Intervista a Roberto Gatto
Roma – 3 marzo 2012
di Roberto Biasco
Abbiamo incontrato
Roberto
Gatto nel cuore del quartiere Prati a Roma, alla vigilia della presentazione
di due differenti progetti che, partendo dalle due date all'Auditorium Parco della
Musica in Roma – il 13 marzo e l'11 aprile prossimi – saranno immediatamente seguiti
da un mini-tour italiano e europeo. Ne è uscita una lunga, piacevolissima chiacchierata
a tutto tondo intorno alla sua musica ed alla sua carriera.
Partiamo dal
tuo recente progetto sul "Progressive Rock" per parlare degli inizi della tua carriera
e del rapporto con la musica degli anni settanta ed in generale della tua generazione.
Ho cominciato da ragazzo ad ascoltare il rock più autentico, quello di Jimi Hendrix,
dei Cream, dei Led Zeppelin; inoltre mio padre era un grande appassionato
di musica, andavo a curiosare tra i suoi dischi e scoprivo qualcosa che non conoscevo
bene, tipo le grandi orchestre di Duke Ellington, Count Basie, magari
anche Buddy Rich, cominciando a realizzare che esistevano anche altri tipi
di musica oltre a quella che ascoltavo. Contemporaneamente cominciai ad interessarmi
ad un nuovo filone che era quello del progressive rock, con gruppi come i Nucleus
o i Soft Machine che erano influenzati dal jazz e che facevano una musica
più o meno etichettata come jazz-rock. Una musica abbastanza sperimentale che mi
ha aperto la strada verso il grande jazz afro-americano, Miles Davis e
John Coltrane
innanzitutto, partendo dall'hard bop e dal free per fare poi una sorta di percorso
al contrario, andando successivamente a riscoprire i classici ed il jazz tradizionale.
E da lì in poi l'inizio della carriera di musicista con le ormai ben note collaborazioni
con
Danilo Rea, Pietropaoli, Giammarco e così via.
Suonare la batteria è stata una scelta
immediata o ci sei arrivato tramite qualche altro strumento?
Anche lì c'è una componente familiare, visto che mio zio suonava la batteria, ed
è stato lui a trasmettermi i primi rudimenti ed i primi esercizi, ma è stato un
fatto istintivo visto che io già a tre o quattro anni mi divertivo con le bacchette.
Ancora oggi penso che suonare la batteria deve partire da quell'approccio naturale,
intuitivo ed istintivo tipico di un bambino di cinque – sei anni; anche se questo
approccio può creare successivamente dei problemi, perché il batterista viene spesso
considerato l'elemento meno preparato musicalmente del gruppo, mentre, per suonare
seriamente la batteria bisogna conoscere la musica, le note, l'armonia e via dicendo,
recuperando, anche a posteriori, tutto il percorso formativo che deve fare un musicista.
Viceversa c'è il rischio che qualcuno, avendo una confidenza ed una capacità tecnica
istintiva sullo strumento, nel momento in cui realizza di essere in ormai grado
di accompagnare qualunque solista, si possa ritenere appagato e conseguentemente
rimanga fermo a quel livello.
Questo discorso si ricollega al tuo
modo di approcciare la batteria come musicista nel senso più ampio del termine,
ponendo lo strumento al centro in un discorso più complesso, in un linguaggio di
relazione con gli altri, siano essi una big band, un quintetto o qualsivoglia tipo
di ensemble.
Certo tutto questo si ricollega anche ad un mio specifico interesse non solo per
la scrittura musicale ma per la composizione vera e propria, argomento quanto mai
serio ed interessante, che mi permette di esprimere un'altra faccia del mio modo
di fare musica, anche nella trascrizione e nell'arrangiamento di brani altrui. In
questo modo riesco ad esprimermi anche nell'ambito più melodico, superando i limiti
tecnici che uno strumento seppur meraviglioso come la batteria mi impone, anche
quando cerco di suonarla nel modo più "musicale" possibile.
Sei sempre stato un'artista dai molti
progetti che si muovono anche in direzioni diverse.
E' vero, i miei interessi hanno molte facce, dalla musica classica che amo immensamente,
alla canzone, dalle colonne sonore al jazz, ovviamente, anche al jazz tradizionale,
l'importante che in questa musica ci sia autenticità e soprattutto qualità: come
diceva qualcuno, quando la musica è bella è bella tutta, senza troppi distinguo
o preconcetti. Sono aperto a tutte le suggestioni, infatti ho sempre considerato
il lavoro del musicista come un lavoro di ricerca e di "esplorazione" nel quale
si accumulano e si elaborano i materiali di studio diversi e poi alla fine si scoprono
i collegamenti e si tirano le fila di ciò che si è trovato. C'è tanto da scoprire,
c'è tanto da studiare e tanto imparare, a partire dalla musica classica, che è sempre
per me una enorme fonte di studio e di ispirazione, ma anche dal jazz, è una musica
più "giovane" ma piena di spunti di interesse. Questo è il percorso del musicista:
partire dallo studio di ciò che esiste per poi rielaborarle e delineare una propria
"cifra" artistica.
Tutto ciò ci porta a parlare del tuo
recente progetto su Shelly Manne, un grande batterista ben conosciuto da
tutti gli "addetti ai lavori", ma poco noto presso il grande pubblico. Un musicista
che già all'epoca – la seconda metà degli anni cinquanta – si pose nell'ottica di
una profonda evoluzione sullo strumento rispetto al suo ruolo tradizionale.
In effetti avrei potuto fare un omaggio ad altri batteristi che hanno segnato la
mia formazione artistica, batteristi di scuola tipicamente "nera" come Elvin
Jones, Roy Haynes o
Jack Dejohnette,
invece ho scelto proprio Shelly Manne, un batterista "bianco", un grande
accompagnatore che faceva un grandissimo lavoro "tra le righe" e che non aveva bisogno
di "alzare la voce" producendosi in assolo spettacolari, come poteva capitare a
Buddy Rich, tanto per fare un esempio. Era invece un musicista il cui obbiettivo
era quello di "far suonare bene il gruppo", ed è proprio la problematica che ho
cercato di affrontare in questi anni. Un altro aspetto che ho sempre apprezzato
è stata la sua curiosità e la sua capacità di confrontarsi con musicisti e con situazioni
molto diverse, suonando con l'orchestra di Stan Kenton, con
Bill Evans,
con Sonny
Rollins, persino con
Ornette
Coleman, per poi confrontarsi con le colonne sonore, con la musica per
big band, suonando addirittura come turnista per Frank Zappa o i Beach
Boys. Oltretutto era un personaggio anche al di fuori dell'ambito strettamente
musicale, grande appassionato di cavalli, aveva fatto anche una parte di attore
ne "L'uomo da braccio d'oro" di Otto Preminger. Ho voluto focalizzarmi su
un breve ma intenso periodo della sua carriera, quello della fine degli anni cinquanta,
il più bello dal punto di vista jazzistico, allorché con il suo quintetto – Shelly
Manne and His Men – incise una serie album pregevoli, dai quali ho derivato
tutto il repertorio, trascrivendo le partiture direttamente dall'ascolto dei dischi.
Devo dire, con una certa sorpresa, che questo repertorio riceve un successo pazzesco
ovunque noi andiamo a proporlo, grazie ad una musica piena di swing, uno swing che,
oggi come oggi, forse non si sente più, neanche dagli americani, non perché non
ne siano capaci, ma perché ne hanno perso la convinzione. Una musica tutto sommato
senza tempo, che pur essendo originale può sembrare già ascoltata; magari assomiglia
un po' a quella dei Jazz Messengers, pur trattandosi di jazz californiano,
anche se - va ricordato - Shelly Manne era un newyorkese di nascita trasferito a
Los Angeles. Si tratta di un tributo "dovuto" proprio in quell'ottica di "ricerca"
di cui parlavamo prima, nella stessa direzione del tributo al Quintetto di Miles
Davis degli anni sessanta, fatto con il mio gruppo qualche anno fa. Così come
farò certamente in futuro altri tributi ad altri musicisti, perché così come un
grande direttore d'orchestra torna a dirigere Shostakovich, Prokofiev
o Bruckner, alcune musiche debbono essere riproposte perché in esse c'è
ancora molto da scoprire e da rielaborare.
Certamente la musica del quintetto di
Miles Davis degli anni Sessanta, pur essendo universalmente ammirata e riconosciuta,
deve essere ancora completamente assimilata, proprio perché allora era "troppo avanti"
e solo oggi cominciamo comprenderne davvero la profondità ed il grado di astrazione.
Certamente, alcune musiche hanno bisogno di essere continuamente riproposte e reinterpretate
proprio per arrivare a comprenderne il significato più profondo. Ricollegandosi
a Shelly Manne, non si tratta in questo caso di fare delle "cover" del jazz
degli anni cinquanta. Ma quando c'è swing, energia, verità e voglia di comunicare,
di far rivivere quel momento, allora la gente salta su dalla sedia. Viceversa il
pubblico si annoia quando il musicista ha la presunzione di voler proporre una propria
"opera" in maniera unilaterale ed autoreferenziale. Non a caso persino un artista
come Keith
Jarrett, nella serie infinita dei suoi dischi in trio sente il bisogno,
otto volte su dieci, di andare a rivisitare gli standard del jazz mille volte eseguiti
eppure ancora e sempre validi ed attualissimi. Io stesso, col passare degli anni,
ho assunto un atteggiamento diverso, magari un poco più severo, nei confronti delle
mie composizioni, soprattutto di quelle giovanili, e finisco per scrivere sempre
di meno, mentre sento sempre di più forte l'esigenza di confrontarmi di nuovo con
i grandi classici di Cole Porter e della canzone americana, piuttosto che voler
riproporre delle cose mie. Almeno finchè non riesco a scrivere, come mi è capitato
negli ultimi anni, una musica "bella" nel senso che non piaccia solamente a me,
ma anche e soprattutto riesca a coinvolgere chi mi sta ascoltando.
Probabilmente, negli ultimi sessant'anni
o giù di lì, grazie all'avvento della tecnologia e dei mass media, diciamo dall'avvento
dei dischi a 33 giri in poi, è stata registrata talmente tanta musica, e c'è stata
una tale diffusione delle idee musicali nel mondo, che forse è venuto il momento
di fermarsi un attimo, guardarsi indietro e andare a ripescare qualcosa di estremamente
valido ed interessante che magari all'epoca è stato ascoltato ed archiviato tra
i "minori" in maniera un po' affrettata o superficiale.
E' vero, anche se questa operazione di rivisitazione non è affatto banale e pone
dei problemi. Ad esempio fare un tributo a Thelonious Monk, un compositore
di uno spessore e di una complessità notevoli, mille volte riproposto o rivisitato,
richiede un approccio, un punto di vista originale ed un'intelligenza musicale davvero
non comuni. Viceversa fare un tributo ad Oscar Peterson, non avrebbe secondo
me molto senso, trattandosi sostanzialmente di un interprete, un pianista eccezionale,
un fuoriclasse sul suo strumento, che però si è sempre mosso nel solco della tradizione
senza proporre grandi innovazioni. Analogo discorso si potrebbe fare, a titolo esemplificativo,
per Hank Mobley. Viceversa, se proprio si vuol fare un tributo, bisogna andarsi
a cercare l'aggancio giusto, e soprattutto con la motivazione giusta, come nel nostro
caso per Shelly Manne.
Parliamo un po' delle prossime date
dei tuoi concerti.
L'11 aprile all'Auditorium di Roma con un trio
nuovo di zecca con Peter Bernestein, alla chitarra e Rosario Bonaccorso
al contrabbasso. Bernstein è uno dei grandi chitarristi americani del momento, collaboratore
di Sonny Rollins
e di Brad Meldhau; cercheremo, con una formazione tipicamente intima, come il trio
per chitarra, di riproporre un repertorio di standard, andando tra l'altro a rivisitare
anche il repertorio di Monk, cui Bernstein ha recentemente dedicato un intero disco,
un autore certamente non facile da riproporre sulla chitarra. Più in aventi, la
prossima estate presenterò un nuovo gruppo cui tengo molto, un quartetto "americano",
visto che ormai io vivo tra Roma e New York, con una formazione di musicisti giovanissimi,
Melissa Aldana – ventunenne di origine cilena - al sax, Nir Felder
– ventiquattrenne - alla chitarra e
Joseph Lepore
– italo americano - al basso. C'è inoltre un secondo quartetto con musicisti pugliesi
con cui farò un mini-tour tra Svizzera e Germania a fine marzo.
In questi giorni è purtroppo obbligatoria
una domanda su Lucio Dalla, con cui hai avuto modo di collaborare.
E' stata davvero una bruttissima botta per una serie di ragioni: innanzitutto nessuno
se lo poteva aspettare, un uomo ancora giovane, musicista straordinario, con cui
avevo avuto occasione di collaborare più volte. Era un artista poliedrico, creativo,
amante della musica, del jazz e del bello in generale. C'eravamo tra l'altro incrociati
dopo una serata di Gino Paoli la scorsa estate in Sicilia, avevamo anche
fatto un concerto di jazz ad Ischia con
Danilo
Rea ed
Enzo
Pietropaoli, in cui lui aveva improvvisato al clarinetto su di un repertorio
fatto di standard. Era allo stesso tempo un gigante ed una persona semplice, una
semplicità che aveva sempre mantenuto anche grazie a questo contatto continuo con
il jazz. Certamente una grande perdita, ed una di quelle notizie che, apprese all'improvviso
dalla radio in macchina, non si vorrebbero mai ascoltare.
Hai avuto la fortuna di suonare fianco
a fianco con alcuni giganti del jazz, come Chet Baker o Lee Konitz,
che influenza hanno avuto sulla tua formazione artistica.
Ai tempi della mia collaborazione con
Chet Baker
ero molto giovane, e come tutti i giovani forse un po' incosciente, quindi non mi
rendevo ben conto del valore che potesse avere tutto questo. Certamente
Chet Baker
era già allora una leggenda del jazz, ma anche il fatto che in quegli anni lui fosse
così spesso in Italia, con la possibilità di incontrarlo normalmente anche nella
vita di tutti i giorni, non mi dava la sensazione di avere a che fare con un "mostro
sacro". C'è da dire che questa collaborazione si è evoluta ed è durata negli ani,
fino a pochi giorni dalla sua scomparsa. Ricordo infatti un concerto in suo onore
organizzato da
Enrico Rava al Teatro Carignano, con
Franco D'Andrea
al piano e Giovanni Tommaso, in cui ebbi la possibilità, per l'ultima volta,
di accompagnare Chet, che sarebbe tragicamente scomparso solo venti giorni dopo.
A posteriori ho realizzato l'onore che mi ha fatto
Chet Baker
- un artista tra l'altro che non amava molto i batteristi - nello scegliere proprio
me, giovanissimo, per accompagnarlo in tante occasioni. Probabilmente aveva realizzato
il fatto che in qualche modo io avevo "imparato la lezione", innanzitutto di suonare
"piano" rispettando la dinamica particolarissima della sua tromba, come è noto dovuta
anche ai problemi che aveva avuto a livello di dentatura. La stessa cosa si potrebbe
dire di
Lee Konitz, che è stato uno dei primi artisti americani che abbiamo
avuto la fortuna di accompagnare all'inizio della nostra carriera, assieme a
Danilo
Rea ed
Enzo
Pietropaoli, eravamo poco più che dei ragazzini. Konitz era un musicista
diverso, molto più intellettuale, un carattere molto volubile, un po' "freddo" molto
diverso da Chet. A quell'epoca Konitz era un musicista già molto sperimentale, che
faceva dei dischi come "Satori" con
Dave Holland
e Jack DeJonhette. Da lui abbiamo imparato quindi molte cose, soprattutto sul piano
del dialogo e dell'interplay all'interno di un gruppo. Poi ancora tante altre collaborazioni,
con George Coleman, Gato Barbieri, fino a quelle degli anni ottanta
con Michael
Brecker,
John Scofield.
Il rimpianto è che di questi artisti che provengono dalla grande tradizione del
jazz ce ne sono sempre meno, e non esito a dire che quando mi capita l'occasione
di collaborare con qualcuno di essi non mi tiro mai indietro. Ad esempio avrò presto
la possibilità di poter suonare con il grande pianista
George
Cables, un musicista che fino a qualche tempo fa poteva essere erroneamente
considerato"minore", ma che in prospettiva storica, è a sua volta da considerare
un gigante. Suonare con lui, che ha collaborato con Dexter Gordon ed Art Pepper,
è ricollegarsi ad una storia, anzi è suonare con un pezzo di storia della grande
tradizione del jazz afro-americano. Così come ho avuto una grandissima emozione
recentemente quando ho avuto la fortuna di assistere qui a Roma ad un concerto del
grande Louis Hayes, ottandadue anni, una leggenda della batteria nei gruppi
di Horace Silver e di Cannonball Adderley, ho provato di nuovo quel brivido che
purtroppo non sempre riesco a sentire andando ad ascoltare musicisti più giovani.
Tra questi ultimi devo dire che Brad Meldhau mi piace molto, lo trovo molto
interessante, ha quel "quid" in più che riesce ad emozionarmi, anche se non arriva
a provocarmi quel "brivido" che continuano a darmi i grandi del passato. L'importante
è che questa catena non si fermi mai passando da una generazione all'altra.
In conclusione è forse giunta l'ora che il testimone passi
dai "padri" a quelli della tua generazione, che debbono a questo punto raccoglierlo
per diventare a loro volta dei "maestri".
Mai come in questi anni ho avuto chiara l'idea di quanto sia importante il jazz,
anche per l'evoluzione di tutta la musica in generale. Dire che il jazz è morto
è una cosa che fa male. Forse è finito quel tipo di jazz, che nel frattempo si è
trasformato in un'altra cosa. Forse è finita un certo tipo di storia ma ne sta cominciando
un'altra. Dire che tutto si è fermato al 1948 e che si possa solo riproporre il
passato è un pensiero estremamente pericoloso. Ognuno di noi può e deve andare avanti,
scrivendo e suonando la propria musica, attingendo dal passato e guardando al futuro.
Bisogna essere aperti a tutto ciò che ci accade intorno ed è questo poi che fa la
differenza.
Tour Gatto Feat. Bernstein
- 11 aprile Carta Bianca a
Roberto Gatto
Auditorium Parco della Musica
Roberto
Gatto, batteria - Peter Bernestein, chitarra - Rosario Bonaccorso, contrabbasso:
12 aprile Sestri Levante Club
13 aprile Torino Jazz Club Torino
14 aprile Il Torrione Jazz Club @Ferrara
15 aprile Panic Jazz Club @Marostica
16 aprile Il Cavatappi Jazz Club @Calcinaia (PI)
17 aprile Cantina Bentivoglio @Bologna
27/08/2011 | Umbria Jazz 2011: "I jazzisti italiani hanno reso omaggio alla celebrazione dei 150 anni dall'Unità di Italia eseguendo e reinterpretando l'Inno di Mameli che a seconda dei musicisti è stato reso malinconico e intenso, inconsueto, giocoso, dissacrante, swingante con armonizzazione libera, in "crescendo" drammatico, in forma iniziale d'intensa "ballad", in fascinosa progressione dinamica da "sospesa" a frenetica e swingante, jazzistico allo stato puro, destrutturato...Speriamo che questi "Inni nazionali in Jazz" siano pubblicati e non rimangano celati perchè vale davvero la pena ascoltarli e riascoltarli." (di Daniela Floris, foto di Daniela Crevena) |
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Data pubblicazione: 07/04/2012
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