L'incontro tra l'europeo piano e le tribali percussioni costituisce il
primo vagito del jazz.
Stefano Battaglia incontra Michele Rabbia. E viceversa. Si incontrano
per la seconda volta in questa "mini saga" di raffinatezze musicali dal lessico
non comune, elaborata ed impermeata di ricerche maliziose e provocatorie.
Un percorso che mostra una maturità non solo di coppia ma personale. Entrambi
hanno costruito nuove sonorità che hanno riversato in questo lavoro.
Le curve astratte di alcuni brani (Perpetual,
The Harper) s'intersecano
con la robustezza lirica di altri (Refuge)
che sprigionano tutta la sagacità interpretativa di Battaglia, immune da leziosità,
che ben si fonde con i contrasti ritmici, timbrici ed anche melodici liberati da
Rabbia.
Come nel precedente, il tema dell'improvvisazione e la ricerca di suoni
sempre differenti pervade anche questo lavoro.
Particelle di arabiche liturgie che stimolano tutta la robusta fantasia
di Michele Rabbia e la sensuale ed avvolgente forza espressiva di Battaglia(Song
from the Grass).
La conoscenza dei suoni ed anche dei rumori a tratti urbani (The
Cure, Fugata for prepared
Piano and tuned bell's orchestra), con sfumature di scontroso nervosismo,
a tratti eterei, celestiali (Preghiera
della sera).
Battaglia e Rabbia si compenetrano e si comprendono al volo. Senza
forzature. Ed è un lavoro scevro da colpi di maglio d'assestamento. E' libero da
vincoli, sereno e costruito su dei binari ampiamente collaudati. Il muoversi tra
degli schemi inesistenti è la forza di questo lavoro. Schemi mai esistiti, un lavoro
che evidenzia il gran senso del ritmo di entrambi i musicisti.
Battaglia mostra tutta la sua maturità. Il suono è sorprendentemente pulito
sia quando tocca il piano e sia quando tocca il fender rhodes ed anche allorquando
appare ispirato dal miglior Jarrett, lo fa con una cifra personale (The
Gift).
Michele Rabbia si conferma un percussionista poliedrico dotato di una
particolare musicalità e di una dote non comune: saper dosare i tempi e saper essere
ugualmente puntuale sia sui ritmi veloci e sia nel narrare i temi più struggenti.
Alceste Ayroldi per Jazzitalia