Quattro chiacchiere con...Stefano Battaglia
novembre 2015
A cura di Alceste Ayroldi
Stefano, quale aspetto della musica
di Alec Wilder ti ha convinto di più tanto da volergli dedicare un lavoro discografico?
Sono tanti i motivi, di base considero Wilder insieme a Hoagy Carmichael
il miglior songwriter americano del Novecento. Possiede una qualità melodica
speciale con un uso di intervalli inconsueto, non sempre facili. Testi mai banali,
qualità non diffusissima a Broadway e Hollywood. Lo sforzo singolare di costruire
un archivio prezioso in pura tradizione liederistica, le Art Songs, musicando
poeti americani e anglosassoni del Novecento, in continuità virtuosa con quella
europea ottocentesca, basti pensare a Schubert con Goethe. Incredibilmente, a differenza
dei "grandi cinque" (Berlin, Kern, Porter, Gershwin e Rodgers), a Wilder manca la
meritata vasta gamma di interpretazioni da parte degli eroi del jazz e di cui hanno
beneficiato i sopra citati; solo una manciata di sue canzoni sono rimaste nel
songbook del jazzista, a discapito di una produzione e una continuità creativa
immensa per quantità e davvero notevole per qualità. Insomma ancora nessuno ce lo
ha ancora raccontato e "spiegato", Wilder, è ancora lì quasi intatto, e di fatto
molti dei brani che ho in repertorio sono totalmente inediti, per quanto riguarda
il mondo del jazz. Questo mistero, questa "verginità" è irresistibilmente affascinante,
e il fatto di non avere nella testa modelli sublimi regala una libertà speciale
che tanti standard non riescono più ad offrire.
Questo progetto rientra in quel
percorso che avevi iniziato nei primi anni del Terzo Millennio, denominato The Book
Of Jazz?
Ho sempre sentito il bisogno di tanto in tanto di collegarmi profondamente con le
tradizioni, però sento Book of Jazz lo sviluppo di un percorso iniziato all'inizio
degli anni Novanta con i due volumi dedicati ai brani di
Bill Evans.
Mentre il lavoro sulle song è completamente diverso, deriva dalla sacrale
importanza che la melodia ha guadagnato nella mia poetica nel corso degli ultimi
dieci anni, dal lavoro dedicato a Pasolini in poi.
Prima di affrontare il canzoniere di Alec Wilder hai approfondito
anche la sua biografia? In tal caso, c'è qualcosa dell'uomo Wilder che ti ha colpito?
Il lavoro su Wilder è cominciato a metà anni Novanta, quando di lui sapevo pochissimo
e mi fu chiesto di suonare in prima europea la sua sonata piano e corno. Conoscevo
giusto I'll be around che suonavo nel gruppo di
Tiziana
Ghiglioni, alcune popular songs attraverso Peggy Lee e Sinatra, e le
intense versioni strumentali di Jarrett di Blackberry winter e
Moon and sand. Durante i vent'anni di esplorazione nel mondo wilderiano ho letto
anche le sue biografie, che anno contribuito ad aumentare il desiderio di dedicare
tempo ed energie alla sua musica. Un americano atipico: riservato, modesto, autoironico,
tranquillo, decisamente un americano che non ti aspetti, nel senso che sembrava
voler restare il più possibile lontano dalla scena e dagli affari, dalla competizione
e il clamore del modo dello spettacolo, addirittura quasi ritirato dalla vita newyorkese,
dimostrando scarsa adesione alle regole del modernismo consumistico delle metropoli.
Al contrario ciò che lo rendeva profondamente americano, in un modo quasi paradigmatico,
era l'amore profondo per la sua terra, la Vecchia America e la pace della sua campagna,
l'America delle montagne, dei fiumi impetuosi e dei laghi ghiacciati, quella dei
lunghi viaggi in treno nelle province, attraverso le praterie, l'America incontaminata
dei cieli, delle foreste e delle rocce, quelle degli indiani e degli orsi. Sembrava
appartenere ad una retroguardia colta e raffinata, persuasa che tutto quello sviluppo
sfavillante nascondesse anche una decadenza, e questa malinconica lucidità invadeva
ogni aspetto della sua vita e dunque della sua musica in una sorta di romanticismo
americano pre-industriale. Questa tendenza verso la cultura europea si è evidenziata
nel tempo attraverso l'imponente opera cameristica, che ha tuttavia mantenuto elementi
di contraddizione, o meglio di contaminazione, mettendo in dialogo e contrasto elementi
popolari tipicamente americani e tardoromantici con una scrittura musicale pantonale
o post-tonale, ibrida e assai originale, anche rispetto a celebri compatrioti come
Ives, Gershwin o Bernstein, che, sebbene assai diversi tra loro, sembravano comunque
rappresentare meglio l'America ottimista -e imperialista- del novecento.
L'idea di farne un album è nata prima o dopo il live di
Torino?
Molto prima. L'amico e musicologo Stefano Zenni ha seguito ed aiutato attraverso
consigli e materiale prezioso tutto il progetto sin dal
2005, quando incominciai a fare dei concerti monografici nei conservatori.
Da qualche anno Stefano è anche il direttore artistico del festival di Torino, sa
bene che ho deciso di registrare gran parte delle songs wilderiane su cui ho lavorato,
e ci è sembrata perfetta l'idea di chiudere un circuito virtuoso registrando lì
il primo capitolo del progetto. Da tempo sono convinto che la performance è l'ambito
ideale per documentare la vita del Trio, e grazie all'aiuto combinato di Zenni e
ECM siamo riusciti a organizzare il live, con un buon teatro in legno, un buon pianoforte,
lo studio mobile di Stefano Amerio. Suonammo più di due ore, compreso i bis, ricavando
subito la sensazione di aver fatto un concerto intenso e gratificante, e Eicher
ha poi scelto un'ora di musica per produrre l'album.
Al tempo, la musica di Wilder non veniva classificata:
i classici la ritenevano fuori dal loro novero, i jazzisti anche e men che meno
la si annoverava nell'avanguardia. Pensi che queste distinzioni siano importanti?
Personalmente non ho alcun interesse riguardo a categorie musicali come "avanguardia"
o "retroguardia", al vecchio e al nuovo. Naturalmente ho le mie opinioni, non credo
che il jazz possa essere una musica di repertorio, e generalmente ho più rispetto
e ammirazione per chi cammina in avanti, che affronta il buio, che scava, inventa,
cerca e trova. Le nuove musiche hanno bisogno di talento, determinazione, coraggio
e sostegno. Ma allo stesso tempo sono conscio che ogni universo poetico, anche il
più innovativo, è portatore sano di tradizioni, e le porta con sé anche quando nemmeno
se ne accorge. Nella musica oggi è tradizione Ligeti come il canto gregoriano. Lo
è Stockhausen come John Dowland. Non trovo che uno sia più "vecchio" dell'altro,
mi sento di dire che tutti gli affluenti del fiume diventano acqua dello stesso
fiume. E' ridicolo chi rifiuta il divenire della storia così come chi rivendica
ancora come "avanguardia" linguaggi di cinquant'anni fa, solo per manifesto ideologico.
Non esiste dissonanza sul pianeta che non sia stata già scritta, suonata, studiata
e storicizzata. La musica è cibo dello spirito, e come per ogni nutrimento ho la
possibilità di scegliere di volta in volta come sfamarmi, di cosa nutrirmi. Oggi
la nostra tavola è infinitamente imbandita, sta a noi provare ed apprezzare più
o meno i diversi sapori, ma per me un cluster e una triade perfetta sono entrambi
tradizione, potenzialmente belli o brutti allo stesso modo; cibi potenzialmente
nutrienti allo stesso livello, la differenza sta nel modo in cui vengono "cucinati",
non la loro origine epifanica o "età anagrafica". Nel caso di Wilder si ha la sensazione
che fosse da un lato troppo sofisticato per la comunità del jazz e delle sue forme-canzone,
e dall'altro troppo poco ambizioso, austero e rigoroso per la comunità ufficiale
dei compositori cosiddetti colti. Quanti compositori europei scrivono canzoni? Qui
in Europa si è tracciato un doppio solco praticamente incolmabile, tra l'avanguardia
colta e "il resto dell'umanità": il solco del "prima e dopo la tonalità" e il solco
colto-popolare. Chi non ha mai abbandonato del tutto la tonalità, pur nelle sue
più varie e liberi interpretazioni, non è stato più accettato dalle avanguardie
ufficiali, la comunità dei compositori contemporanei. Io considero un cluster e
una triade perfetta entrambi strumenti tradizionali allo stesso modo e sullo stesso
piano, semplicemente come possibili ingredienti a disposizione per raccontare una
storia organica e coerente, vera ed intensa. Chi ha cercato di veicolare contenuti
di tipo culturale in un ambiente popolare dove, specie dalla nascita del disco in
poi, le scelte di contenuto venivano sovente soppiantate da logiche di mercato,
è stato emarginato dal sistema stesso, il cosiddetto business. E così lo iato tra
la musica popolare e la musica contemporanea si è allargato straordinariamente e
come mai prima era avvenuto, creando tra un estremo e l'altro, tra il pop e le avanguardie
colte, una specie di enorme terra di mezzo nel quale una figura di Wilder ha vissuto
la sua stagione creativa. Tornando a Wilder, si fatica ad immaginarlo trionfare
a Broadway o a Hollywood, è più semplice immaginarlo insegnare musica all'università
o dirigere il suo ottetto con gli studenti del college, per comprendere la sua figura
in relazione al panorama del suo tempo. Molti musicisti americani del novecento
sono l'esempio più esemplare di questa spaccatura, essendo l'America un autentico
rifugio di linguaggi diversi e dunque di contaminazioni! E musicisti come Gershwin,
Bernstein o Wilder, persino Ives, sono un manifesto paradigmatico di queste contraddizioni.
Dal repertorio di Wilder hai attinto sette brani. Perché
hai scelto proprio questi?
Sono più di sessanta le song su cui ho lavorato, che ho ri-arrangiato e, in qualche
caso, quasi ri-composto. Con una attenzione particolare per le Art Songs,
che Wilder scrisse su testi di poeti fine ottocento-primi novecento, tra cui
Tennesse Williams, William Butler Yeats, Christina Rossetti. L'album
contiene Art Songs -In theMorning, River Run, When I'm Dead My Dearest e The
Lake isle of Innisfree, su di una poesia di Yeats che sembra un'inno irlandese
ottocentesco, sia Popular Songs -Moon and Sand, Where do you go? e
Chick Lorimer. Quella sera scegliemmo una dozzina di brani per il concerto,
ad esempio ricordo suonammo anche una lunga suite che univa due songs tratte da
Pinocchio e Alice in Wonderland (Beautiful Soup e Lobster Quadrille).
E da quel concerto è stata estrapolata l'ora sufficiente per creare l'album.
L'arrangiamento dei brani è spontaneo o hai lavorato anche
"a tavolino"?
Già da molti anni, e oggi più che mai, la priorità è l'adesso, dunque per
me non è assolutamente necessario avere delle forme preesistenti, anzi: la mia ambizione
più grande sarebbe sempre creare delle forme istantanee, create nel momento.
Quando invece faccio uso di composizioni preesistenti è necessario evitare dettagliati
arrangiamenti, e semmai costruire a tavolino delle forme che consentano di esprimersi
spontaneamente nel presente, dunque formalizzando il meno possibile.
Non amo gli arrangiamenti, sono il manifesto della rappresentazione, obbliga
ad identificarsi nel passato, mentre il presente è l'unica cosa che conta, specie
per dei performers. Ricostruire queste forme è un processo delicato e decisivo,
si tratta di "contenitori" sufficientemente precisi, utili a contenere la manifestazione
musicale, che è la magia che più mi attrae nella vita musicale, accoglienti
le caratteristiche performative del trio, che ha bisogno dell'urgenza espressiva
dell'improvvisazione per potersi veicolare verso l'esterno con la giusta intensità.
Tutto normale quando le composizioni sono le mie, più sottile e fragile quando opero
su musica altrui, provando a rielaborare nel modo più libero e personale possibile
pur senza perdere di vista l'etica, il rispetto nei confronti del lavoro del compositore
che sto omaggiando, e che non voglio mai e poi mai sfruttare pretestuosamente.
Oggi, a tuo avviso, c'è un erede di Alec Wilder in circolazione?
Difficile. Eredità è una parola bellissima e ambigua allo stesso tempo, nell'arte.
Tutto proviene da un unico fiume e ogni secondo che passa questo fiume s'ingrossa,
il suo letto è sempre più ampio. Sotto certi aspetti invidio la libertà di Bach
e di Scarlatti, con un piccolo fiume protetto a cui riferirsi. Talvolta le
tradizioni oggi appaiono davvero troppe per sperare in individualità protette e
dunque espressivamente potenti. Per contro i linguaggi sono sempre più sfumati nei
contorni, imprecisi, contaminati, articolati, sovrastrutturati. Wilder è il perfetto
simbolo della sua epoca, il Novecento, e dei suoi luoghi, l'America. Ogni tempo
ha i suoi Wilder, ma ogni stagione è diversa, il contesto è diverso. Mi sembra per
la canzone un'epoca di specialisti, è difficile ritrovare compositori colti così
trasversali in modo innocente, con il piede in due scarpe come Wilder. Se qualcuno
ci provasse passerebbe per ingenuo, o furbetto, secondo i casi. Non è più tempo.
Persino Morricone, che potrebbe rappresentare quel tipo di alto artigianato in bilico
tra colto e popolare, non scrive più canzoni da tempo, per quanto ne so. E' così
complicato il mestiere del compositore, così come dopo cento anni di radio e dischi
è complicato il mercato della canzone...non è più la golden age del teatro,
della rivista, il boom del cinema. Scrivere una canzone sembra essere diventata
una specializzazione come trapiantare cuori! Io oggi ascolto pochissima musica che
scelgo accuratamente proteggendola dalla curiosità feroce che avevo da bambino.
Sto nella musica intensamente ogni giorno, spesso tutto il giorno, dunque il più
delle volte manca lo spazio per un ascolto appassionato, cerco maggiormente il silenzio,
che mi ridona il desiderio di far musica intensamente ogni giorno. Sono in una stagione
di protezione del desiderio, e non della curiosità. Idealmente rimarrei con cento
dischi, non con diecimila, fossi davvero forte mi spoglierei degli altri 9900! Tornando
all'eredità sento belle canzoni in ogni epoca, e anche ora c'è sempre qualcuno da
qualche parte che riesce a scrivere una bella canzone. A volte quando sono in macchina
e guido, accendo la radio, e trovo sempre una bella canzone. Mi sembra che la scena
inglese da quasi mezzo secolo abbia una marcia in più, dopo lo zenith americano
del tempo delle due guerre.
I tuoi sodali sono "intoccabili" per te. Quali sono gli
elementi che ti legano di più a loro?
E' vero, in musica mi piace costruire dei sodalizi, mi appassiona il cammino, la
crescita, la ricerca. E' vero che la musica può regalarti magie sublimi anche negli
incontri occasionali, specie se i partner hanno talenti, sensibilità. Ma esteticamente,
è molto difficile ottenere degli oggetti musicali pienamente centrati, quando non
si ha tante ore di lavoro insieme sulle spalle, e non si ha profonda conoscenza
delle specifiche caratteristiche individuali di ogni componente della band. La musica,
senza quel lavoro, anche quando magica sembra fuori fuoco da un punto di vista estetico,
perché ognuno pensa un poco a sé, anziché solo all'oggetto, alla musica. Meno
soggetto c'è è più oggetto otteniamo. Con gruppi di lunga durata tu puoi
lavorare nel tempo attorno ad un territorio estetico comune, dove tutti sono identificati
allo stesso modo, e allora scompare l'ego, tutti pensano solo alla musica, al suono,
alla storia che si sta raccontando. Il trio si è costituito attorno al valore identificante
del suono. Tutti e tre abbiamo compiuto un percorso individuale sul suono che ha
reso identificante la voce ottenuta dai nostri strumenti. Ciò rende unica la voce
che abbiamo sullo strumento, che non significa nulla di più che questo. Non vuol
dire che allora è bello quello che suoniamo, ma vuol dire che nessuno suona come
noi, che è un fatto. Ottenere una identità di gruppo, specialmente attraverso il
suono, è un risultato importante. Naturalmente ci sono molte altre cose, ma alla
fine mi sembra che questo sia il legame più potente, tra noi.
Hai mai pensato di aggiungere uno strumento al tuo trio?
Certamente sì. Arriverà certamente il momento in cui questo pensiero si trasformerà
in esigenza e opportunità. Al momento però è troppo forte l'identità conquistata
con questa combinazione di persone per pensare di ricostruire nuovi equilibri. Anche
pensando ad un mercato così saturo di proposte, ho la sensazione che sia più opportuno
concentrare gli sforzi attorno a poche proposte che abbiano la forza della continuità
e dei contenuti, anziché inseguire una molteplicità di contesti espressivi a ventaglio.
Recentemente, innescatosi una collaborazione con il cantante tedesco Theo Bleckmann,
a proposito di Wilder e della particolare bellezza di certi testi che ovviamente
non si palesano nelle nostre versioni strumentali, mi sono reso conto di quanto
sarebbe adatta la sua vocalità intensa per certe song di Wilder. Vedremo.
E' la dimensione nella quale ti trovi più a tuo agio?
Il piano solo è certo la dimensione più libera e potente, senza alcun compromesso
espressivo, senza alcuna ricerca di equilibrio con altre individualità. Ma io non
voglio essere a mio agio, io cerco il mistero nella musica, ho bisogno di perdermi
in essa. Guai se sentissi i partners "accompagnarmi", la tensione deve essere quella
di chi esplora, cerca, scopre, rivela. Quando si è rilassati la musica sembra essere
un pò noiosa, perché non assomiglia più alla vita, ma solo alla rappresentazione
della parte più "comoda" di essa. Il trio, sin dai miei esordi a metà anni Ottanta,
è stato al centro delle mie ambizioni espressive, e certo molte delle mie energie
sono andate verso questa combinazione geometrica e magica.
Da tempo sei legato all'Ecm. Come sei arrivato a casa Eicher?
E' una storia divertente che sia io che Manfred abbiamo sempre raccontato per svelare
la natura semplice della nostra collaborazione, di quanto sia vero che "le cose
vanno come devono andare".
Avevo registrato un album in Trio con Pifarely e Rabbia -per un'altra casa discografica-
nello studio Artesuono di Stefano Amerio. Il giorno dopo, ed io non sapevo, Rava
sarebbe stato nello stesso studio a mixare insieme ad Eicher il suo album Easy
leaving, che segnava il suo ritorno in ECM. In una pausa del mix di Rava Amerio
approfittò per portarsi avanti col lavoro fatto insieme a me il giorno prima e riversò
tutto il registrato sui cd pronto-ascolto che avrebbe poi dovuto spedirmi in modo
che io potessi ascoltare quanto avevamo registrato. Eicher era lì e gli capitò di
ascoltare, rimase evidentemente colpito al punto che io ricevetti immediatamente
una telefonata, all'inizio della quale pensavo ad uno scherzo, visto che Amerio
mi disse -C'è qui vicino a me Manfred Eicher che vuole parlarti, te lo passo- e
sembrava davvero una specie di gag alla "Scherzi a parte". Ebbene mi chiese se ero
libero da contratti ma io avevo appena firmato per un'altra casa, con la quale stavo
costruendo il progetto dedicato a Pasolini, sul quale stavo lavorando. Allora mi
diede un appuntamento a Monaco nel quale mi palesò un entusiasmo davvero coinvolgente,
tanto da propormi due album doppi come saluto alla nascita del sodalizio. Indescrivibile
la mia emozione durante quella conversazione. Sarò sempre riconoscente anche alla
persona dell'altra etichetta che comprese perfettamente la situazione e rescisse
il contratto senza alcuna rivalsa o reazione egotica, sapendo cosa significasse
per me simbolicamente registrare per ECM.
Quanto incide nella tua musica l'appartenenza a questa
prestigiosa casa discografica?
Sono cresciuto con ECM. E' la mia casa. Se per quelli delle generazioni che mi hanno
preceduto le case in cui crescere erano Prestige, Verve,
Blue Note,
Impulse ecc, e gli inquilini erano Parker, Davis, Rollins, Coltrane ecc., per me
che sono cresciuto nello stimolante caos multiculturale degli anni settanta, ECM
era il paradigma di una cultura più trasversale, anche più universale, e i suoi
eroi erano Bley e Jarrett, Towner e Gismonti, Garbarek e Wheeler, ecc ecc. Quello
è il "brodo" nel quale mi sono cotto a partire dall'adolescenza. E per qualsiasi
artista è come scegliere inconsciamente in quale terra e in quale vaso far crescere
il proprio seme. Inoltre, la trasversalità del catalogo è stata per me una guida
a considerare la musica un luogo senza ideologia e distinzione di "razze e religioni",
attraverso la politica culturale di ECM ho compreso profondamente quanto la bellezza
conviva a prescindere dal "vestito" dello stile e del linguaggio, prendendo le distanze
con quegli appassionati un po' ideologici che tendono di più a costruire divisioni
e parrocchie culturali. E così in quella casa convivono Gesualdo e l'AEOC, Bach
e Ornette, la musica indiana e il folk nordico, Scelsi e Beethoven, le tradizioni
arabe e le avanguardie mitteleuropee: il jazz europeo (o sarebbe meglio dire le
nuove musiche di emanazione jazzistica) è tutto rappresentato, dalla Francia alla
Grecia, dalla Norvegia all'Italia, Inghilterra e Germania. Questa lucidità culturale,
questa visione poetica del tutto potenzialmente unito dal comune denominatore della
bellezza dell'espressione, è unica al mondo: nessun altra casa di qualsiasi genere
e linguaggio è riuscita in questo ideale esperanto.
Stefano, a tuo avviso c'è qualcosa che non va per il verso
giusto nel sistema jazzistico italiano?
E' una domanda complessa. Direi che esiste un disagio profondo nella sistema culturale
italiano, i problemi nella comunità jazzistica sono la conseguenza di uno svilimento
della politica culturale. Il confine tra spettacolo e cultura è sbiadito, ahimè.
Quando la politica culturale diventa ostaggio del mercato, la confusione tra ciò
che "piace e vende" e ciò che si ritiene utile per l'evoluzione della civiltà diventa
implacabile. Non faccio una distinzione di qualità, ma di contenuti. Lo spettacolo
è necessario ed è assolutamente necessario, specie se di qualità. Ma la cultura
è un'altra cosa e deve poter rimanere autonoma rispetto allo spettacolo. Quello
che si vede e si ascolta nel jazz è per lo più la conseguenza di questa unificazione:
in una società capitalistica è ovvio che le risorse maggiori finiscano laddove sembra
esserci una risposta di quantità del mercato. Questo processo determina una rincorsa
a quel consenso, e questo, inevitabilmente, svilisce contenuti e significato. Se
la musica finisce per essere solo uno strumento del mercato e il lavoro del musicista
solo un mestiere, l'espressione di tutta la civiltà soffre. La libertà è tutto per
l'uomo, e l'arte è il segno che ogni civiltà lascia sul pianeta. Se l'uomo è prigioniero
del mercato, la sua espressione, semplicemente, di conseguenza non sarà libera.
Tu quali interventi proporresti per dare maggiore visibilità
al jazz in Italia?
In Italia credo vi sia una buona visibilità, fortunatamente la musica mi consente
di girare il mondo e considero l'Italia uno dei paesi dove il jazz gode di maggior
popolarità. Il punto sono i contenuti che gli spazi preposti al circuito jazzistico
veicolano, cioè che tipo di musica si nasconde sotto quella parola, jazz, che oramai
è talmente piena di cose assai diverse tra loro, da sembrare un po' vuota, paradossalmente.
La mia opinione è che l'Italia manchi totalmente di coraggio e di lucidità culturale,
perciò in questi anni di crisi economica le poche risorse sono confluite verso proposte
giudicate "sicure" dal punto di vista del mercato, ma che con lo spirito creativo,
propulsivo e avventuroso del jazz non hanno davvero nulla in comune. Dunque anche
qualora lo "stile" fosse vagamente jazzistico dal punto di vista idiomatico, molte
delle proposte visibili contengono un totale appiattimento alle implacabili regole
del mercato, costituite da numeri e non da contenuti di significato. Manca coraggio
di sostenere la ricerca -ma questo in tutti i settori, evidentemente- e di dare
visibilità a ciò che ancora non ha dei modelli già abbondantemente storicizzati
ed accettati. Ma parte della responsabilità è anche di quei musicisti che non riescono
ad accettare di stare un po' "fuori dal business", o almeno "di fianco", accogliendo
la possibilità di pagare il piccolo prezzo dell'anonimato al privilegio di una vita
libera e di espressione. Insomma cosa siamo disposti a fare, a quali rinunce, per
una vita nell'arte?
Sei anche un attivo ed eccellente didatta. Come giudichi
il livello dei giovani jazzisti e quali consigli di carattere generale, solitamente,
dai loro?
Non so dire se io sia un bravo maestro, certo mi onora che in molti mi considerino
tale. Imparo molto io nel condividere la ricerca con altri, e immagino che la passione
feroce con la quale sto insieme a loro nella musica sia in sé uno strumento di comunicazione
e condivisione. Cerco di costruire insieme a loro delle lucidità sulle differenze
tra arte e mestiere, li spingo all'autonomia, all'importanza dell'identità individuale.
Chiedo loro di lavorare con gioia, senza tristezze e frustrazioni, senza inseguire
il consenso, senza confondere la popolarità con il successo, di badare ai contenuti
musicali anche quando non sembrano accolti come da aspettative. Alla lunga la qualità
profonda paga sempre, magari con numeri sempre diversi rispetto ad un successo popolare,
ma è il piccolo prezzo da pagare all'altare di una vita musicale di significato,
libera e autonoma, durante la quale si deve essere disposti ad accettare un dialogo
anche duro con la realtà.
Della tua ricca discografia, qual è l'album di cui sei
più orgoglioso?
Nessuno, odio riascoltare quello che ho già suonato. E' una specie di patologia,
non riesco proprio a girarmi all'indietro e dire: -vediamo un po' cosa sono riuscito
a raccontare quel giorno...-. Non ce la faccio, lo trovo insopportabile. Non ne
sono affatto fiero, ma tant'è.
Quali sono i tuoi programmi futuri?
Vorrei poter documentare con tre-quattro album l'opera di Wilder, giunta al primo
capitolo con In The Morning. E in generale, anche attraverso Thetarum, i
miei gruppi di ricerca del mio Laboratorio Permanente di Ricerca Musicale, mi piacerebbe
procedere nella documentazione del grande Book of Songs, pescando dal medioevo ad
oggi. Ho appena finito di scrivere una suite dedicata ai popoli sofferenti dell'area
del mediterraneo. Ho messo in musica i Four Quartets di T.S. Eliot e iniziato una
collaborazione in duo con Theo Bleckmann.
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Data pubblicazione: 22/11/2015
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