Recorded at Systems Two, Brooklyn, New York on March 16-17, 2001 Blue Note Records (USA) - 2001
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Jason Moran
Black Stars
1. Foot Under Foot
2. Kinda Dukish
3. Gangsterism On A River
4. Earth Song
5. Summit
6. Say Peace
7. Draw The Light Out
8. Out Front
9. Sun At Midnight
10. Skitter In
11. Sound It Out
Jason Moran - piano Sam Rivers - soprano & tenor saxophones, flute, piano Tarus Mateen - bass Nasheet Waits - drums
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Pochi musicisti nel mondo del jazz di questi ultimi anni possono vantare
lo straordinario sound del piano di Moran. Il suo combinare e coordinare
elementi diversissimi all'interno d'un preciso linguaggio musicale, dotato di canoni
estetici che costituiscono una cifra chiara e riconoscibile del suo stile, rappresenta
una straordinaria eccezione in un panorama musicale che de facto impone un
superamento continuo dei confini tra generi. Un superamento che spesso appare più
uno spettacolare generatore di caos – che porta a confezionare prodotti di dubbia
qualità e induce a coniare nuove categorie sempre meno utili alla comprensione del
prodotto musicale – piuttosto che un'utile via per giungere alla definizione di
nuovi ed originali orizzonti musicali.
Moran pare muoversi sempre intersecando diversi piani, diversi stili,
proponendo diversi schemi interpretativi riuscendo tuttavia a proporre sempre un
suo sound inconfondibile e preciso che costituisce la sua cifra stilistica. Ascoltato
a Le Blue Note di Parigi
rimasi folgorato da questa sua capacità di amalgamare elementi diversissimi in un'unica
forma.
Il suo trio si muove con una facilità straordinaria tra i diversi stili,
le diverse forme ed i diversi materiali sonori. Le sue campionature prese dai più
disparati generi musicali – o semplicemente da quell'universo sonoro straordinario
che è la rumorofonia – vengono incorporate all'interno del contesto musicale secondo
un metodo di assimilazione non così diverso da quello avanzato da compositori, tanto
per fare degli esempi, come John Cage o David Tudor o anche per certi
versi (e direi addirittura) Luigi Nono. Questo perché nella musica di
Jason Moran spesso non si assiste solamente ad una "musicalizzazione"
del suono rumorofono – che rimane quindi un elemento inserito nel contesto musicale
ma che ha una sua fisionomia distinta dalla composizione. La campionatura è spesso
parte costitutiva ed ineliminabile del pezzo. Un brano come Ringing my phone
(ascoltate il suo Live in Paris del 2003)
è straordinariamente esemplificativo. Il piano di Moran rincorre in modo
fantastico la voce al telefono campionata cercandone una riproduzione musicale ed
inseguendo (letteralmente) l'impossibile unisono tra piano e voce.
Il modo in cui riesce a tenere assieme il connubio innovazione-tradizione
ha decisamente pochi precedenti. Le composizioni di Byard o Ellington
finiscono per essere rese contigue ad altre pop (pensate a Bjork) o a materiali
rap o hip-hop, producendo così un accostamento che in altri contesti avrebbe fatto
sobbalzare chiunque con giusto disgusto. Ma soprattutto il suo piano passa per il
singolarissimo suono bebop di Monk e per il free con estrema naturalezza.
Ed è soprattutto sull'incontro con il free che, in fin dei conti, si fonda l'album
Black Stars, perché qui il trio di Moran
– che, ben inteso, rimane trio – si confronta con uno dei più straordinari ed
originali fiati della allora "new thing". Dico che il trio rimane tale, perché in
nessun modo può dirsi che a suonare sia un quartetto. Jason Moran, Tarus
Mateen e Nasheet Waits da una parte e Sam Rivers dall'altra. La
singolarità dell'album è certamente qui. L'ascolto di lavori come Facing Left
o del citato Live in Paris è presupposto fondamentale per comprendere come
il trio si muove di fronte alla forza ed alla eleganza del tenore, del soprano e
del flauto di Rivers. Ascoltando i suoi assolo – dove si rintracciano, tra
l'altro, certi percorsi sonori di
Coltrane,
Dolphy e pure
Lacy
– si rimane colpiti da come Rivers si trovi perfettamente a suo agio. Il
trio di Moran si muove sempre tra una forma e l'altra con estrema facilità, lasciando
parecchio spazio alle improvvisazioni di Rivers, puntellandole ed intersecandone
il piano (come in Say Peace), sostenendole con
il fuoco ritmico di Waits (come in Foot Under Foot)
o aprendo vere e proprie distese sonore come nella bellissima
Summit. Quel Sam Rivers che convinceva così
poco Miles Davis è assolutamente strepitoso. Abbandona i lofts newyorkesi
ma naturalmente se li porta dietro qualsiasi cosa faccia. Pure, come in questo caso,
con un sound più placido ed elegante. D'altra parte gli ambienti e il clima newyorkese
si riflettono perfettamente nel sound urbano di Moran tanto che forse la
nuova New York con la sua "bellezza inintenzionale" (per usare un'espressione di
Kundera) è oggi più rappresentata dalla complessità della musica di Moran
di quanto non lo sia dalla – pur sempre magnifica – Rhapsody in Blue di Gershwin.
Chissà cosa ne penserebbe Sandor Marai...
Alex Monamour per Jazzitalia
30/01/2011 | Una gallery di oltre 60 scatti al New York Winter Jazz Fest 2011: Chico Hamilton, Don Byron, Geri Allen, JD Allen, Butch Morris, Steve Coleman Vernon Reid, Anat Cohen, Aaron Goldberg, Nasheet Waits, Abraham Burton, Eric McPherson...(Petra Cvelbar)
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Data pubblicazione: 07/12/2006
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