Gent Jazz Festival 2009
Gent (Belgio), 8 - 19 luglio 2009
di Antonio Terzo
photo by Jos L.Knaepen - Bruno Bollaert
(from Gent Jazz Archive)
Nato con l'intento di promuovere il jazz, avendo un occhio di riguardo
per quello nazionale, il Gent Jazz Festival, dal nome nella cittadina a pochi chilometri
da Bruxelles, oggi è una delle rassegne più seguite e frequentate dell'Europa estiva.
Suddiviso in due tranche, la prima settimana dedicata al jazz e la seconda
al pop ed affini, il suo programma presenta ben 3-4 concerti giornalieri, tenuti
all'interno del complesso museale-universitario del Bijloke Centre, in un'area allestita
per intrattenere e fornire ogni assistenza e ristoro ai visitatori, da uno stand
ufficiale dove è possibile acquistare i Cd degli artisti ospiti, fino ai chioschi
di gastronomia e bevande.
BB.King
photo by Jos L.Knaepen
Dopo Bender Benjax, l'accoppiata China
Moses e Raphaël Lemonnier, e l'apertura in grande spolvero di B. B.
King, che mercoledì 8 luglio ha attirato circa
4000 persone, il seguente giovedì s'è tenuto l'"International Composition Contest",
concorso in cui i candidati selezionati si sono affrontati a colpi di bigband, conducendo
la Brussels Jazz Orchestra, fiore all'occhiello del jazz nazionale, nell'esecuzione
di proprie partiture originali: la giuria ha decretato vincitrice la composizione
della nipponica Masuda Sakiko (che ha avuto la meglio sul finlandese Veli-Matti
Halkosalmin ed i tedeschi Jan Torkewitz e Nicolas Schriefer). Quindi il Fred
Hersch Trio + 2, ossia Fred Hersch al piano, John Hébert al
contrabbasso, Nasheet Waits alla batteria, e due fiati d'eccezione, Tony
Malaby al sax e Ralph Alessi alla tromba. Un concerto intriso di sensibilità
e ritmo, grazie anche ai timbri avvolgenti dei due ospiti: un brano per tutti, il
bis con Down Home, principiata da una garbata introduzione in piano solo,
cui seguono i puntuali interventi dei solisti. Un'ottima prova per il pianista,
dopo il lungo periodo di inattività dovuto al coma che lo ha tenuto in ospedale
per gran parte del 2008.
Lo
spettacolo "Sing the Truth" è un omaggio all'indimenticata
Nina Simone,
vocalist che al pari di altre grandi visse alterne fortune e sofferenze. Condotto
da Al Shackman, per 41 anni compagno di tour della Simone e qui nella veste
di speaker, chitarrista, vibrafonista e armonicista, nonché direttore della Original
Nina Simone Band (con musicisti che hanno militato a lungo con la cantante),
il tributo ha visto protagoniste quattro voci di grande intensità: Lizz Wright,
Dianne Reeves,
Angelique Kidjo e Simone, la figlia di Nina. Fra i brani eseguiti,
tutti grandi successi della Simone, l'apertura con I Love
You Porgy è affidata alla sanguigna voce della Wright, molto suadente,
mentre l'energica Simone esegue I Hold No Grudge,
con gentile assolo del vibrafono. La carica del ritmo africano viene da Angelique
Kidjo che sui passi di una danza pestante interpreta See-Line
Woman per poi calarsi in una particolare versione di
Ne Me Quitte Pas con inciso in salsa caraibica.
Quindi Dianne Reeves,
timbro caldo e voce più esperta che estesa, nella divertente
Be My Husband, con inizio a cappella. Nelle brevi
pause Shackman percorre a grandi linee le tappe fondamentali della vita della Simone,
sempre bene accolta in Olanda, Francia e Belgio. Prosegue di nuovo la Wright con
Images, anch'essa a cappella, ed una struggente
Lilac Wine, quindi Simone con altri due cavalli
di battaglia della madre, una sentita Keeper of the Flame,
con l'armonica di Shackman, e la sensuale Feeling Good,
seguita dalla Kidjo con My Babe Just Cares for Me,
e quindi la Reeves con To Be Young,
Gifted & Black e I
Put a Spell on You. Inevitabile il tripudio finale in onore di
Nina Simone
che porta le quattro interpreti ad eseguire insieme Four
Women, con tanto di flessuose coreografie, ed infine
Suzanne. Uno spettacolo ben bilanciato, senza celebrazioni
emozionali e con la musica al centro, nel ricordo di un'artista che a lungo è stata
sottostimata.
La giornata successiva è aperta da un giovane gruppo belga, Aka Moon,
al secolo Fabrizio Cassol (sax), Michel Hadzigeorgiou (basso elettrico),
Stéphane Galland (batteria), i quali danno vita ad una performance molto
interessante, ricca di groove e di tantissime idee. Il suono del contralto di Cassol
è aspro e brillante, sorretto dalle rockeggianti batterie di Galland e disteso sul
corrosivo basso del greco-belga Hadzigeorgiou, che fra le sue muse ispiratrici senz'altro
annovera Jaco Pastorius
(di cui sfoggia la tracolla). È il contraltista a dare il passo con le sue graffianti
improvvisazioni ed una notevole dotazione tecnica da cui sortiscono armonici e suoni
in doppie posizioni, mai fini a sé stessi e sempre messi a disposizione di una musicalissima
inventiva. La radice rock del gruppo lascia trasparire in qualche brano anche delle
accattivanti inflessioni prog adagiate su tempi irregolari, mentre l'elevata
intesa permette ai tre pause improvvise, stacchi ed unisoni come fosse un'orchestra.
Non è da meno il bassista che modella un appassionato assolo multistratificato sui
suoi stessi loops al freetless. Ad inquadrare il tutto, gli impulsi energici e spingenti
di Galland, per un risultato di grande presa sul pubblico.
Randy Weston - McCoy Tyner
photo by Jos L.Knaepen
Di straordinario trasporto il concerto di Randy Weston con "African
Rhythms", sorprendente incastro fra i tasti delicati e poetici ma anche battenti
ed incisivi del pianista da una parte, ed i flussi ritmici di Neil Clarke
alle percussioni e l'incredibile Alex Blake al contrabbasso, dall'altra.
Blake suona lo strumento come devono aver fatto i primi schiavi africani ritrovandoselo
fra le mani, tirandone fuori note ritmiche di grande energia, con una cavata potente
e rapida: poderosi i colpi sferrati sul manico, dita forti che attraversano le grosse
corde come fossero quelle di nylon di una chitarra classica, cavandone pedali ed
accordi modali, ma anche fraseggi pizzicati di indicibile bellezza. Ancestrali le
sonorità di Clarke, tamburello in levare al piede, e cadenzate invocazioni vocali.
Con siffatti musicisti, Randy Weston ha eseguito alcuni dei più significativi brani
che hanno costruito la sua carriera: Little Niles, composta per il primo
compleanno del figlio, una ballad blues in tre movimenti, con scambi percussivi
fra i tre strumenti ognuno a riprendere le frasi dell'altro;
Berkshire Blues, «omaggio alla musica più importante
che il XX secolo ha conosciuto», derivata dai ritmi dell'Africa, nella quale
Weston sembra condensare con il suo tocco l'istante in cui dal blues si forma il
jazz; quindi African Sunrise di Dizzy Gillespie,
con citazioni da Pink Panther nell'assolo del contrabbasso; e
Blue Moses, uno spiritual africano con iniziale
archetto e call and response con il pubblico, che alla fine richiede a gran
voce ancora un brano.
Altra figura leggendaria del jazz si materializza sul palco per l'ultimo
spettacolo del giorno, il pianista
McCoy Tyner,
coadiuvato da due ospiti più che speciali e di grande levatura: la chitarra di
Bill Frisell
– protagonista dell'ultima uscita discografica di Tyner, insieme ai colleghi Marc
Ribot e John Scofield
ed al banjoista Béla Fleck – ed il sax di Gary Bartz. Il trio apre
eseguendo Mellow Minor, con impeccabile assolo
di Gerald Cannon al contrabbasso, ed il vibrante ride di Eric
Kamau Gravatt posizionato quasi verticalmente, quindi l'ingresso degli ospiti
su Blues On The Corner, un bop spingente scritto
da Tyner nella sua città natale, qui arricchito dagli inserimenti di Frisell e Bartz
e da un assolo del contrabbasso alla Modern Jazz Quartet. Elegante il piano
di Tyner in Ballad for Aisha, dove si impone
il contralto di Bartz, mentre il gruppo si scatena sulla coltraniana Moment Notice,
anche se non riesce a venir fuori dal trip dei chorus presi da ogni
singolo solista. Incantevole il tocco del pianista di Philadelphia sulle ballad,
e non a caso il suo richiestissimo bis è una versione solitaria di
I Should Care, per un grande jazz a cui ha ancora
tante emozioni da regalare.
È invece il jazz europeo ad avviare la tornata di sabato 11, con il Free
Desmyter Quartet: titolare al piano, John Ruocco al sax tenore e clarinetto,
Manolo Cabras al contrabbasso e Marek Patrman alla batteria. Un jazz
quasi cerebrale e quindi non sempre d'immediata fruibilità, dove agli spasmi della
ricerca estemporanea, effettuata anche sulla timbrica, si alternano intrepidi tragitti
in solitudine con atmosfere gravide di tensione, e rivolgimenti tesi a scavare nelle
pieghe architettoniche delle composizioni di Desmyter. I pezzi sono tratti dall'ultimo
Cd del quartetto, "Something to Share": molto particolare
Elegy, iniziata in trio pianoless guidato dal sax
di Ruocco, con equilibri armonici intessuti dal contrabbasso fino al proprio assolo,
su cui torna a suonare il piano, immaginifico. Ai momenti in gruppo, caratterizzati
da buon interplay, come in Doo the Bop (I Saw an Alien),
seguono quelli in assoluta libertà dei singoli musicisti, come nell'intro del piano
preparato di Desmyter, o nell'intermezzo impressionistico caratterizzato dalla voce
del clarinetto, legnoso eppure flessibile. Un gruppo che grazie all'esperienza del
sassofonista e alla formazione classica del pianista belga, si muove bene fra impennate
bop ed uno stile libero di derivazione colta.
Non
sembrerebbe dalla disinvoltura con la quale tiene il palco, ma il trombettista
Christian Scott, titolare del gruppo esibitosi in prima serata, ha
soltanto 26 anni. Forse un po' appariscente, con il collo avvolto dall'ampio bavero
bianco della camicia, il giovane discepolo del jazz, già a fianco di
McCoy Tyner,
Nnenna Freelon,
lo zio Donald Harrison Jr. e perfino Prince, schiera una band di altrettanto validi
e giovani musicisti – Milton Fletcher (piano acustico ed elettrico), Matthew
Stevens (chitarra), Keith Kristopher Funn (contrabbasso) e il mancino
Jamire Williams (batteria) – capaci di assecondarne guizzi ed umori.
Scott si fa apprezzare per il suono squillante in grado di afferrare nitidi ed argentini
acuti, pure di una certa potenza: un giro orecchiabile, partito dal piano stoppato
ed incentrato su di un pedale di due accordi, diventa The
Eraser di Thom Yorke dei Radiohead, condotto con tromba sordinata che
sull'inciso si fa insufflata. In onore di un amico recluso nelle prigioni dell'Angola
e contro ogni schiavitù Angola, Luoisiana (and the 13th
Amendment), dove dopo il ruminante fraseggio della chitarra di Stevens,
la tromba di Scott, prima triste e "blanchardiana", si lascia andare ad arrampicate
di ripida bellezza, con un suono tornito ed avvolgente. Rumor è una composizione
fluttuante in 5/4 di Matthew Stevens, leggero sulle corde della sua chitarra e sui
tasti decisi del piano, cui segue Eye of the Hurricane,
di
Herbie Hancock, con tromba che ricarica le idee ascoltando la chitarra di
cui spesso ricalca i percorsi. Fletcher si mostra in parte anche sulla tastiera
elettrica con Rewind That, dall'album che è
valso al trombettista di New Orleans la nomination ai Grammy: aperta e pungente
la tromba, consequenziale la chitarra, ben figurato anche l'exploit solistico
del contrabbasso che trasuda grinta ad ogni nota, con tecnica sopraffina. Una giovane
band che mescola bene tradizione e nuove sonorità.
Ultimo spettacolo della serata quello del solito caro ed inossidabile
George Benson, che fra un fraseggio jazz alla sua pulitissima chitarra,
uno scat, un giro funky ed una song sentimentale è riuscito ancora una volta ad
incantare il pubblico, venuto numeroso ad omaggiarlo. Una band collaudatissima,
unico neo soltanto i suoni ormai obsoleti di brass e violini alle tastiere, il chitarrista
ha dato fondo, oltre al suo vasto repertorio, anche a tutta la sua esperienza di
intrattenitore, jazzista e cantante. Fra i brani, da sottolineare una sentita
Nature Boy, forse un po' troppo melensa, e vari
cavalli di battaglia, come Nothing's Gonna Change (My Love
for You) e In Your Eyes. Oltre a
qualche pezzo dall'ultimo album, Benson ha ovviamente dato sfogo al suo fraseggio
alla chitarra combinato con lo scat vocale, passando poi a
Turn Your Love Around,
Lady Love Me (One More Time), e terminando, quando
ormai la platea ballava tutta in piedi, con Give me the Night
e l'immancabile On Broadway, cantata insieme
al pubblico.
Yaron Herman - Nathalie Loriers
photo by Bruno Bollaert
L'ultima giornata della tranche jazzistica parte con il trio di
Yaron Herman, pianista d'origine israeliana dal tocco moderno e dall'acuta
mente musicale, spalleggiato da Simon Tailleu al contrabbasso e da
Gerald Cleaver alla batteria. La rendition di Heart-Shaped
Box dei Nirvana (dal disco "In Utero"), avviata dall'unisono fra il piano
ed una sorta di piccolo glockenspiel poggiato su di esso, rivela una musicalità
attuale. Non mancano riferimenti classicistici (del resto presenti nell'ultimo Cd
"Muse" con un Preludio di Alexander Scriabine), né spazi per un linguaggio più jazzistico
in bruciante hard-bop, dove le poliritmie rivelano la grande intesa fra piano e
batteria. Armonici precisi nell'intro del contrabbasso da cui scaturisce il disegno
di Paluzski, dall'album "A Time for Everyhing",
con assolo del piano mosso ed ondulato, ma senza increspature, ed uno spumeggiante
Cleaver, quindi il delizioso 3/4 di Layla Layla
cui segue un'esecuzione molto sentita di Hatikva (Hope),
inno d'Israele che nelle mani del trio si trasforma in una larga e raccolta ballad,
mentre la conclusione è lasciata ad una originalissima versione di
Toxic (Britney Spears!), principiata da un'insistita
ed ovattata nota del piano stoppata da dentro, in cui vengono incastonati perfino
richiami dalla prokofieviana "Pierino e il Lupo". Un set scintillante che mette
in luce il talento di un ottimo pianista e del suo gruppo e che festeggia il compleanno
del titolare.
Concerto di presentazione del Cd "Moments d'Eternité" per Nathalie
Loriers, scortata dal suo trio con la partecipazione di Bert Joris
e lo String Quartet. Un mix ben studiato fra composizioni dal sapore classico
moderno ed improvvisazione in linguaggio jazz, proprio grazie alla tromba di Joris.
Il disco è eseguito praticamente per intero, permettendo alla platea di gustarne
le sensazioni dal vivo – seppure qualche brano risulti enfatico per un pubblico
composito – partendo da Intuitions and Illusions,
poi l'eponima Moments d'Eternité, con toccante
unisono fra flicorno e violino, quindi il movimentato Neige
in 5/4 (già contenuto nel precedente album "L'Arbre Pleure" che vedeva la partecipazione
del clarinetto di
Gianluigi
Trovesi) dove emergono l'assolo del contrabbasso ed i fendenti della
tromba di Joris; e ancora Mémoire d'Ô con tromba
assorta, Danse Éternelle per la combinazione
fra Joris e gli archi, e fra tutti l'affascinante Obsessions,
composizione anch'essa già pubblicata ma qui articolata negli arrangiamenti del
trombettista, in cui si distingue il piano contrappuntato dal pizzicato degli archi;
per finire con il romantico Prelude to Paradise,
e la chiusura con la splendida 400 Million Years Ago,
che si potrebbe definire un bop orchestrale. Tutto perfetto, forse anche troppo,
e se non fosse per le digressioni di Joris, mancherebbe infatti il brivido del rischio,
il fascino della nota fuori posto.
Brad Mehldau - Richard Galliano
photo by Bruno Bollaert
Un
Brad Mehldau in stato di grazia quello del concerto serale,
siede al piano e fa subito partire Got me wrong
di Alice in Chains, rivisitata quasi in chiave modale su una progressione in tre
accordi, che cattura immediatamente l'attenzione del numeroso pubblico. Non a caso
quello del giovane pianista americano è uno dei più affermati piano trio del jazz
internazionale, con una lunga storia alle spalle e tante incisioni, fra cui i celebri live al Vanguard di New York. A parte un pezzo ancora da battezzare, nella
variegata set-list risaltano Brownie Speaks
di Clifford Brown, con ritmo appena latin che sprigiona un notevole groove, e la
rollinsiana Airegin. L'affiatamento è di quelli
che non hanno bisogno neppure di occhiate, basta un fraseggio del leader, o un rapido
passaggio al contrabbasso del duttile Larry Grenadier, ancora un accento
volpino del poliedrico Jeff Ballard e la musica raggiunge livelli
apicali. Proprio durante un suo break il batterista incorre in un inconveniente
con il pedale della cassa, che riesce a sistemare mantenendo il tempo con la bacchetta
sinistra sul charleston. La presentazione dei brani e dei compagni è in olandese,
lingua che il nostro conosce per ragioni familiari, sposato con la cantante olandese
Fleurine. Il concerto si chiude con My Ship,
di Kurt Weill dal musical "Lady in the Dark", con pennellate a tratti debussyiane
cariche di pathos, e poi l'acclamato bis.
L'ultimo concerto jazz della manifestazione è quello del fisarmonicista e
bandoneonista
Richard Galliano,
supportato da un trio di tutto rispetto con Gonzalo Rubalcaba al piano,
Richard Bona al basso e Clarence Penn alla batteria:
tre giovani musicisti provenienti da aree diverse del globo – cubano il primo, camerunense
il secondo, di Detroit il terzo – ciascuno dei quali ha pure una propria carriera
da leader. Il programma riprende per lo più il recente disco "Love Day" (con
Charlie
Haden e Mino Cinelu), del quale ripropone alcuni pezzi, avvalendosi dei
bassi freetless e a cinque corde di Bona e della sua eterea vocalità, nonché delle
sfumature percussionistiche di Penn: in particolare si evidenziano
Serenité, con Galliano all'accordina, strumento
di cui è raffinato interprete, simile ad una grande armonica ma polifonico e con
più di tre ottave d'estensione, per una melodia delicata raddoppiata dalla voce
di Bona, che Rubalcaba impreziosisce con rifiniti ricami alla tastiera;
Love Day, un blues lento e circolare, sottolineato
dal finale di Galliano sullo sfiato del mantice; ed Aria, commistione di
musica rinascimentale con armonie folk-popolari, dove si pone in evidenza Rubalcaba.
Un gruppo certamente rodato, che avrebbe forse potuto dare anche di più ma che chiude
in maniera soddisfacente questa VIII edizione del Gent Jazz Festival.
27/08/2011 | Umbria Jazz 2011: "I jazzisti italiani hanno reso omaggio alla celebrazione dei 150 anni dall'Unità di Italia eseguendo e reinterpretando l'Inno di Mameli che a seconda dei musicisti è stato reso malinconico e intenso, inconsueto, giocoso, dissacrante, swingante con armonizzazione libera, in "crescendo" drammatico, in forma iniziale d'intensa "ballad", in fascinosa progressione dinamica da "sospesa" a frenetica e swingante, jazzistico allo stato puro, destrutturato...Speriamo che questi "Inni nazionali in Jazz" siano pubblicati e non rimangano celati perchè vale davvero la pena ascoltarli e riascoltarli." (di Daniela Floris, foto di Daniela Crevena) |
18/08/2011 | Gent Jazz Festival - X edizione: Dieci candeline per il Gent Jazz Festival, la rassegna jazzistica che si tiene nel ridente borgo medievale a meno di 60Km da Bruxelles, in Belgio, nella sede rinnovata del Bijloke Music Centre. Michel Portal, Sonny Rollins, Al Foster, Dave Holland, Al Di Meola, B.B. King, Terence Blanchard, Chick Corea...Questa decima edizione conferma il Gent Jazz come festival che, pur muovendosi nel contesto del jazz americano ed internazionale, riesce a coglierne le molteplici sfaccettature, proponendo i migliori nomi presenti sulla scena. (Antonio Terzo) |
15/08/2010 | Südtirol Jazz Festival Altoadige: "Il festival altoatesino prosegue nella sua tendenza all'ampliamento territoriale e quest'anno, oltre al capoluogo Bolzano, ha portato le note del jazz in rifugi e cantine, nelle banche, a Bressanone, Brunico, Merano e in Val Venosta. Uno dei maggiori pregi di questa mastodontica iniziativa, che coinvolge in dieci intense giornate centinaia di artisti, è quello, importantissimo, di far conoscere in Italia nuovi talenti europei. La posizione di frontiera e il bilinguismo rendono l'Altoadige il luogo ideale per svolgere questo fondamentale servizio..." (Vincenzo Fugaldi) |
28/11/2009 | Venezia Jazz Festival 2009: Ben Allison Quartet, Fabrizio Sotti trio, Giovanni Guidi Quartet, Wynton Marsalis e Jazz at Lincoln Center Orchestra, Richard Galliano All Star Band, Charles Lloyd Quartet, GNU Quartet, Trio Madeira Brasil, Paolo Conte e l'Orchestra Sinfonica di Venezia, diretta da Bruno Fontaine, Musica senza solfiti del Sigurt�-Casagrande Duo...(Giovanni Greto) |
14/11/2009 | Intervista a Richard Galliano : "...utilizzare vari linguaggi è stata una necessità più che una scelta. Un fisarmonicista non può tagliare le sue radici. La fisarmonica non è mai servita a tracciare nuove strade musicali. Noi siamo necessariamente immersi nel nostro passato. E il nostro passato è quello di tantissimi musicisti di strada, gente che suonava ai balli popolari e nelle ricorrenze di paese. La fisarmonica, un organo portatile, non può prescindere da questa sua storia umile." (Marco Buttafuoco) |
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| Bill Frisell ~ Ron Carter Available @ www.Bill Frisell.com ~ July 1, 2002 Montreal, Quebec, with Greg Liesz, Billy Drewes,, Curtis Fowlkes, Ron Miles,, David Piltch, Matt Cham... inserito il 29/04/2008 da bathoshue - visualizzazioni: 4001 |
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Data pubblicazione: 26/07/2009
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