Intervista a Stefano Battaglia aprile 2013 di Vincenzo Fugaldi foto di Caterina Di Perri
Iniziamo questa intervista dal capitolo
più recente della tua attività artistica: «Songways», il cd registrato per l'Ecm
col medesimo trio già ascoltato sul precedente «The River Of Anyder», che affianca
al tuo pianoforte il contrabbasso di Salvatore Maiore e la batteria di Roberto Dani.
Si tratta in entrambi i casi di opere registrate in presa diretta presso l'Auditorio
della Radiotelevisione Svizzera, a Lugano. Sembra di cogliere, nell'ultimo, maggiore
cantabilità e distensione…
Tutti mi dicono questo, quindi sarà vero per forza! Il canto e la melodia sono sempre
stati presenti nella mia musica, anche nella zona della ricerca più radicale e sperimentale.
Lo riconosco come il profondo legame, negli ultimi dieci anni emerso sempre più
evidentemente, con alcune specifiche caratteristiche della nostra civiltà, una cultura
ormai remota, quella di un'Italia pre-industriale: da un lato quella mediterranea,
l'Italia "araba" dei canti e delle danze popolari, dall'altro il paese delle grandi
tradizioni rinascimentali e barocche, dei porti d'Oriente, e uno stuolo di musicisti
straordinari influenti in tutta l'Europa. Un elemento collega da nord a sud tutte
queste stagioni della nostra cultura musicale, presente già nel canto gregoriano,
ed è l'esperienza melismatica del suono e del canto, esplicitato attraverso una
spontanea ricerca "vocale" dell'abbellimento, concepito non in senso estetizzante
e ornamentale ma come viva e profonda arte del dettaglio e della variazione, delle
sfumature, indissolubilmente legato al dire, a un testo, anche quando
il testo non c'è. Ecco, quel modo di scavare attorno alla nota per donarle un suo
contenuto emotivo, una luce, una specifica espressività melodica, è un gesto per
il quale sento di provare totale senso di appartenenza, e che riconosco sempre più
presente nella musica che suono. Negli ultimi anni ho lavorato molto a questa sorta
di de-sofisticazione, cercando di tornare ad una ideale fonte primitiva e rituale,
come a rinunciare a parte delle conoscenze sovrastrutturate per inseguire una consapevolezza
più naturale e istintiva, più percettiva e sensuale. Posso dire che, a prescindere
dal materiale musicale di partenza, il trio ha raggiunto da qualche anno un'identità
precisa e unica. Salvatore e Roberto sono straordinariamente complementari e hanno
dimostrato profonda adesione a questa estetica, e sono due musicisti in grado di
determinare naturalmente equilibri rari. Il nostro, negli ultimi cinque anni, è
stato un percorso balsamico e rivitalizzante, che evita stili precisi ed eroi di
riferimento. Non so nemmeno più se il nostro è un trio di jazz, nonostante io non
soffra di snobismo verso nessun linguaggio e sia fiero dei miei retaggi, jazzistici
e non.
La tua storia musicale ti vede
agire nei più svariati contesti: dal pianoforte solo, al duo, a diversi trii, a
formazioni molto ampie. Come ti confronti con le differenti esigenze espressive
di ciascuna?
Sono esigenze complementari. Il solo è lo spazio più sublime della ricerca, senza
alcun compromesso. Il duo è l'esperienza di dialogo più intima e preziosa. Il trio
è la combinazione più stimolante che esiste in musica, è il confronto diretto con
le zone più solide delle varie tradizioni di tutto il pianeta, in ogni linguaggio:
incarna le tre identità parametriche dell'entità musicale: il canto (la melodia),
la danza (il ritmo), e l'armonia. In particolare con due strumenti polifunzionali
come il piano e la batteria vi sono così tanti equilibri possibili, il vertice del
triangolo può cambiare continuamente e l'estensione delle tecniche e l'interscambiabilità
di tutti e tre i ruoli determina infinite possibilità narrative. Altre formazioni
più ampie rappresentano principalmente il terreno per esprimersi nella scrittura.
Sei un apprezzato didatta. Quali sono secondo te i tratti
che definiscono un buon insegnante?
Amore illimitato per la musica, etica, passione feroce, e tanto rispetto per il
talento. Tutto è cambiato negli ultimi trent'anni: mai come ora l'individuo è stato
sottoposto a una quantità così vasta di informazioni. Tutto e niente in filosofia
sono la stessa cosa. In questa fase sembrerebbero più utili dei veri e propri maestri
che dei buoni insegnanti di musica, perché il privilegio della vita musicale non
è solo questione legata all'apprendimento dei codici, ma al motivo per cui essi
vengono studiati e al modo attraverso cui sono assimilati e quindi rielaborati.
L'accesso al sapere, alle nozioni, alle informazioni non pare più un problema (sembra
quasi più problematico proteggersi o fuggirne, dal sapere tutto di tutto), mentre
è l'esperienza della musica nel suo significato più profondo a essere urgentemente
da recuperare. L'insegnante-professionista nella musica è sospetto almeno quanto
il prete che dice messa senza sperimentare il divino. Senza avere "le mani nel sangue",
l'esperienza diretta della musica, la sua pratica performativa, si rischia di insegnare
codici vuoti indirizzando verso una specie di sterile rappresentazione, una mera
somma sempre più grande di regole estrapolate dalla pratica del passato, incapace
di trasmettere il corpo e lo spirito dell'azione musicale, la sensualità e la natura
sublime del suono: come voler insegnare a cucinare senza aver assaggiato, e assaporato,
gusti e profumi. Il risultato, nel migliore dei casi, non può essere altro che una
collezione di inutili abilità. Mi interessano invece i maestri che riescono a collegare
i giovani studenti con i contenuti vitali della musica attraverso la propria serena
forza propulsiva, la propria passione, il desiderio di trasmettere esperienza e
competenze specifiche. La scuola, se proposta con i suoi programmi uguali per tutti
e il suo apparato di mediocri soldatini, è più un ostacolo che uno strumento di
consapevolezza. Conviene starne fuori più che si può e sperimentare la conoscenza.
Ciò che serve invece sono guide che consentano allo studente di affrontare con lucidità
l'offerta incredibile di possibilità di apprendimento, secondo i talenti propri
e individuali, sapendo che a differenza di mezzo secolo fa, qualsiasi linguaggio,
qualsiasi codice idiomatico, qualsiasi civiltà culturale ora è potenzialmente raggiungibile.
Ma sapendo anche che tutto significa niente, come dicevo.
Quali sono le caratteristiche che ritieni imprescindibili
per un musicista creativo?
Protezione del sé, isolamento, per quanto possibile. La creatività ha a che fare
con il desiderio, se non vi è desiderio del suono, desiderio di fare musica, semplicemente
non c'è musica: e allora se viviamo più o meno passivamente nella musica
troppe ore è impossibile vivere dei momenti attivi, sia come musicisti che
come fruitori. Dunque dobbiamo lucidamente proteggerci dalle varie fonti inquinanti
(quasi ogni luogo ormai, ahimè) e cercare il silenzio per poter davvero desiderare
musica. Quando una cosa è ovunque perde il suo valore e il suo significato prezioso.
Dunque il silenzio è la prima cosa per la creatività di un musicista. Chi ha talento
musicale è influenzato da tutto ciò che ascolta, col tempo la mia scelta è stata
quella di rinunciare alla cieca passione della curiosità e scegliere con grande
attenzione la musica da "fare entrare in casa". Molti musicisti mi donano gentilmente
le loro opere attendendosi legittimamente attenzione e un feedback. Ma quello spazio
è prezioso e a volte istintivamente lo tengo semplicemente vuoto. Non deve essere
scambiato per snobismo perché è il suo contrario, è la consapevolezza di un fragile
equilibrio che necessita protezione, della coscienza che ascoltare musica senza
reale desiderio è davvero superfluo e nocivo, è come mangiare senza appetito.
Poi la presa di coscienza della differenza netta tra manifestazione e rappresentazione:
in un'epoca in cui lo sviluppo impetuoso della civiltà confonde arti e mestieri,
cultura e spettacolo, allorché le discipline tradizionali sembrano perdere la loro
funzione viva, io mi dirigo alle fonti arcaiche della musica, sempre esistita, aspirando
a resuscitare l'utopia di quelle esperienze naturali ed elementari, la ritualità
della musica. L'essenza del rituale è la sua atemporalità: ciò che in esso accade
si rinnova ogni volta nella presenza viva del musicista. Il rituale non rappresenta
una storia che è accaduta un tempo ma che si compie sempre, accade hic et nunc.
La performance non è come lo spettacolo una copia illusionistica, o peggio, l'imitazione
della realtà passata: non è nemmeno un complesso di convenzioni accettate dall'artista
come un gioco a specchio consapevole, di rappresentazione quasi teatrale di sé.
La creatività è la realtà dell'adesso, è nel momento, un avvenimento tangibile,
e non esiste fuori da sé, al di là della sua materia prima, che è l'essenza stessa
del performer. Dunque l'artista creativo non recita, non finge, non imita, perché
se lo facesse uscirebbe da sé e sarebbe fuori da sé, dunque lontano da
sé. Al contrario è davvero sé stesso se rifiuta la rappresentazione di sé
e compie un atto di confessione pubblica, che sarà forte quanto forte la sua
capacità di vivere il presente e il suo percorso per favorire la manifestazione
del sé. Il suo processo interiore diviene un percorso reale attraverso la musica
che suona, non la fiera di abilità del giocoliere. La mia attività può essere considerata
come il tentativo di riscoprire, dalla (s)comoda posizione di musicista "sofisticato",
i valori arcaici della musica. Si potrebbe dire che sono un musicista alla retroguardia,
anziché all'avanguardia...
Quando ritieni che un artista possa definirsi maturo?
Quando riesce a raggiungere la propria individuale e profonda essenza, superando
le varie personalità che si sono sovrapposte superficialmente e incomincia a osservarla,
conoscerla, nutrirla e proteggerla. Quando raggiunge una piena fiducia nella sua
natura, accettando di mettere i propri talenti in armonia coi propri limiti. Quando
ottiene consapevolezza che non vi è bellezza senza verità, non esiste il Bello senza
il Vero. Quando finalmente sente che non esiste un sé parcellizzato in sfere separate,
l'emozione dall'intelletto, lo spirito dal corpo, la gioia dal dolore, ma un unico
spazio di totalità dell'essere, pronto ad essere canalizzato nello strumento che
ha scelto per esprimersi, qualunque esso sia.
I tuoi dischi e i titoli dei tuoi brani evidenziano un'ampiezza
di interessi extramusicali non particolarmente frequente nell'ambiente del jazz.
Spiritualità, letteratura, cinema, danza: vuoi soffermarti su questi aspetti, e
sull'influenza che hanno sul tuo percorso artistico?
È un'unica grande fonte, amo la poesia e la bellezza in ogni sua forma, non ho alcuna
ideologia di genere e di stile. Mi esalta l'espressione del sé, che sia attraverso
la musica, la danza, o la pittura non fa differenza. Ho scelto la musica perché
ho avuto l'opportunità di studiarla sin da bambino, ho sempre suonato e credo di
avere dei talenti in tal senso, ma proprio per questo ci sono dei lunghi periodi
nei quali non sento alcun bisogno di musica "dall'esterno", in aggiunta a quella
che produco io quotidianamente. Per questo mi rivolgo ad altre fonti espressive:
è una esigenza, come se volessi nutrirmi avendo la necessità di variare la fonte
del nutrimento, dato che la musica è una prassi quotidiana. Altro discorso merita
lo spirito e l'esplicita invasione della mistica nel mio universo poetico: non posso
rinunciare alla contemplazione del sacro attraverso una esperienza diretta, non
"teorica" e "astratta". La musica rappresenta in gran parte quell'esperienza. Sebbene
sia un ambito che si occupa dell'oltre, fuori dal pensiero logico, questa sensazione
dell'esperienza diretta e tangibile della vita soprasensibile è uno degli aspetti
più importanti della mia vita di musicista. Mystikos in greco significa mistero:
non è la musica stessa è un grande mistero, in fondo? Dalla musica noi possiamo
rivelare o scoprire la "verità ultima" dell'individuo, attraverso un progressivo
distacco delle conoscenze sensibili e razionali: un processo spontaneo di spossessamento
del sé. Diverso invece il discorso della spiritualità, che è così ampio e impervio
che mi consiglia in questa sede di limitarmi a dire che tutto ciò che non è materia,
o evidenzia una distanza da essa, mi attrae, e dunque ogni cosa che ha a che fare
con lo spirito e l'espansione interiore dell'individuo suscita il mio interesse.
In fondo si può definire spirituale addirittura tutto ciò collega in modo immateriale
l'essere umano; la musica è per me da molti anni il mezzo privilegiato per ottenere
questo processo, che, come in un cerchio che si chiude, è probabilmente la ragione
ultima per la quale sono un musicista.