Il giro d'Italia a bordo di un disco:
Gianni Barone, NAU Records
maggio 2014
di Alceste Ayroldi
Questa conversazione con Gianni Barone, patron della
Nau Records,
è avvenuta in occasione della celebrazione dell'International Jazz Day 2014 all'interno
della rassegna Castle's Jazz, con la direzione artistica di Joanna Miro,
tenutasi nel meraviglioso castello di
Semivicoli
a Casacanditella, provincia di Chieti.
La ghiotta occasione, quella di parlare del mercato discografico, dello stato di
salute del jazz in Italia e di altre problematiche connesse, ha ispirato un viaggio
all'interno di questo sistema che, da diversi anni, soffre ancor più della crisi
che avvolge l'intero sistema (discografico e non). E questa è la prima tappa del
giro d'Italia su di un disco…
Per molti il jazz è da inquadrarsi
in un determinato range di musiche che vanno dallo swing al bebop, dal cool all'hard
bop, al free jazz e, non per tutti, alla fusion. Non ti sembra che tutto questo
possa stare stretto al jazz stesso?
Si certamente, anche se credo che questo sia un problema prettamente "accademico"
e, in parte, italiano. Il jazz come genere musicale non si presta ad essere "rinchiuso"
in uno spazio definito, è esattamente il contrario: la sua capacità di contaminare
e farsi contaminare, quindi di evolversi, è nella sua natura stessa, una caratteristica
che nessuno può negare essere un fatto storico incontestabile. In generale la musica
è un linguaggio e come tale è in continua evoluzione, cercare di fermare questo
divenire è impossibile. Il limite spesso è di chi ascolta, di chi suona, di chi
scrive di musica e di chi la programma. Ma è un limite strettamente soggettivo che
ha molto poco a che fare con l'essenza di questo straordinario genere musicale.
Non essendo uno storico o uno studioso del genere ma un produttore discografico,
sono interessato all'attualità e non al passato o al mainstream.
Penso che la migliore definizione di jazz l'abbia data
Lou Reed: «Se ha più di tre accordi è jazz!» Che ne pensi?
Io aggiungerei: meglio se sono non compatibili tra loro.
La tua casa discografica nasce sotto un'altra stella e
con ben altri propositi. Quali sono gli obiettivi e, ancor prima, quali le motivazioni
che ti hanno spinto a iniziare questa avventura?
La Nau Records
l'ho fondata all'indomani di una produzione che feci nel
2010 a Parigi: un progetto pluridisciplinare (musica + video installazione)
avente come oggetto l'opera artistica del compositore lirico Francesco Cilea.
La motivazione principale è stata quella di dare vita ad un progetto imprenditoriale
e culturale in grado di affiancare, sostenere e produrre nuove idee nel campo della
musica improvvisata e contemporanea. L'obiettivo a breve, per quanto ambizioso,
è quello di far diventare la
Nau Records
un punto di riferimento per le nuove generazioni di musicisti, di esempio per coloro
che intendano produrre seriamente musica, oltre che contribuire alla nascita di
un nuovo pubblico.
Immagino che di proposte te ne arrivino a bizzeffe. Come
selezioni gli artisti, in base a quali criteri?
Riceviamo tantissima musica, spesso sono progetti molto interessanti. Oltre questo
facciamo scouting alla vecchia maniera, giriamo continuamente alla ricerca di talenti
in Italia e nel resto d'Europa. E poi ci sono i critici musicali, quelli che stimo
particolarmente, capita che mi segnalino dei musicisti validi e in linea con la
nostra ricerca. I criteri di selezione sono complessi e riguardano non solo la musica
ma anche il carattere del musicista.
Come giudichi lo stato di salute del jazz attualmente?
Sia quello italiano, che internazionale?
In Italia ottimo dal punto di vista artistico: le nuove generazioni di musicisti
sono eccellenti tecnicamente, c'è tanto materiale umano su cui è possibile lavorare,
il problema è che spesso hanno troppa fretta, rincorrono il successo e il denaro
con troppa impetuosità e di sovente non raggiungono il primo e non ottengono il
secondo. Il successo e il denaro sono una conseguenza della carriera di un artista,
di ciò che è e rappresenta, non il fine. L'egocentrismo e l'autoreferenzialità sono
i mali maggiori. Per quanto riguarda la parte strutturale e infrastrutturale, ovvero
quel complesso sistema economico e organizzativo che permette al jazz di esprimersi
e circolare, sarebbero da rivedere molte cose: pochi club e molti "bottegai" che
pagano poche decine di euro per una gig, senza distinguere tra uno studente del
conservatorio ed un professionista che ha già pubblicato dei progetti. Pochi giornalisti
specializzati e pochi critici autorevoli, molti stentano a scrivere correttamente
l'italiano. Etichette discografiche che non producono ma "stampano" dischi che rivendono
ai musicisti, Festival's diretti da musicisti che si scambiano tra di loro le partecipazioni,
e potrei continuare per ore. Insomma, il jazz allo stato attuale è da "sfigati"
tranne che per una elite, malgrado ciò è indubbio che le potenzialità siano enormi.
Per il resto: mi interessa poco la scena americana, seguo molto quella europea che,
pur presentando diverse similitudini con la nostra, ha una grande autonomia espressiva
e innovativa, oltre a risultare in alcuni casi più efficiente di quella italiana
che reputo comunque tra le migliori a livello mondiale.
Parliamo un po' dell'Italia. In un saggio a mia firma pubblicato
da Andy Magazine, una parte occupava l'argomento: Come e cosa suona il jazz italiano.
Giro a te questa domanda…
Essendo tu l'autore di quel saggio e visto il modo dettagliato con cui hai trattato
l'argomento ho veramente poco da aggiungere, tranne il fatto che c'è bisogno di
più coraggio da parte di chi organizza i concerti; bisogna trovare il giusto equilibrio
tra necessità di fare cassa e l'utilità di presentare nuovi punti di vista che sono
vitali per lo sviluppo artistico e l'evoluzione del linguaggio musicale. Queste
novità col tempo diverranno "mainstream" e integreranno e/o sostituiranno le precedenti,
in un perpetuarsi che terminerà solo con la scomparsa dell'essere umano. In definitiva,
credo che negli ultimi anni un sistema di gestione mediocre ma consolidato, abbia
fermato questo virtuosismo producendo i danni che tutti noi conosciamo bene, di
cui il più importante è la mancanza di rinnovamento del pubblico.
Qualche giorno fa ho intervistato Franco Cerri che
metteva l'accento sul fatto che i giovani suonano troppe note, anche inutili. Pensi
che sia un problema legato alla didattica, agli insegnamenti ricevuti o si riferisce
ad altro?
Il maestro Cerri ha perfettamente ragione, però aggiungerei che i figli spesso sono
un riflesso dei padri. I giovani hanno necessità di tempo per trovare la sintesi
giusta e il loro linguaggio, dobbiamo avere fiducia in loro e sostenerli, sappiamo
anche che sono pochi coloro che riescono a raggiungere questo obiettivo. Penso che
il problema principale sia di natura culturale oltre che strutturale: in primis
l'autoreferenzialità del jazz, quindi la debolezza del complesso sistema che lo
accompagna: pochi critici di valore, poche etichette che producono investendo risorse
proprie, pochi palchi che promuovono l'innovazione, pochi club aperti al nuovo,
poca attenzione mediatica, un pubblico vecchio nei gusti e infine poca creatività
nell'offerta. Sono convinto che questi, ed altri elementi, siano i veri freni inibitori
della creatività e della espressività delle nuove generazioni che comunque, e per
fortuna, non mancano.
Il pubblico del jazz, almeno in Italia, è statisticamente
provato che sia formato perlopiù da persone over 35 anni. In altri stati, però,
ciò non succede. Secondo te quali sono i motivi di fondo? I prezzi dei biglietti
sono troppo alti? Il jazz non trova spazio negli ordinari canali di comunicazione
dei giovani? E' frutto di una crisi culturale?
Il jazz in Italia, sia come musica che come sistema culturale, non è in grado di
comunicare con un pubblico ampio ed in particolare nuovo, malgrado la presenza capillare
in tutto il territorio nazionale di iniziative che lo sostengono. E' sempre percepito
dalle nuove generazioni come qualcosa di noioso e per "vecchi", in pochi decenni
il jazz da musica popolare è diventata musica "colta" o per pseudo intellettuali.
Mi sembra evidente che le difficoltà del jazz italiano rispecchino perfettamente
lo stato di salute e il funzionamento dell'Italia: potere concentrato in mani di
pochi, sempre le stesse facce tra i protagonisti, provincialismo culturale, poca
capacità di comunicazione e innovazione e molta conservazione. Tutto ciò fa comodo
a quei pochi gruppi di potere che assorbono la maggior parte del cash flow presente
nel mercato. Quando si presenta una buona occasione per raggiungere un pubblico
ampissimo e giovane non siamo in grado di coglierla: basti pensare all'esibizione
del grande
Stefano
Di Battista sul palco del Concertone del 1 maggio che si è ridotta ad
essere un esercizio di stile con 50 sassofonisti sul palco che non hanno aggiunto
nulla e una scaletta che definirei improbabile: Vivaldi, Gillespie e i Beatles.
Malgrado ciò, sono molto fiducioso nel futuro: abbiamo accertato che il pubblico
che frequenta i concerti prodotti dalla Nau ha un'età variabile tra 18 e i 35 anni.
E' un fenomeno che mi dispiace constatare, ma la tendenza
dell'Opera è quella di annoverare un pubblico sempre più giovane. Forse anche per
il fatto che molte opere sono rivisitate da registi di chiara fama che lo hanno
svecchiato parecchio. Nel jazz, però, anche lo svecchiamento non sempre porta risultati
entusiasmanti. Come mai?
L'Opera dà sicurezza, è la nostra storia, è nel nostro dna, sta su un altro piano
culturale, estetico ed economico. A mio modesto parere è altra cosa rispetto al
jazz che è un fenomeno culturale recente per la nostra società. Detto questo: lo
svecchiamento funziona eccome nel nord e nell'est d'Europa, luoghi dove i Festival's
sono veri e propri laboratori in grado di attrarre decine di migliaia di giovani
e dove i Club, che hanno un ruolo fondamentale per la diffusione dei contenuti,
producono rassegne innovative e per nulla scontate. Il problema è endemico, è un
limite del nostro sistema che non è stato in grado di evolversi.
Non pensi che il jazz, in Italia, difetti in organizzazione
e coordinamento? Sarà forse perché lo Stato e gli enti territoriali lo tengono sullo
stesso livello delle sagre di paese (con tutto il rispetto anche per queste)?
Difetta eccome, ma non sono d'accordo sul motivo. Lo Stato e gli Enti pubblici –
che ricevono soldi dallo stato centrale - finanziano il jazz in Italia per decine
di milioni di euro all'anno. Probabilmente a parte la Lirica e la Classica è il
genere musicale più finanziato. Soldi che spesso finiscono per la maggior parte
nelle tasche di organizzatori senza scrupoli che di sovente sono musicisti, che
programmano, tranne in rarissimi casi, delle manifestazioni indecenti, ripetitive
ed inutili. Io, tranne che in casi davvero meritevoli, abolirei totalmente questa
forma di assistenzialismo che alimenta un sistema di potere e clientelare e non
crea quelle condizioni utili per innovare e attrarre pubblico nuovo. Poi va bene
qualsiasi tipo di "associazionismo", basta che sia funzionale al bene della musica
e non agli interessi di pochi.
Un tempo il jazz, anche in Italia, era musica da ballo,
da divertimento. Oggi non è più così e, quindi, è quasi del tutto sparito anche
dalla Tv, fatta eccezione per alcuni programmi trasmessi in orari da vampiri. Dobbiamo
concludere che si è trasformato in peggio, oppure non è stato capace di seguire
l'evoluzione dei tempi?
Esattamente: non si è evoluto.
Nella tua esperienza di organizzatore e di discografico,
quali sono le maggiori difficoltà che incontri e cosa, a tuo avviso, dovrebbe fare
lo Stato italiano?
Lo Stato dovrebbe ridurre la burocrazia per quanto riguarda tutte le attività connesse
alla produzione di concerti, eliminare completamente le tassazioni per i concerti
fino a cento partecipanti e con ingresso a pagamento fino a 10 euro lasciando obbligatoria
solo un'assicurazione per la tutela degli artisti e di terzi, portare l'Iva al 4%
per tutte le voci di tassazione che riguardano l'attività discografica. Infine,
dimezzare il costo del bollino SIAE o farlo pagare –al valore attuale- solo sulle
copie effettivamente vendute. Tutto ciò inciderebbe parecchio sull'efficienza complessiva,
sul costo del prodotto finale e dei servizi che offriamo al pubblico. Inoltre il
legislatore dovrebbe consentirci di fare fundraising detassando sensibilmente le
imprese che investono in musica. Questo sarebbe sufficiente per creare un circolo
virtuoso, liberando nel sistema nuove risorse economiche e professionali. In sintesi,
oggi le piattaforme operative e produttive sono due: una è virtuale ed è molto utile
ma realmente produttiva solo per pochi e per poche voci del nostro business, l'altra
riguarda il rapporto reale con il pubblico, questa rappresenta il nostro vero terreno
di gioco, è qui che si fa la differenza, è qui che si vince o si perde, è qui che
riscontriamo il maggior peso burocratico.
Il circuito dei jazz club, delle rassegne e dei festival,
ha qualche responsabilità sui gusti del pubblico?
Certamente. Non puoi dettare il gusto se non ne hai. E' chiaro che esistono eccezioni
che confermano la regola.
A quali progetti, discografici e non, stai lavorando?
Il 23 giugno registreremo il nuovo progetto in trio di Roberto Cecchetto
che inaugurerà una nuova collana dedicata a progetti inediti ripresi in live session.
L'idea è mia e di Giancarlo Chiodaroli, titolare del Cap Town Cafè
di Milano che ospiterà le gigs; un progetto sponsorizzato dalla Heineken e che prevede
due concerti/album all'anno. Dopo Cecchetto, il 15 dicembre
2014 toccherà ad un altro trio, questa volta
composto da Tim Berne, Luca Perciballi e Roberto Dani. A fine
settembre 2014 è prevista l'uscita del progetto
in solo di Giovanni Falzone che aprirà la collana "Solitaire", dedicata
ai progetti in solo. Questa collana sarà realizzata anche su vinile in tiratura
limitata di 300 pezzi, e con un progetto grafico affidato ad un artista visivo,
l'idea è quella di realizzare un vero e proprio oggetto d'arte. A ottobre la nostra
collana "Generazione Now" si arricchirà di altre due uscite: quella del trio
dell'eccellente pianista Rosario Di Rosa (Paolo Dassi, contrabbasso
e Riccardo Tosi, batteria) e degli Electric Posh, duo composto da
Luca Nostro (chitarra, elettronica) e Luca Pietropaoli (tromba, elettronica);
entro la fine del 2014 saranno poi pubblicati
gli Airfinger, quartetto del giovane pianista Luigi Di Chiappari,
e il trio italo-francese Clax3 che segna il debutto e la distribuzione della
Nau Records
in Francia. In questo periodo siamo inoltre impegnati nella progettazione di due
progetti live: la seconda edizione di Friday Sounds Good (la prima si è tenuta
a Roma nel 2012/2013),
una rassegna dedicata al jazz contemporaneo; e il progetto Nau in Paris, dove la
Nau Records
sarà label resident per un mese consecutivo presso un famoso jazz club parigino,
una occasione per presentare al pubblico francese le nostre produzioni. Infine,
da pochi mesi, abbiamo attivato anche la divisione pictures il cui art director
è il regista milanese Alessandro Riva, che si occupa di produzioni video sia per
la Nau che per committenti esterni. Per noi il jazz è più vivo che mai, il nostro
impegno è rivolto a documentare, proporre e valorizzare le nuove generazioni, questa
è la mission della Nau
Records.
15/05/2011 | Giovanni Falzone in "Around Ornette": "Non vi è in tutta la serata, un momento di calo di attenzione o di quella tensione musicale che tiene sulla corda. Un crescendo di suoni ed emozioni, orchestrati da Falzone, direttore, musicista e compositore fenomenale, a tratti talmente rapito dalla musica da diventare lui stesso musica, danza, grido, suono, movimento. Inutile dire che l'interplay tra i musicisti è spettacolare, coinvolti come sono dalla follia e dal genio espressivo e musicale del loro direttore." (Eva Simontacchi) |
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Data pubblicazione: 18/05/2014
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