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Sotto la pioggia il Jazz: Intervista a Gianluca Petrella
di Caterina Finelli

In occasione dell'appuntamento di aprile della rassegna Under Construction 2005 incontro il trombonista Gianluca Petrella: un artista di rara espressività e personalità esecutiva.

L'esperienza acquisita sui palchi nazionali ed europei è la chiave di volta della sua evoluzione artistica: sulle scene sin dal '93 con Roberto Ottaviano, ha poi affinato e maturato il talento naturale attraverso numerose collaborazioni con jazzisti italiani e stranieri, tra cui Roberto Gatto, Paolino Della Porta, Greg Osby, Steve Coleman e Enrico Rava.

Quest'anno, affiancato da Furio Di Castri e dalla LabDance Orchestra, propone al pubblico torinese un progetto affascinante, incontrando gli esponenti più interessanti del panorama jazzistico italiano: da Maria Pia De Vito ad Antonello Salis passando da Paolo Fresu e Nguyen Le.

Tra idee d'avanguardia e rivisitazioni di classici Torino si colora di nuove e attraenti atmosfere.

Gianluca è mezzo bagnato quando appare nell'abitacolo dell'auto scelta come sito dell'intervista: lo sguardo velato dagli occhiali e l'aria serena rivela l'ottimo esito dell'esibizione di ieri sera a fianco del pianista Danilo Rea. Torino batte le ginocchia sotto la sua sottana grigio fumo, ma nonostante il clima il giovane trombonista si racconta con ironia tra excursus autobiografici e anteprime sulla sua prossima stagione concertistica.

C.F.: Partiamo dalla tua biografia: molti sottolineano che hai conseguito il Diploma di Conservatorio col massimo dei voti..
G.P: Quella nota dovrò cancellarla! È vero, sono uscito col massimo dei voti ma non ero il primo della classe, non amavo molto studiare. Oltretutto il Diploma col jazz c'entra poco, se non per la tecnica che si acquisisce, perché lì si impara a studiare con molto metodo. Inoltre il jazz in Conservatorio è abbastanza odiato!

C.F.: Come mai?
G.P.: Alcuni insegnanti sono contro tutta la musica che non è classica: ho conosciuto molti di questi personaggi coi "paraocchi". Non sono molto d'accordo su questa metodica: una volta entrati in Conservatorio non si diventa di proprietà dell'insegnante, ed è sbagliato cercare di plasmare un allievo di grande talento che però non guarda alla musica classica. Personalmente non ho mai avuto problemi col mio professore: con lui c'è stato uno scambio di opinioni all'inizio e poi pian piano ha capito che mi muovevo molto di più su altre lunghezze d'onda e mi ha lasciato fare.

C.F.: Parlami del rapporto con la tua famiglia: hanno sempre incentivato la tua passione per la musica?
G.P.: Sì, in una famiglia di musicisti è normale: lo è mio padre, i miei fratelli, i miei nipotini lo saranno...mio padre spesso mi portava con sé e in passato abbiamo anche fatto cose insieme, tanto che non mi avrebbe mai detto «Vai a lavorare!».

C.F.: Nel '97 è iniziata la collaborazione con Enrico Rava, come sei entrato in contatto con lui?
G.P.: L'avevo conosciuto durante un corso a Siena, avevo diciassette anni. Nel '97 mi trovavo a Francoforte, sono tornato in Italia perché mi aveva offerto un tour in Canada [Il Festival International de Jazz de Montreal, N.d.R]. Era la mia prima vera uscita e ricordo tutto come bellissimo, perché si tratta di uno di quei festival con più concerti al giorno, palchi in tutta la città, un'atmosfera in cui si rimane travolti dalla musica. Tra l'altro ci torneremo anche questa estate.

C.F.: Data la tua intensa attività artistica all'estero, hai potuto rapportarti ad altre realtà. Come confronteresti la scena musicale italiana rispetto a quella presente in Europa?
G.P.: In particolare, sono stato un anno in Germania. Devo dire che come scena non è male, è molto più d'avanguardia rispetto a noi. I musicisti non corrono, non vogliono arrivare chissà dove, la vivono con molta calma. Io ho vissuto a Francoforte, che è bella, divertente, molto ricca, ma che per la musica jazz non dà come Berlino o Colonia, città che invece mostrano più avanguardia. Diciamo che Francoforte è molto più avanti per quanto riguarda l'economia: c'è la borsa, la Bundesbank, l'Eurotower...è la Milano tedesca! In Italia si va un po' troppo dietro alla cose fatte bene, commerciali, c'è poca cultura per l'avanguardia. Non voglio mitizzare alcun Paese in particolare, ma questa mancanza è un dato di fatto, lo vedo con i miei occhi e lo leggo su molte riviste specializzate. A volte mi sembra di assistere alla grande abbuffata: il superteatro, la supersignora, la superpelliccia… [ride] poi non è sempre così, da noi al Soundtown cerchiamo di proporre tutt'altra realtà, però spesso attorno alla musica in Italia c'è questo alone patinato che non mi piace molto.

C.F.: Il jazz dovrebbe avere una spiccata componente dinamica e improvvisata, ma ne esistono infinite varianti. Alla luce di questo come commenteresti l'esibizione di ieri sera?
G.P.: È vero, il jazz è fatto di diversi rami che partono da un unico tronco: può esserci il ramo della musica improvvisata, che ieri sera in parte c'era assieme alla struttura, e lì ognuno crea un proprio spazio improvvisativo; può esserci il ramo un po' più quadrato che è lettura e improvvisazione di un solo chorus; quello ancora più schematico, e lo vedi perché appartiene a quei personaggi che sono quadrati proprio dalla testa ai piedi, tanto che potresti benissimo scambiarli per...non jazzisti o facenti parte di qualsiasi altra categoria..

C.F.: Intendi impiegati?
G.P.: Non lo volevo dire! [ride] Comunque, andando più verso l'estremo opposto, ci sono quei musicisti che non decidono nulla prima di esibirsi, poi salgono sul palco e suonano: quella è avanguardia, improvvisazione, free jazz...

C.F.: Ti è sicuramente capitato..
G.P.: Sì, certo. Adoro suonare in quel modo, anche se purtroppo non sono circondato da persone che amano farlo. In fin dei conti ci vuole anche un po' di passione, di attitudine nel proporre quel tipo di musica: è molto seria, non è jazz per tutti, o "da supermercato". È più di nicchia e da noi non esiste, o pochissimo. Suonare così mi è molto più spontaneo e semplice all'estero, o con musicisti stranieri, oppure dove comunque c'è la cultura di quel particolare suono.

C.F.: Parliamo di Furio Di Castri: come ti trovi a lavorare con lui?
G.P.: Potrai benissimo immaginare quali siano le difficoltà nell'arrangiare tra i miei impegni e i suoi! Più o meno sin dall'inizio ho lasciato fare a lui, e questo perché essendo anche insegnante al Conservatorio ha un metodo più pratico e veloce; inoltre spesso trascorro lunghi periodi in tour e ho poco tempo. Furio sa molto bene quali voci assegnare ad ogni strumento, ecco perché il lavoro pratico spesso è lui a svolgerlo, ma decidiamo anche molto insieme.

C.F.: Il vostro progetto, Under Construction, vi vede affiancare con originalità artisti dalle sonorità più disparate. Qual è stata l'idea cardine che vi ha guidati nella realizzazione?
G.P.: Io e Furio abbiamo alle spalle quattro anni di lavoro insieme, dunque un giorno ci siamo detti: «E se facessimo una cosa qui in città, tra di noi, invitando amici nostri...?». La nostra intenzione era infatti quella di creare un laboratorio, di chiamare persone e cambiare sempre scaletta, il che se vogliamo è un azzardo. Lo scorso anno abbiamo fatto otto concerti in duo, e per ogni serata c'era un ospite. Quest'anno anziché essere in due abbiamo voluto in un certo senso esagerare: siamo quasi sempre in otto! Cerchiamo di tirare fuori idee nuove, spontanee, non prestabilite: per me questo è il modo migliore di lavorare.

C.F.: Tornando a ieri sera, quali sono le tue impressioni ora che la rassegna sta per giungere al termine?
G.P.: Be' ieri sera...siamo alla fine della rassegna e l'aria viene sempre meno [ride] perché il posto è abbastanza piccolo, la gente tanta, accogliente...ieri sera c'era come ospite un grande pianista, Danilo [Rea, N.d.R.]. In passato abbiamo ospitato altri grandi nomi: Maria Pia De Vito, Antonello Salis, Roberto Gatto...la rassegna è partita al freddo ecco, nel senso che all'inizio lì sotto si stava freschi mentre ora più si va avanti e più la situazione diventa incandescente, sia a livello climatico che musicale! Questo perché l'abbiamo pensata sin dall'inizio come una sfida: ogni mese un artista diverso e ogni mese una scaletta differente, ad hoc per l'occasione.

C.F.: Avete già in cantiere qualche idea per il futuro?
G.P.: Vorremmo portare avanti l'esperimento sull'orchestra: migliorare il suono e sfoltire perché organizzare nove persone a livello di strumentazione e spazio è difficoltoso. Al Soundtown ci sono troppi rientri, il posto è un po' piccolo e basso e l'acustica molto chiara necessita attenzione. L'anno scorso non avevamo problemi di questo tipo perché l'organico era più ridotto e non eravamo circondati da una giungla di microfoni. La nostra intenzione, dopo un anno di lavoro con la LabDance Orchestra e la partecipazione all'Eurojazz 2005 di Ivrea, è di portare in giro il progetto, in modo che rappresenti il frutto del lavoro svolto in questi sedici concerti.

C.F.: A maggio poi chiuderete in grande stile con John De Leo: come lo definiresti?
G.P.: É un interprete mostruoso, preparatissimo. Mi piace molto perché è uno dei pochi ad usare la voce in maniera non convenzionale.

C.F.: Cambiando argomento, so che parallelamente all'attività concertistica talvolta vesti i panni del DJ...
G.P.: Mah, quello è solo un mio schiribizzo...Dj, state tranquilli, non verrò mai a rompervi le uova nel paniere! Mi diverte molto perché penso che un Dj debba proporre la musica che in quel momento sente come la più bella per sé; lasciamo perdere poi quando si va nelle discoteche e ci sono i Djs bunzbunz [mima il gesto] che usano solo casse e frequenze basse che ti arrivano dritte nello stomaco. Spero che un disc-jockey una volta tornato a casa non continui ad ascoltare quella roba, mi auguro che abbia tante altre cose diverse. Per me non è importante che ci siano necessariamente delle parti acustiche mescolate alle digitali, perché molti riescono a fare musica bella senza avvalersi di alcun strumento musicale.

C.F.: Fammi un esempio, a te cosa piace proporre?
G.P.: Ascolto molto Llorca e Laurent Garnier dunque i bpm variano, la gente ascolta...anche se poi ci sono quelli che vengono a dirmi «ma non puoi mettere una canzone per farmi ballare?» o che non intuiscono che io coi Dire Straits non c'entro nulla! Capisco, ciò che preferisco può anche non piacere o non far muovere il sederino al tipo un po' più esigente, ma io faccio musica da ascoltare, mica per ballare.

C.F.: Eppure ieri sera c'erano persone che sembravano tarantolate...
G.P.: Be', significa che c'era l'atmosfera giusta per muoversi, il groove!







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Data pubblicazione: 22/07/2005

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