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Cheek to Cheek with Franco D'Andrea
Matera, venerdì 2 settembre 2005
di Dino Plasmati


Poco prima del concerto del suo New Quartet, incontro Franco D'Andrea, pianista-icona del jazz italiano, ma persona dai modi gentili dai quali trasuda una grande umiltà e umanità, nonostante il suo nome giri per l'Europa! L'Onyx Jazz Club nel ventennale della sua nascita, ha pensato di riproporre un Franco D'Andrea sempre fresco e brillante a vent'anni di distanza dal primo concerto fatto a Matera per l'esordiente associazione che di li a poco si sarebbe fatta conoscere a livello internazionale, grazie alla determinazione e alle scelte oculate di G. Esposito&Co. È stata una simpatica chiacchierata, densa di ricordi che ha restituito, ancora una volta, lo spessore di un "signor Musicista" capace di dimostrare con la sua musica di essere avanti per intenti e impegno creativo.

D.P.: Come sceglie i musicisti per i suoi progetti?
F.D.: Di solito parto da un musicista che mi interessa. Uno solo. Faccio l'esempio del quartetto degli anni '80, con A.Zanchi e T.Tracanna. In quel caso era il giovane Tino ad interessarmi. Aveva un suono particolare e, all'epoca, suonava il sax alto. Ascoltandolo, una volta, mi ricordò il trio di O. Coleman. Mi impressionò molto! Dato che volevo creare un gruppo, mi dissi: "incominciamo con lui e poi vediamo". Pensavo fosse interessato ad una situazione abbastanza aperta, un po' free, addirittura. Le cose poi sono cambiate, è vero, abbiamo fatto quello ma anche altro, più melodie…. C'era un altro aspetto che mi interessava moltissimo: pensavo ad una musica che ripescasse cose del mio passato, ma che armonizzate insieme in un gruppo, rappresentassero tutte le sfaccettature di ciò che sino a quel momento avevo realizzato: Perigeo, il Modern Art Trio, formazione di estrema avanguardia, poi l'altro mio trascorso che era stato, in fondo, il mainstream del jazz. All'età di 22-23 anni avevo suonato con personaggi come Dexter Gordon e Johnny Griffin, quindi, ero nato in quella maniera. C'era anche qualcosa di vagamente dixieland dentro di me, qualcosa di jazz tradizionale. Questo, però, potevo mettercelo io sebbene fosse "merce rara"! Così, la parte cosiddetta free credevo di averla trovata in Tino. In parte mi sbagliavo, in parte no, nel senso che era lui quello più interessato alla ricerca, ma anche il musicista più disinteressato che abbia conosciuto, poiché non aveva altri interessi se non la musica. Per me era già interessante! In quello stesso momento, avevo bisogno di qualcuno che avesse il gusto di stare intorno a degli ostinati di basso, a delle figure ripetute in una certa maniera, alla Perigeo, per intenderci. Ricordo che passai dal negozio più in voga di Milano a quell'epoca, molto forte nella vendita di spartiti, dove incontrai Attilio Zanchi. Gli sottoposi un discreto ostinato di basso, la cui esecuzione continua avrebbe annoiato chiunque. Beh, lui era in grado di non annoiarsi, ci poteva lavorare sopra sottilmente, ma rimaneva lì solido. Avevo trovato l'altro elemento. E poi un giorno durante un concerto di piano solo sento delle urla d'approvazione da dietro il palco: era Gianni Cazzola. Divenne il quarto elemento!

D.P.: Il New Quartet esiste e opera da tempo, sin dal 1997. Qual è il nuovo del quartetto e il nuovo nel quartetto?
F.D.: … (ride) Innanzi tutto, avendo già avuto un quartetto negli anni '80 ci sono delle differenze, perché i musicisti, oggi, hanno caratteristiche diverse, sono musicisti che operano venti anni dopo, in uno scenario completamente cambiato. Curiosamente l'unica cosa identica è stata che ho incontrato per prima lui (indica il sassofonista Ayassot) che venne inopinatamente ad un mio seminario d'improvvisazione dove lui era chiaramente più avanti di tutti gli altri. Mi interrogai sullo scopo della sua presenza, e non feci altro che chiedergli, alla fine, il suo numero di telefono e così...
Ayassot
, inoltre, non era neanche assetato di note, cosa rara nei sassofonisti. Aveva la capacità unica di fare poesia con poche note. Il suo suono era abbastanza insolito, quasi indefinibile. Per come vedevo le cose, mi ricordava in alcuni piccolissimi atteggiamenti O. Coleman, del cui suono sono sempre stato un cultore. A volte, invece, mi ricordava Paul Desmond, purtroppo caduto in oblìo per lungo tempo. Credo fosse un genio. Quel suo suono, quel suo fraseggio erano pazzeschi, aveva una grande melodicità! Cogliendo tutto questo in Ayassot, pensai a lui come primo tassello per il nuovo quartetto che volevo fosse fatto da musicisti differenti per origini culturali. C'era anche Alex Rolle - purtroppo è morto! - un batterista pazzesco, straordinario. Continuo a pensare che era grandissimo: partiva dalle percussioni e arrivava alla batteria, ma non come un percussionista che in più suona la batteria. Lui suonava la batteria come una batterista consumato, aggiungendovi dei colori tali da rendere la sua musica veramente straordinaria. Mi ha aiutato moltissimo. L'altro elemento era Aldo Mella, bassista che è rimasto sempre l'elemento d'ordine, un riferimento che tiene salda la situazione.

D.P.: Quale direzione ha preso il jazz italiano? Ritiene abbia una propria identità?
F.D.: Il jazz italiano va in tutte le direzioni possibili. Non è un male, ma non basta. La qualità è alta e anche tutte le cose che stanno accadendo lo dimostrano. Confido poco nelle identità nazionali. Ho fiducia più nella individualità di alcuni gruppi, di alcuni personaggi, forse, che si uniscono per affinità particolari, insomma, dei gruppi di lavoro. Ciò, però, può aver luogo ovunque. In Italia ci può essere qualche gruppo che abbia qualcosa di più "italiano", la melodicità ad esempio, ma non è necessariamente questa la direzione. Vedo musicisti dirigersi verso strade diverse, ma è la competenza dal punto di vista tecnico che deve essere perseguita e sempre più perfezionata. Quella è ciò che può tutelare, qualora si riesca ad entrare nella cerchia dei "genietti", dei musicisti internazionali. Il salto di qualità sarebbe ormai compiuto e non ci si può tirare indietro. Chi davvero segna la differenza diventa un musicista da brivido!

D.P.: Il ruolo della didattica oggi
F.D.: La didattica serve per alzare il livello tecnico e di conoscenza del linguaggio dei musicisti di jazz, ma non crea né genii, né infallibili musicisti, quelli crescono per proprio merito. Certo è vero che se un "genietto" ha fatto anche come training l'esperienza scolastica, ora di grande livello qui in Italia, grazie a ottimi didatti, ha più probabilità di raggiungere la vetta, avrà meno problemi.

D.P.: Ho avuto il privilegio di ascoltarla a Siena con un suo amico: Enrico Rava. È stato un concerto bellissimo, che ha suscitato un grande entusiasmo. Cosa ne pensa del duo D'Andrea-Rava e della amicizia tra voi?
F.D.: Siamo amici da 40 anni, da quando eravamo ventenni. Suonavamo già insieme. Abbiamo fatto parecchia strada e se a volte capitava di non farla insieme, per combinazione abbiamo percorso separatamente alcune vie molto simili. Questo è interessante perché vuol dire che siamo fatti per capirci! Lui è un tipo molto più legato alle sonorità calde, ragiona benissimo, ma non fa del ricercare cose particolari una fissazione. D'altro canto io, sono un po' più pazzo, mi avventuro negli alambicchi della scienza (ride). Se non avessi fatto il musicista mi sarebbe piaciuto fare il ricercatore scientifico.

D.P.: Ritiene che la musica dal vivo, cioè quella suonata realmente, jazz, classica, etnica, possa riuscire a sopravvivere in questa selva di musiche, per così dire, pseudo-elettroniche, come quelle dei DJ, o quelle musiche che si rivestono solo del nome jazz, visto che ormai è di moda oggi?
F.D.: In effetti è vero, ma tutto sommato non dispiace che ciò arricchisca i colori del jazz. Non dispiace chiaramente quando si tratta di musica di consumo, non troppo impegnativa a cui si vuol dare, però, un certo tono, come un fiore all'occhiello. Se qualcuno notasse questo fiore, vorrebbe dire che ha una certa bellezza!

D.P.: Progetti futuri di Franco D'Andrea
F.D.: Eh sono tanti…(ride). Ho due linee su cui mi muovo. Una è la linea, chiamiamola così, della rivisitazione storica che non dispiace perché ho capito che nel jazz ci sono milioni di cose che si sono fatte a metà, mai completate, o cose che di altri che altri ancora hanno continuato. Ho pensato, così, di provarci io, di portare avanti qualcosa di incompiuto. Cosa avrebbe fatto Scott La Faro se non fosse morto a 23 anni? Si prova ad immaginarlo e si va avanti così, cercando di ricavare dal modo di intendere la musica di S. La Faro i possibili sviluppi che avrebbe potuto avere. L'altra linea è la musica originale mia che ha il suo percorso.

Ormai pronto per calcare la scena con il suo quartetto, con grande signorilità e umiltà, ringrazia per la semplice chiacchierata fatta con me. Il concerto è stato straordinario con un D'Andrea sempre più avanti rispetto a tutti e per grandezza musicale e per gentilezza.







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Data pubblicazione: 17/12/2005

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