Dave Holland può essere ormai considerato la colonna portante del jazz contemporaneo, in un momento in cui sembra difficile far emergere nuove idee e le immagini a cui si fa – troppo spesso – riferimento, vivono di una retorica ripetitiva e autoreferenziale.
L'abile contrabbassista, sembra invece emergere dall'informe magma, grazie a delle idee precise e ad un'identità fortemente caratterizzata, costruita album dopo album: dalle visionarie incisioni con Sam Rivers nei primi anni settanta, a questo "Overtime", secondo disco con la sua Big Band, dopo l'acclamatissimo "What goes around" del 2002 pubblicato dall'ECM, con il quale si aggiudicò persino un Grammy.
Il pluripremiato
Holland – che nel 2004 dominò il referendum annuale di Downbeat, piazzandosi primo nelle categorie di Miglior Artista, Miglior Gruppo Acustico (D.H.Quintet), Miglior Album (Extended Play) e Miglior Contrabbassista – decide di rompere la trentennale collaborazione con
Manfred Eicher (fondatore e padrone dell'ECM) per dar vita ad una sua etichetta, la
Dare2 Records, in cui può sicuramente gestire con più tranquillità la sua musica, come è successo per "Overtime", disco d'esordio dell'etichetta.
La struttura della Big Band non è cambiata dalla precedente incisione, anche se sembra giusto notare l'inserimento di
Taylor Haskins al posto di Earl Gardner – entrambi trombettisti – e la sostituzione di Andre Ayward con
Johnathan Arons – trombonisti – quest'ultimo protagonista del bell'assolo di Ario che per inventiva e intensità non ha certo nulla da invidiare alle stupefacenti escursioni solistiche di
Robin Eubanks, membro stabile del quintetto di Holland.
Ed è forse dallo stesso quintetto che bisognerebbe partire, perché sono loro –
Billy Kilson, Chris Potter, Steve Nelson e Robin Eubanks
– a dare una struttura e l'identità ad una musica, come sempre guidata dalla solidissima sapienza del contrabbassista inglese, che nell'ampiezza delle sue narrazioni – che superano quasi sempre i dieci minuti – sa raccontare storie e trascinare l'ascoltatore in un mondo ricco di suoni, mai lasciati al caso e sempre funzionali all'espressione del collettivo.
In molti episodi assistiamo infatti a un dialogo che avviene fra pochi musicisti e che riporta alla mente i suoni degli ultimi dischi incisi per l'ECM – come il doppio "Extended Play" – naturalmente sostenuti dai numerosi crescendo orchestrali e dai fondali a riff, caratteristici del linguaggio orchestrale swing, già dalla metà degli anni '30.
The Monterey suite, che occupa gran parte del disco con oltre cinquanta minuti di musica, è sicuramente l'episodio più significativo del disco: commissionata dal
Monterey Jazz Festival a Dave Holland in occasione di una sua esibizione il 22 Settembre 2001, la suite presenta quattro parti che a dire il vero sembrano piuttosto slegate fra loro, esprimendo comunque in questo flusso non del tutto continuo, un'incredibile varietà di umori. Dai momenti concitati di Bring it on, in cui Holland amministra attraverso un dinamico arrangiamento delle sezioni la brillante voce di Chris Potter,
ai fondali decisamente più tranquilli di A Time remembered, in cui risalta la compattezza del suono e dell'arrangiamento, magistralmente gestito da una sezione ritmica, dirompente nell'impastare le frasi dei solisti con i solidi accompagnamenti delle sezioni fiati.
Un disco che rispetto a "What goes around" sfrutta composizioni più fresche – si pensi che alcuni dei brani usati da Holland nel precedente album risalgono ai primi anni ottanta – ottenendo quindi un risultato più attuale, dove anche la qualità del suono – decisamente meno fredda e confezionata di quella solitamente presente nei dischi ECM – si aggiunge a completare un lavoro imperdibile.
Marco De Masi per Jazzitalia