Intervista a John Pietaro dei Red Microphone settembre 2013 di Marco Buttafuoco
Nel 1969, Charlie
Haden pubblicò, con la Liberation Music Orchestra un disco che
sarebbe entrato nella leggenda del free jazz. Era basato su materiale strettamente
"politico" (canti della guerra civile spagnola, musiche del compositore comunista
tedesco Hans Eisler, canzoni dedicate a Che Guevara). Erano tempi tumultuosi, quelli.
Tempi di vera o sognata rivoluzione culturale. Haden fu probabilmente il primo ed
il solo musicista jazz, ad utilizzare così direttamente l'innografia rivoluzionaria.
Certo altri jazzman (Archie
Shepp, Charlie Mingus, Max Roach) dettero voce alla loro
indignazione e al loro " impegno", ma Liberation Music rimase un unicum.
Haden riprese l'idea in altri dischi: con risultati artistici decisamente inferiori.
Il disco di cui ci accingiamo a parlare è quindi particolarmente interessante, sia
perché si rifà, con scelta no certo usuale ai nostri tempi, all'esempio del contrabbassista
dell'Iowa, ma anche per altri elementi: l'uso della voce recitante in primis.
"The Red Microphone Speaks", contiene oltre a due versioni
de L'internazionale, quel Song of United front (Scritto da Hans Eisler)
che era la sesta traccia dell'album di Haden, versi di Langston Hugues (Poeta
legato ai movimenti neri per i diritti civili), omaggi a Paul Robeson e allo stesso
Eisler, un'improvvisazione che fa da sfondo sonoro al discorso dello scrittore Howard
Lawson davanti alla Commissione per le Attività Antiamericane, in piena era maccartista.
Abbiamo parlato di questo progetto
con John Pietaro, vibrafonista e percussionista dei Red Microphone
(gli altri elementi sono i sassofonisti Ras Moshe e Rocco John Jacovone
e il contrabbassista Nicolas Letman- Burtinovic). Pietaro è anche uno
studioso della musica d'impegno sociale, nonché organizzatore del Dissident Art
Festival che ha luogo a Brooklin da oramai otto anni.
"Ci sono radici diverse nella mia musica. Ho cominciato col
rock e mi sono interessato presto al folk americano ed al suo valore politico. In
questo ambito ho avuto anche il privilegio di lavorare con un maestro come Pete
Seeger. Poi ho scoperto il jazz (Ornette ed Eric Dolphy in particolare)
che ho sempre sentito come l'espressione di un popolo schiavo, sradicato ed emarginato.
Mi sono anche però interessato all'opera di Bertolt Brecht ed alla musica di
Kurt Weill e di Hans Eissler. Artisti innovatori e raffinatissimi, immersi
nel clima rovente della politica dei loro tempi. Veri maestri. Tornando agli Usa
non possiamo dimenticare come negli anni ‘30, durante la grande depressione, gli
artisti della sinistra (per tutti ricordo Woody Guthrie e gli Almanac
Singers) erano veri e propri giornalisti, autentici oratori di strada che commentavano
l'attualità ed intervenivano nei conflitti con le loro ballate, i loro talking blues.
Charlie Haden, con quel meraviglioso disco da te citato, ha ripreso
quella grande tradizione dell'impegno diretto dell'artista. Alla fine degli anni
‘60 si lottava contro la guerra del Vietnam, si solidarizzava con le lotte di liberazione
del terzo mondo. Ho sempre trovato queste esperienze artistiche ricche di passione,
innovazione e rivoluzione. Perché non dovrebbero ispirarci ancora in questi tempi
di capitalismo selvaggio, di crescente crisi sociale?"
Come affrontate temi tanto conosciuti come l'inno di Eisler
o addirittura universali come l'Internazionale?
Abbiamo trasformato il Canto del Fronte Unito in una struttura ABA nella quale B
è una lunga sezione di improvvisazione free che manca nella versione della LMO.
Ci tenevamo a sottolineare il carattere "eversivo" di questo inno Ci tengo a rilevare
che la sequenza B è totalmente improvvisata e che non abbiamo utilizzato sovraincisioni.
Nella prima versione dell'Internazionale abbiamo suonato come un immaginario quartetto
jazz degli anni Quaranta, dilatando solo un po' le armonie. Ma nella settima traccia
abbiamo trasformato il vecchio inno, tentando di farlo diventare un grande contenitore
sonoro della memoria dei movimenti rivoluzionari. Per questo ho inserito le voci
di Lenin, Malcom X, Angela Davis e un brano dell'autodifesa di Dalton Trumbo davanti
alla commissione per le attività antiamericane. Ho affidato la lettura del testo
originale francese a Nora Mc Carthy, inserendo sequenze quasi minimaliste,
dei sax. Volevamo dare al pezzo un senso di grido di battaglia, di urlo della memoria,
e al tempo stesso far sentire la fatica di tutte le lotte che ha rappresentato.
Da qui il titolo del brano; l'Internazionale ricostruito.
Una domanda provocatoria. Non credi che il free jazz sia
una proposta inadatta a una comunicazione sociale di massa come quella che vi proponete?
C'è stata una grande discussione su questo argomento ma la mia risposta è no. In
questa musica, come hanno riconosciuto studiosi del calibro di Amiri Baraka,
c'è lo spirito del ghetto. Non caso ha avuto legami profondi con i movimenti radicali
neri degli anni sessanta. Il grido del free jazz ha le sue radici musicali nelle
improvvisazioni collettive della New Orleans degli inizi del '900. I suoi primi
interpreti, agli inizi degli anni Sessanta furono emarginati dalla comunità artistica
e trattati come paria, fecero fatica a sbarcare il lunario. Io credo che l'arte,
oggi più che mai, abbia bisogno di radicalità, di esprimersi anche aspramente e
senza mediazioni. Deve essere rivoluzionaria.
Al di là dell'esempio di Charlie Haden o dell'impegno
individuale di grandi jazzmen come Max Roach, Billie Holiday, Leo
Smith il jazz non sembra tuttavia essere stato la colonna sonora delle lotte
sociali negli USA.
E‘ vero, per molti decenni l'arte di protesta è stata rappresentata più da Woody
Guthrie o Pete Seeger che non dai musicisti afro-americani. Bisogna risalire
agli anni Trenta, quando la cultura della sinistra americana era fortemente influenzata
dal Partito Comunista. Intorno al PCUSA gravitava allora un folto gruppo di musicisti
molto influenzati dall'esperienza dell'avanguardia tedesca. Fra essi ricorderò
Aaron Copland e Charles Seeger, padre di Pete. Il partito valutò che
la loro proposta era troppo elitaria e puntò sui folk singers che riprendevano la
tradizione bianca delle canzoni popolari e dell'innografia ecclesiastica (ma anche
un grande musicista di colore come Leadbelly gravitò in quell'area). Il jazz
era certo riconosciuto come arte di una minoranza oppressa, ma era anche guardato
con sospetto. Le grandi orchestre che suonavano nei vari Cotton Club non davano
certo garanzie di purezza rivoluzionaria. Il jazz era valutato soprattutto come
musica d'intrattenimento, commerciale. Questo non vuol dire che sia rimasto ai margini
della vita politica degli USA. Count Basie e Lester Young, ad esempio,
parteciparono molto attivamente alle campagne elettorali di F.D.Roosevelt. Fra i
musicisti più recenti si può dire che quello più direttamente impegnato sia stato
McCoy Tyner,
che è intervenuto in varie manifestazioni per la causa di Angela Davis. Ma questo
impegno viene forse dall'influenza esercitata su di lui da suo fratello Jarvis,
dirigente di spicco del PCUSA. Al là dei singoli casi è comunque vero che la musica
impegnata americana s'identifica quasi in toto con la grande tradizione del folk
bianco.
Come vedi gli Usa di oggi, anche dal punto di vista musicale?
Il mio paese è sempre contraddittorio. E ‘ancora largamente dominante una certa
idea di capitalismo selvaggio e senza regole. Il reaganismo è tuttora in auge, ma
qualcosa sta cambiando. Occupy Wall Street è un movimento di grande interesse
e ricco di potenziali sviluppi. Dal mio punto di osservazione posso dire che ci
sono buoni segnali di riscossa. Il nostro festival sta ottenendo sempre più consensi
fra varie generazioni di newyorkesi. A Brooklyn si sta sviluppando un movimento
di new jazz che attira sempre più giovani. Viviamo tempi terribilmente interessanti.