservato che "l'animato suono del violino"
è una delle grandi innovazioni dell'età cartesiana
[14].
Si possono validamente applicare queste parole al sassofono, per quanto concerne
la seconda metà del Novecento. Questa rivendicazione di centralità per il sassofono
sostiene Dyer- "reggerebbe a un più ampio confronto fra il tenore stesso
e tutti gli altri sistemi comunicativi, come la letteratura e la pittura"
[15].
La definizione di metasassofono non è arbitraria, perché lo strumento
- come stiamo tentando di dimostrare - perde il suo significato pratico e "oggettuale"
per farsi discorso e tramite di portati filosofici più ampi.
Il metasassofono è emblema della presa di coscienza di una soggettività
individuale dei neri dopo secoli di oppressione
[16].
La violenza fisica e psicologica della schiavitù prima, e della discriminazione
poi, hanno lasciato sulla personalità dei neri tracce non semplici da cancellare.
Gli afroamericani sono afflitti da un senso di impotenza e di inferiorità che non
riescono a scuotersi di dosso. Non hanno metabolizzato il periodo della schiavitù,
perché non sono stati capaci di sconfiggerlo; la sua abolizione non è scaturita
da una loro azione liberatrice, ma da una lotta intestina tra due fazioni di bianchi.
Se la liberazione non è avvenuta su un piano politico istituzionale, ciò deve avvenire
almeno nel campo culturale.
La
studiosa Angela Davis ha spiegato l'importanza dell'acquisizione della conoscenza
con l'esempio dello schiavo
Frederick
Douglass: "Egli partirà alla conquista del sapere proprio perché questo rende
l'uomo inadatto a servire. Su tutti i fronti, a tutti i livelli, il cammino verso
la libertà implica resistenza e rifiuto. L'acquisizione del sapere rende l'alienazione
cosciente" [17].
Douglass scopre che, mentre combatte la sua ignoranza, si oppone al padrone.
Le sue parole e quelle dei primi leaders neri (come William E. B. DuBois
o Marcus Garvey), hanno poco riscontro al di fuori della comunità nera: il
jazz invece è un linguaggio dalla vocazione universale che porta il messaggio artistico
dei neri oltre le barriere razziali in cui era costretta la gente di colore. Il
jazz è il primo tentativo di liberazione dalla sudditanza culturale e forse, ad
oggi, l'esempio più riuscito.
In questo percorso lungo un secolo, gli anni Sessanta sono i più forieri
di sassofonisti rivoluzionari, come di rivoluzionari tout cour. Si pensi
alla voce e alle musiche di Albert Ayler, dense di angosce e percorse da
strani presentimenti, o alla indomabile furia iconoclasta di Pharoah Sanders
nel periodo coltraniano, prima di acquisire quei suoi accenti mistici caratteristici
degli anni Settanta e che, se si vuole, ha un portato di valore generale, simboleggiando
la fuga dal politico al misticismo religioso, al privato interiore, che ha caratterizzato
molti reduci dalle esperienze di impegno politico passato il picco del coinvolgimento.
Nato dall'incontro-scontro di estetiche e di musiche diverse, il jazz
costituisce una concreta realizzazione di melting pot artistico. Il suo linguaggio
è universale, forse perché in esso si confondono elementi asiatici, africani, europei
ed arabi. Il messaggio di tolleranza e di accettazione che questa musica lancia
al "diverso" permette a chiunque di potersi esprimere nell'idioma jazzistico; sia
esso un occidentale bianco, un giapponese o un africano. Tutti questi fermenti che
corrono sotto la superficie del jazz, la sua poesia, il suo profondo significato
di libertà individuale, ne hanno sempre fatto una "festa" per i giovani bianchi:
intellettuali, scrittori, musicisti, poeti, filosofi. Chiunque in questo secolo
si sia trovato in contrapposizione alla cultura ufficiale è stato un potenziale
estimatore di jazz. Il giornalista Enrico Cogno, in
Jazz inchiesta: Italia,
illustra questo concetto riferendolo al trombettista torinese
Enrico Rava:
"Sei bravo perché hai saputo comprometterti sino al collo, lasciando le sabbie
mobili di una vischiosa borghesia torinese per immergerti nella vita del jazzman,
buttando fuori dalla tromba la repulsione per questo nostro modo di vivere, soffocato
dai non si può e non si deve della vita. Voglio dire, Rava, che essere un uomo del
jazz (e dire qualcosa nel mondo) oggi è possibile a Roma, Merano, Caserta, Vercelli
o dovevuoi"
[18].
La passione per il jazz non ammette compromessi con se stessi e il sistema,
è una scelta di vita che richiede dedizione assoluta. Un' opzione valida, non solo
per i jazzisti di colore o i poeti beat, ma possibile anche in Italia. L'aggettivo
cui si lega meglio la vicenda del jazz del Novecento è "anticonformista": perché
questa musica è naturalmente anticonformista. Ciò si manifesta sotto l'aspetto artistico,
nella lotta incessante contro una rigida codificazione normativa della musica, e
sotto il profilo dell' impegno politico, nella persistente scelta di esiliarsi dai
centri del potere istituzionale. Se il jazz si mantiene lontano dalle forme del
potere tuttavia non è da questi ignorato: pensiamo ai reiterati tentativi compiuti
per strumentalizzarlo o imbavagliarlo. Il jazz è sinonimo di libertà espressiva
e mentale. Non prende spesso posizione a favore di una idea politica (per questo
è scandaloso un musicista come
Archie Shepp,
che è stato per un periodo, gramscianamente, organico alla "classe"), ma sempre
parla della libertà, intesa come assoluto. Geoff Dyer ha scritto che "fra
il jazz e la lotta universale dell'uomo moderno corre un legame di stretta consanguineità"
[19].
Il jazz ha incrociato il marxismo, è stato art engagè, alla maniera degli
esistenzialisti sartriani, anche se più di uno studioso ha negato qualsivoglia significato
politico trincerandosi dietro la asemanticità della musica, l'art pour
l'art che non disturba le coscienze;
tanto
cara alla borghesia. Parallelo al free jazz politicamente impegnato degli
anni Sessanta c'è tutto un filone che si potrebbe definire di "jazz misticheggiante",
che elabora le forme della musica libera in modo diverso. Una analisi di questo
particolare stile di jazz potrebbe dirci qualcosa di ulteriormente valido sul legame
tra uomo afroamericano e religiosità, con implicazioni sociologiche e politiche
[20].
Parallelamente, c'è chi ha analizzato il jazz nei suoi rapporti con i meccanismi
del pensiero creativo, seguendo un'interpretazione di natura psicologica ugualmente
interessante. Enrico Cogno chiarisce il perché neri, ebrei ed italiani, sono stati
i gruppi razziali che hanno costituito il serbatoio di uomini del jazz. La risposta
avanzata (riprendendo Thorstein Veblen) è che sradicamento e fusione culturale
favoriscano e stimolino la creatività delle minoranze
[21].
La fioritura del jazz sudafricano sembrerebbe incarnare un caso
interessante e un unicum alternativo al consueto modello americano.
Dagli anni cinquanta è poi decollato l'uso del sassofono da night e spogliarello,
figlio del rhythm & blues e papà del rock 'n' roll. Negli anni Sessanta
flirta con samba e pop di classe. La storia del jazz è percorsa da
una sempiterna corrente che si suole definire mainstream e presenta una musica gradevole,
caratterizzata dall'uso di linguaggi tradizionali, che non devono in alcun modo
risultare nuovi all'ascoltatore. E' il tenore "borghese" in contrapposizione alla
categoria di sax rivoluzionario che abbiamo introdotto: comunque un elemento di
cui tenere conto, l'altra faccia della medaglia, quella che sul finire del secolo
si nutre di ricchi e spesso noiosi festival estivi, guadagna la "rispettabilità"
ed entra, tra l'altro, in "accademia".
Alla fin fine però bisogna concludere che Il jazz rimane il fenomeno
artistico del Novecento e con la sua capacità di essere polisemantico, risulta
un eccellente esempio di sincretismo lungo tutto il secolo. Ha navigato tra le antinomie
e le ideologie come il piroscafo Virginian, che trasporta l'omonimo pianista
del monologo di Baricco e della pellicola di Tornatore e unisce i
mondi, l'America con l'Europa solcando l'Atlantico, il brodo di coltura di questo
melting pot
[22].
Il jazz unisce e congiunge fin dalle radici etimologiche del suo nome,
che rimandano a illecite fornicazioni. Mescola le razze, le culture e le idee dietro
il meraviglioso concetto che l'imbastardimento produce il bello.
[1] Geoff Dyer, Natura morta con custodia di sax, Torino: Instar libri,1994,
p.223-224, alla nota 18 si legge: "Di fatto le immagini dei Jazzisti sono l'unica
testimonianza fotografica esistente di personaggi colti nel preciso momento creativo.(…)Certo,
abbiamo molte fotografie di compositori al pianoforte, di pittori al cavalletto
o scrittori al tavolino, ma quasi sempre sono ritratti in posa, con la macchina
da scrivere, il pennello o il piano come accessori di scena più che strumenti di
lavoro. La foto di un jazzista sorpreso nel pieno del suo slancio riesce ad avvicinarci
all'atto- o essenza vicaria- della creazione artistica".
[2] Giampiero Cane, Canto nero, Bologna: CLUEB, 1982, p.10.
[3] Jack Chambers, Milestones, the musical time of Miles Davis, Toronto, University
of Toronto Press, 1989, 90-92.
[4] The Beat Book: poesie e prose della beat Generation, a cura di Anne Waldman;
edizione italiana a cura di Luca Fontana. Milano: Il Saggiatore, 1996.
[5] Jack kerouac, Mexico City blues, Roma: Newton Compton, 1993. I choruses dedicati
a Charlie Parker sono il 239, il 240 e il 241. La letteratura su Parker è in continua
evoluzione; vedere almeno Il persecutore, di Julio Cortazar, (Torino, Einaudi, 1965).
Il nostro viene spesso accostato alla divinità (topos dell'universo poetico di Kerouac):
"Charlie Parker assomigliava a Buddha…" e ancora: "E l'espressione sul suo volto/era
calma, bella e profonda/come l'immagine di Buddha…"; il tema in vario modo si ripete
in molte pagine letterarie ispirate alla sua vita; dal grido scritto di Bird Lives!
Voluto da Ted Joans a Ishmael Reed (Mumbo Jumbo) del 1972: "…e ha dato al suo alto
la velocità degli dèi". Charlie Parker drogato, ubriaco e irresponsabile sembra
sacrificarsi accogliendo dentro di sé tutte le brutture del mondo per riscattare
la sua musica e permetterle di sgorgare pura ed incontaminata. La sua parabola esistenziale
lo avvicina ai martiri e ai profeti, ai predicatori e agli eretici arsi vivi. Cfr
su questi temi, l'articolo di Angelo Leonardi, "La Beat generation, il jazz, la
cultura nera", in Musica Jazz, n.10, 1976, pp23-26. Più recente è il saggio di Gianfranco
Salvatore, Charlie Parker e il mito afroamericano del volo, Roma-Viterbo, Stampa
Alternativa, 1992; pubblicato anche in estratto su Jazzit 25, novembre-dicembre
2004.
[6] Franco Minganti, "Fictional" Parker in: Xroads, letteratura,jazz, immaginario,
Imola: Bacchilega editore,1994. Lo stesso figura come postfazione a Il persecutore
di Cortàzar. Per una bibliografia completa degli scritti su Parker vedere nota conclusiva
al saggio dello stesso Minganti.
[7] T.W.Adorno, Minima moralia, Torino: Einaudi, 1954, p.213.
[8] Il Be Bop è momento seminale per l'acquisizione di una più matura consapevolezza
politica e sociale che inizierà a dare i suoi più primi frutti negli anni 60. Altri
però vedono questa connessione tra musica, letteratura e crescita spirituale della
minoranza afromericana in un periodo storico precedente: quello della Negro Renaissance.
cfr con: Ugo Rubeo, Dear John, Dear Coltrane: testo e performance nella poesia afroamericana,
contenuto in: Jazztoldtales, op.cit.. Rubeo parla di funzione di traino della musica
per tutta la cultura afroamericana già dalla fine degli anni 20 con: "…quella intensa
stagione di fioritura letteraria e artistica che va sotto il nome di Harlem Renaissance,
e che rappresenta un importante momento di scarto, una impennata della coscienza
della collettività afroamericana. Tratto non secondario di questo fenomeno è l'emergere
di una autonomia espressiva che proprio nel linguaggio jazz si compendia e che dall'ambito
musicale in cui originariamente si manifesta, in virtù della carica dirompente che
la caratterizza, immediatamente si allarga e si riversa in campi contigui o comunque
vicini." Il legame cui si riferisce Rubeo è quello tra blues e poesia nelle opere
di Langston Hughes.: Langston Hughes, Anch'io sono America, Milano: Edizioni Accademia,1971.
[9] Matteo Cardelli, Stelle filanti, Melegnano, Montedit, 2004.
[10] Sam Greenlee, Blues for an african princess, Chicago: Third World Press,
1971, presentazione in quarta di copertina.
[11] Jack Kerouac, Scrivere bop, Milano, Mondadori, 1996 e L'ultima parola. In
viaggio nel jazz. Nuoro, Il maestrale, 2003.
[12] A. B. Spellman, "Four lives in the bebop business", New York: Pantheon,
1966; p.102.
[13] Fredric Jameson, Marxismo e forma. Teorie dialettiche della letteratura
nel XX secolo, Napoli: Liguori, 1975, p.27.
[14] Theodor W. Adorno, Wagner, Mahler. Due studi, Torino: Einaudi, 1966, p.81.
[15] Geoff Dyer, op. cit., p.225.
[16] Stanley M. Elkins stabilisce un impressionante paragone tra schiavitù nera
e campo di concentramento nazista. Entrambe furono esperienze "totalizzanti" di
sfruttamento e persecuzione e, contemporaneamente un "perverso patriarcato". I prigionieri
dei campi di concentramento e quelli dei campi di lavoro furono trasformati in bambini
servili e dipendenti. Riportato da Charles E. Silberman, Crisi in bianco e nero,
Torino: Einaudi, 1965, pp.110-113. Cfr. con Stanley M. Elkins, Slavery: a problem
in american institutional and intellectual life, Chicago: University of Chicago
Press, 1959.
[17] Angela Davis, Nel ventre del mostro, Roma: Editori Riuniti, 1971, p.84.
Di Frederick Douglass si veda Autobiografia di uno schiavo, Roma: Savelli, 1978;
ripubblicata a cura di Bruno Maffi, Memorie di uno schiavo fuggiasco, Roma: Manifestolibri,
1992.
[18] Enrico Cogno, "Jazz inchiesta: Italia", Bologna: Cappelli, 1971, p.26.
[19] Geoff Dyer, op. cit., p.232.
[20] Stefano Arcangeli, Il discorso mistico. Evasione o sovversione?, in Musica
Jazz, n.6, 1975, pp.14-16. Riprende l'argomento anche Angelo Leonardi, Ma è veramente
misticismo?, ibidem, pp.18-19. Per Leonardi la ricerca di radici nelle filosofie
orientali, nell'Islam o in Africa, alla base del "jazz mistico", è un fenomeno politico.
"E' chiaro che il popolo nero ricerca il proprio passato non in terra americana,
ma nella patria d'origine, nel luogo in cui viveva libero; ciò appare nella ricerca
dell'Africa, dell'Islam e via via si trasfigura nell'arte musicale in simboli che
assumono una dimensione più ampia: India, Oriente, tutto ciò che è contro (come
concezione esistenziale) alla realtà americana".
[21] Enrico Cogno, Un'ipotesi sulla psicologia della creatività nel jazz, in
Musica Jazz, n.7, 1976, pp.12-13.
[22] Franco Minganti, L'oltre jazz di Novecento: il mito del mondo atlantico
dell'emigrazione, Bollettino '900, n. 16-17 dicembre, http://www.comune.bologna.it/bologna/boll900/html
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Data pubblicazione: 04/03/2006
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