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Chris Potter
Imaginary Cities
ECM (2014)
1. Lament
2. Imaginary Cities 1 Compassion
3. Imaginary Cities 2 Dualities
4. Imaginary Cities 3 Disintegration
5. Imaginary Cities 4 Rebuilding
6. Firefly
7. Shadow Self
8. Sky
Chris Potter - sax tenore, soprano, clarinetto basso Adam Rogers - chitarre Craig Taborn - pianoforte Steve Nelson - vibrafono, marimba Fima Ephron - basso elettrico Scott Colley - contrabbasso Nate Smith - batteria Mark Feldman - violino Joyce Hammann - violino Lois Martin - viola David Eggar - violoncello
Recorded December 2013, Avatar Studios, New York
Chris Potter ha due anime: quella del solista apprezzato per la sua tecnica,
e quella del leader e del compositore. In questa nuova incisione per l'ECM (splendida,
va detto subito), prevale la sua seconda vocazione: amplia il suo gruppo attivo
ormai da una decina d'anni, Underground, aggiungendovi nuovi colori (Nelson, Ephron,
Colley e il quartetto d'archi, un tocco di estrema raffinatezza) per una suite in
quattro movimenti, che dà titolo all'album e ne occupa circa la metà, e la fa precedere
e seguire da altre quattro composizioni originali.
La prima, Lament, dopo l'introduzione dall'incedere solenne che valorizza
in pieno gli archi, dà spazio alla ritmica e al tema esposto dal sax, cedendo poi
il testimone ai creativi fraseggi di Colley e al solismo del leader, misurato e
pertinente.
Le città immaginarie si articolano in un primo movimento dall'avvio classicheggiante,
che mostra via via le notevoli doti di compositore e arrangiatore di Potter, che
fa volare il suono del suo strumento su un tappeto ritmico-armonico godibile e finemente
articolato, per poi cedere il testimone alla chitarra di Rogers. Il secondo movimento
inizia con un vivace pizzicato degli archi, seguito da un riff del basso su una
metrica sghemba che sorregge il tema, articolato e sapido, e un travolgente assolo
di marimba. Il terzo poggia su una intro pianistica rarefatta, che si incrocia con
il soprano del leader e con gli altri strumenti a corda e ad arco per un'improvvisazione
collettiva che sfocia in un nuovo tema complesso che si alterna agli archi. Il movimento
finale mostra una più ampia fisionomia jazzistica, per mantenendo la articolata
complessità e finezza di scrittura che caratterizza tutta la suite.
Dei restanti brani, Firefly risulta il più marcatamente jazzistico, e dà
l'occasione a Potter di sfoggiare il suo torrenziale fraseggio al tenore; Shadow
Self è dedicata agli archi e in particolare all'infuocato violino
di Feldman e al clarinetto basso; il brano finale concede grande spazio a Taborn,
e conclude al meglio un CD che richiede ripetuti ascolti per farsi apprezzare a
pieno.
Vincenzo Fugaldi per Jazzitalia
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Data pubblicazione: 26/04/2015
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