Sei domande a:
Luca Aquino, Julian Mazzariello, Alessandro Paternesi,
Enzo Pietropaoli, Michele Rabbia, Fulvio Sigurtà ed Enrico Zanisi.
Atina Jazz Winter 2013, gennaio 2013
di Vincenzo Fugaldi
Nel corso di Atina Jazz Winter 2013,
abbiamo rivolto delle domande sull'attualità del jazz ad alcuni dei musicisti presenti,
che rappresentano varie generazioni del jazz italiano: Luca Aquino, Julian
Mazzariello, Alessandro Paternesi,
Enzo
Pietropaoli, Fulvio Sigurtà ed Enrico Zanisi.
Cosa pensi dell'insegnamento del jazz?
L.A. Sono un autodidatta, non ho avuto la fortuna di poter seguire un percorso
di studi accademico, perché non sono stato accettato al Conservatorio quando ho
chiesto l'ammissione. Penso che un percorso accademico se fatto bene è positivo,
ma impiegare troppo tempo per imparare non è la via giusta, e i corsi di conservatorio
durano troppi anni. C'è bisogno invece di scendere subito in campo, anche con poche
nozioni, ascoltando la musica degli altri e provando a suonare, a trovare qualcosa
di personale da dire.
J.M. Secondo me l'insegnamento è importantissimo.
Mi manca un bagaglio didattico, perché non ho fatto degli studi ben precisi, però
mi piacerebbe aver avuto un'educazione scolastica, anche per poterla poi dimenticare.
A.P. Io sono di parte perché insegno in Conservatorio a Roma, curo i corsi
pre accademici di batteria jazz. Il mio apprendimento è stato abbastanza canonico,
ho frequentato il Conservatorio a Perugia, poi il biennio a Roma. La parte pratica,
i seminari, i workshop, mi sono serviti tanto, sia per capire come suonare con gli
altri, sia per imparare da chi suonava con me. Lo studio accademico del jazz è molto
importante perché tramanda e fa scoprire cose che altrimenti i giovani non saprebbero
trovare. I vari musicisti con cui ho la fortuna di suonare mi danno delle dritte
su cosa ascoltare, utilissime perché il mercato dei dischi è talmente ampio che
è difficile ascoltare tutto. Dunque l'aspetto accademico è importante, ma lo sono
altrettanto l'aspetto orale e pratico.
E.P. Può essere una cosa positiva come può non esserlo, come tutte le cose
della vita. Dipende da come lo sfrutti, come lo utilizzi, come lo vivi, per cui
non mi sento di dare un giudizio generale. Dentro l'insegnamento del jazz ci sono
tanti insegnanti e tanti allievi che vivono questa cosa con uno spirito diverso,
per cui può essere una cosa che ti cambia la vita, ti fa crescere, ti fa migliorare,
come può essere un'esperienza negativa.
M.R. Penso che l'unica cosa veramente importante sia il dovere che un insegnante
ha nei confronti del proprio allievo di trasmettere l'amore e la passione per la
musica. Io faccio raramente seminari, workshop, però mi stupisce entrare in una
scuola e non vedere mai un supporto audio, non vedere mai i ragazzi ascoltare musica.
Ci sono gli strumenti, un sacco di libri, però manca invece quello che è il contatto
più diretto con la musica. Detto questo, ci sono indubbiamente dei bravissimi insegnanti
in Italia, probabilmente ce ne saranno anche di meno bravi, ma, ripeto, la cosa
importante per la didattica è cercare di trasmettere il rispetto e la passione per
la musica, non indirizzare le capacità espressive del ragazzo verso il successo
o il virtuosismo.
F.S. Io ho studiato in Italia, alla Berklee di Boston e alla Guildhall di
Londra, dove ho conseguito il master, quindi il mio panorama è ampio. La didattica
del jazz si è sviluppata parecchio, e funziona molto bene, perché dalle scuole escono
tantissimi bravi musicisti. Forse la cosa che manca in Italia è la capacità da parte
degli insegnanti di dare una visione più ampia di quello che è la musica, la capacità
di non fermarsi su un solo genere musicale. Qui non c'è ancora l'integrazione tra
i generi e tra le diverse forme d'arte che c'è invece in altri paesi. In Italia
se all'insegnante piace solo un tipo di jazz, insegna solo quello, e dato che la
maggior parte del repertorio va da Ellington al bebop, l'insegnamento è focalizzato
solo su quel periodo. Secondo me è tempo di cominciare ad aprirsi e fare in modo
che i musicisti possano mettere insieme i generi e fare della nuova musica.
E.Z. L'insegnamento del jazz per me è stato fondamentale. Quando ho cominciato
a interessarmene sono stato prima in una scuola di quartiere a Roma, dove ho imparato
tutte le basi, poi la cosa fondamentale sono stati gli ascolti, perché nel jazz,
a differenza del repertorio classico che si basa sulla partitura, i dischi sono
importantissimi. E
Siena Jazz, dove a quindici anni sono stato catapultato in una situazione
meravigliosa, grazie a insegnanti strepitosi. Credo che, se fatto in maniera adeguata
e responsabile (non approvo tantissimo il metodo Berklee, le cose molto accademiche
in senso stretto) può essere veramente molto utile. Lo testimonia il livello dei
musicisti italiani usciti dalle scuole.
Parliamo degli spazi per la musica: jazz club, teatri,
ecc.
L.A. Vedo pochissimi jazz club in Italia. C'è comunque una grande differenza
tra le città. Io vengo da una piccola città del sud, Benevento, e vedo che nelle
grandi, come a esempio Roma, ci sono molti più posti per suonare, per esprimersi.
Però bisogna anche dire che i musicisti che vivono nelle piccole realtà dove non
ci sono tanti club sono spronati ad andare fuori, e avere nuove esperienze. Quindi
la presenza di tanti jazz club vicino può essere un'arma a doppio taglio, perché
si finiscono per incontrare sempre i soliti musicisti, e non si ha la possibilità
di crescere in maniera adeguata. Io in Italia sto suonando pochissimo, ma mi trovo
molto bene nei centri sociali autogestiti, dove è possibile fare tutti i tipi di
musica.
J.M. Io sono un sideman, non lavoro con gruppi miei, ma credo che sarebbe
meglio se ci fossero più posti per suonare.
A.P. È una realtà abbastanza carente, nel senso che i club ci sono, ma più
che altro l'attenzione va focalizzata verso il pubblico, che bisogna iniziare a
educare, perché il jazz è una musica abbastanza semplice e intuitiva, basta far
comprendere ciò che accade realmente su un palco. Mi sono accorto di questa cosa
perché la mia attuale compagna non ascoltava jazz prima di stare con me. Andando
insieme a sentire i concerti le ho spiegato come funziona il jazz, e per lei si
è aperto un mondo. Anche il distinguere le varie parti degli strumenti in una registrazione,
che per noi sembra una cosa semplice e scontata, non lo è per tutti, dunque bisogna
educare il pubblico all'ascolto. Fatto questo, sarebbe molto più semplice per i
club, i teatri, le manifestazioni e le rassegne, avere un pubblico di appassionati
che vanno ai concerti.
E.P. Gli spazi rispetto a qualche anno fa non sono più tanti, ovviamente
la situazione del momento ha imposto a molti di chiudere alcune attività, ad altri
ha imposto di ridurle, ad ancora altri di aspettare tempi migliori. Non solo, ma
le proposte sono molte di più rispetto agli anni in cui ho iniziato, perché ci sono
molti più musicisti validi, un sacco di giovani fantastici con proposte interessantissime,
dunque non è un momento facile, c'è molta frustrazione tra i musicisti perché gli
spazi diminuiscono, mentre la quantità e la qualità della musica aumenta.
M.R. Di spazi per la musica in Italia ce ne sarebbero tra i più belli al
mondo. Però c'è sempre qualche problema burocratico che impedisce al jazz di entrare
in certi ambienti. I jazz club immagino che facciano una gran fatica ad andare avanti,
come un po' tutti, ma forse ci vorrebbe più riguardo da parte delle istituzioni
nei confronti dei club o di quelle gestioni piccole che cercano di fare dei progetti
diversi, un po' più difficili.
F.S. Gli spazi sono legati all'economia. Non vedo molta differenza tra quello
che sta succedendo qui rispetto all'Europa. L'anno scorso ho fatto un giro di un
mese di molti locali in Europa, e le situazioni erano identiche ovunque. Ci sono
alcuni club che puntano su musiche più facili, che funzionano meglio, e altri che
invece fanno più fatica. Il problema è legato al mercato, la musica è un bene secondario,
c'è poco da fare, anche se per me ovviamente è il principale bene primario. Preferisco
suonare in un teatro o in un jazz club a seconda del tipo di musica che suono. Alcuni
tipi di musica hanno bisogno del teatro, del silenzio. Altri stanno meglio in un
club. Credo che fra un po' ci sarà spazio per suonare jazz anche nelle discoteche.
E.Z. Mi sembra che l'Italia, almeno per quanto ne so, per quello che ho potuto
girare, abbia abbastanza di questi spazi. Certo ovviamente non siamo in America,
ma in Italia negli ultimi anni, grazie anche ad alcune personalità che stanno avendo
un successo anche al di fuori dello stretto circuito dei club, in televisione, il
jazz sta acquistando un po' più di credito. Però è una realtà molto colpita dai
tagli economici, e le difficoltà sono evidenti, nonostante il fatto che ci siano
tante realtà che fanno jazz, dai club, ai teatri, quello che manca è una reale attenzione,
adeguate sovvenzioni, cosa che mette in difficoltà tutta la struttura.
Qual è il tuo parere sui vari festival che si tengono in
Italia?
L.A. Penso che negli ultimi anni i direttori artistici siano più curiosi,
e dimostrino maggiore attenzione verso i giovani, come nel caso del festival di
Atina. Poi ovviamente ci sono ancora i festival attaccati al nome di richiamo, però
non possiamo nemmeno dar torto a quei direttori artistici, perché la crisi rende
necessari gli incassi al botteghino. Vedo che in Italia ci sono tanti eventi, ma
io non li frequento molto. La mia non vuole essere una critica, ma il fatto è che
ci sono tantissimi musicisti, e non c'è spazio per tutti.
J.M. Non essendo leader di un mio gruppo, a volte non mi rendo ben conto
della situazione, grazie anche al fatto che suono parecchio e con diversi musicisti.
A.P. I festival italiani sono molto belli, vedo che c'è una grande voglia
di far ascoltare il jazz, almeno in quelli che frequento. Sento che c'è sempre più
voglia di far suonare i giovani, non solo per ragioni economiche, ma per fare ascoltare
musica nuova, o anche standard suonati in maniera diversa, attualizzati. Spero che
gli organizzatori si prendano sempre più la responsabilità "sociale" di far suonare
tutti e non solo chi fa botteghino, perché nei momenti di crisi può sembrare semplice
fare questo tipo di scelta, ma si possono invece trovare delle soluzioni per ampliare
gli orizzonti, lavorando sulla comunione e sull'unione piuttosto che sulla competizione
con gli altri.
E.P. Ne penso molto bene, ma ritengo che in questo momento stiano soffrendo
le conseguenze del fatto che quando c'è una crisi economica la prima cosa a venire
tagliata è la cultura, anche se invece investire sulla cultura vuol dire creare
un futuro migliore anche economico. Ma non voglio entrare in un discorso così complesso.
Dico che ci sono dei festival molto belli che stanno come tutti soffrendo del momento,
e c'è chi ridimensiona, chi chiude, chi accorcia, chi taglia… Sono le stesse cose
che potrei dire sull'istruzione, sulla salute, sui trasporti. È anche seccante parlare
sempre di questo, purtroppo.
M.R. Ci sono diverse realtà, varie tipologie di festival. L'unica cosa che
contesto in Italia, è che all'estero ci sono festival che sono dei contenitori di
progetti che spaziano in tutte le direzioni, per cui all'interno della stessa rassegna
trovi un solo di Cecil Taylor, Peter Brötzmann, il gruppo di
Pat Metheny
e Diana Krall. Così dai a uno spettatore la possibilità di entrare in contatto
con le forme più disparate dell'arte, e ha modo di arricchirsi, di confrontare.
Invece in Italia i festival sono come divisi per parrocchie, e non è una cosa molto
positiva.
F.S. Credo che ne siano tanti, e dall'estero l'Italia viene vista ancora
come un paradiso felice. Purtroppo non ci suonano o suonano poco gli italiani, perché
sotto l'aspetto fiscale costano più degli americani. Si sentono tante proposte di
serie B americane, mentre sarebbe bellissimo sentire le proposte di serie A italiane.
E.Z. Penso che abbiano un'ottima qualità. Però è un po' un circolo vizioso,
perché ci si basa molto sul botteghino, sul fare presenze, per cui ci sono degli
artisti che vengono chiamati molto più spesso degli altri perché assicurano gli
incassi. Quindi si dà ancora troppo poco spazio a quelle che sono le nuove realtà,
che magari nascono nei piccoli jazz club che con sacrificio rimangono aperti.
Allarghiamo lo sguardo al jazz europeo e a quello statunitense.
Come ti confronti con queste realtà?
L.A. Sono curiosissimo, mi piace molto informarmi, tenermi aggiornato, ascolto
tantissima musica e più passano gli anni più mi va di ascoltare. Seguo il jazz proveniente
da qualsiasi paese, e anche ovviamente quello proveniente dagli Stati Uniti. Mi
sembra che ci siano sempre musicisti validi, che portano avanti un jazz che riesce
a cambiare e rinnovarsi di volta in volta. Le mie preferenze tuttavia vanno all'Est,
alla musica balcanica, anche se alla fine la suono poco, perché sono più orientato
verso la Norvegia. Suono comunque con un trio macedone, Skopje Connection. La musica
dei gitani mi appare sanguigna, c'è molto divertimento, onestà, sono lì sempre col
sorriso, spontanei.
J.M. Mi sembra che rispetto a dieci anni fa ci sia più collaborazione tra
noi e i musicisti europei e americani, e questa è una cosa che avviene anche in
altri ambiti, come in quello dello sport.
A.P. Sono molto curioso di ascoltare cosa avviene nel jazz americano, e del
jazz europeo posso dire altrettanto dei paesi nordici. Molto spesso vado su YouTube
a cercare i video di musicisti che suonano allo Smalls. Solitamente si scoprono
delle cose che altrimenti non sentiresti mai.
E.P. Penso che in questo momento ci sia un ottimo jazz europeo e un ottimo
jazz americano, e insieme stanno crescendo com'è sempre stato in questa musica,
con le loro caratteristiche peculiari. Nel jazz americano mi sembra che i nuovi
gruppi lavorino molto sulla poliritmia, su una ricerca armonica a volte abbastanza
esasperata, mentre il jazz europeo lavora più su un certo tipo di atmosfere, su
un maggiore lirismo, e insieme ci danno tutto ciò di cui ha bisogno questa musica.
Poi ovviamente un giorno ci sarà il jazz cinese, il jazz indiano, perché il jazz
non si ferma mai, è un linguaggio che ormai è trasversale a tutto il mondo. Quando
ho iniziato a suonare negli anni Settanta l'americano era considerato una specie
di mostro sacro, e anche solo respirare l'aria che respirava lui era considerato
un privilegio. Oggi hanno piacere a collaborare con noi, hanno un atteggiamento
molto più paritario, perché il jazz europeo, e in particolare quello italiano, negli
ultimi anni è cresciuto tantissimo.
M.R. Io sono più legato a quello che è lo scenario della musica in Europa,
per affinità, per condivisione. Chiaramente come tutti ho ascoltato e ascolto tuttora
le proposte che arrivano dall'America, che sono sempre di altissimo livello perché
il livello dei musicisti lì è sempre stato molto alto. Penso che in questi ultimi
anni l'Europa si sia sicuramente adeguata al livello degli Stati Uniti, sia per
bravura dei musicisti che a livello di idee. Ultimamente sto ascoltando molto i
musicisti del nord Europa, come
Arve Henriksen,
Jan Bang, Eivind Aarset, che hanno creato in questi anni un nuovo
filone di musica diverso, interessante. In Europa, a differenza che in Italia, sotto
il profilo riguardante l'attenzione alla cura del suono c'è una maggiore attenzione.
Devo dire che all'estero la qualità del suono che si trova nei festival è più alta
della nostra, come strumentazione, livello di service, spesso anche come trattamento
dei musicisti. C'è un po' più di rispetto verso i musicisti, mentre in Italia è
quasi come se tu dovessi ringraziare chi che ti invita a suonare. Io ho la fortuna
di collaborare con molti musicisti in Francia, o con artisti come Aarset, o
Andy Sheppard
in Inghilterra, e penso che altrove forse ci sia più il coraggio di rischiare. In
Italia ci sono dei musicisti fantastici, con una preparazione enorme, però trovo
sempre che stiano un po' sotto la soglia del rischio, la musica che fanno è sempre
molto legata agli schemi già esistenti, non c'è un grandissimo sforzo di cercare
delle strade nuove.
F.S. Credo che non ci sia nulla da invidiare, e che ci siano invece un sacco
di cose da scambiare. Del mio primo quintetto prodotto dalla CamJazz il chitarrista
vive a Parigi, la ritmica è inglese e io sono italiano, questo nuovo gruppo è un
gruppo italiano per cui lavoro anche con musicisti italiani, faccio parte di gruppi
in cui il batterista è belga, ecc. È tempo di scambi, non vedo alternative. Credo
che in Europa si possa ragionare a distanza economica. Non è una questione di chilometri,
è una questione di costo del viaggio. Sei io vivessi a Desenzano mi costerebbe di
più venire a Roma che venirci da Londra. Le uniche barriere sono forse quelle linguistiche,
in Italia purtroppo c'è tanta gente che non conosce l'inglese a sufficienza.
E.Z. Sicuramente l'Europa ha dato un contributo notevole al jazz. Io cerco
di ascoltare il più possibile le influenze americane ed europee, ci sono tantissime
nuove realtà. Per esempio adesso dovrò suonare al 12 Points, che è un festival molto
importante a Dublino, e seleziona dodici gruppi giovanili tra i più importanti in
Europa, e avrò anche lì modo di confrontarmi su questo aspetto.
Cosa pensi delle attuali modalità di comunicazione del
jazz: mass media e web?
L.A. Internet è fondamentale, in tutti i campi, non solo in quello del jazz.
Ovviamente chi ha avuto una bella batosta sono le etichette discografiche, perché
non riescono più a vendere. Ma Internet è anche un modo di comunicare, perché favorisce
la divulgazione, i direttori artistici possono conoscere nuovi gruppi e nuovi musicisti
grazie a questo strumento. Penso che dia la possibilità di comunicare prima e meglio.
Per quanto riguarda i media tradizionali, molte radio mettono in risalto la parola
jazz nei loro programmi, mentre in televisione sembra che il jazz non esista proprio,
a volte c'è del pop che ospita bravissimi jazzisti, come ad esempio
Fabrizio Bosso
a Sanremo, che ovviamente colpisce molto di più rispetto al cantante che l'ha ospitato,
ma non trova spazio in televisione con la propria musica.
J.M. Io sono cresciuto in Inghilterra fino ai diciotto anni, e la televisione
(BBC, Channel Four) trasmetteva abbastanza musica, concerti che potevamo registrare,
Miles Davis ad esempio. Quando sono venuto in Italia, negli anni Novanta,
ho trovato una grande differenza tra le televisioni, ma c'era RaiSat Extra, che
faceva vedere i concerti di Umbria Jazz del decennio precedente. Internet per me
è una salvezza, e oggi posso dire di non avere scuse per essere ignorante, perché
lì c'è tutto, basta avere la volontà di cercare.
A.P. Per me questa è una domanda abbastanza complicata, perché avendo fatto
il mio primo disco mi sono reso conto di tutta una serie di cose che prima assolutamente
non sapevo. Vedo che la comunicazione è molto orientata su Internet, ma vedo anche
che l'ambiente del jazz non è molto pronto e ricettivo su questo fronte. A livello
di mass media tradizionali, in televisione purtroppo non c'è jazz, e questo rientra
nell'ambito dell'educazione musicale, ma nessuno se ne preoccupa. A livello giornalistico
si dà spazio al personaggio già famoso, o a chi vince il Top Jazz come Enrico
Zanisi, però non vedo molta curiosità. Su Internet divulgare è molto più semplice
ed economico e tutti possono arrivare a pubblicare un comunicato o un articolo.
Il problema è poi reperire l'informazione, e anche il fatto che se chiunque può
pubblicare un comunicato sul web, non è poi facile distinguere la qualità. Ma Internet
rimane una possibilità, utile a comunicare ciò che si fa in breve tempo a tantissime
persone, ad esempio con Facebook.
E.P. Rispetto a quando ho iniziato a suonare c'è molto meno jazz in televisione.
Ricordo che negli anni Settanta in tv ce n'era tantissimo, mentre adesso quasi niente.
Ci sono dei canali satellitari dedicati, però non c'è più quell'interesse da parte
delle istituzioni e dei media ufficiali che sono nel nostro caso la Rai e le altre
reti principali. Internet è un meraviglioso canale di diffusione e conoscenza, ed
è in parte responsabile della crescita qualitativa in ambito musicale. Quando ho
iniziato a suonare c'erano pochissimi metodi per studiare il jazz, non esistevano
dvd didattici, non c'era la possibilità di vedere i musicisti all'opera, quando
arrivava un disco dall'America era un avvenimento e tutti ci riunivamo a casa di
un amico ad ascoltarlo. Oggi vai su YouTube e puoi trovare tutta la storia del jazz.
Ciò ha creato un innalzamento del livello generale, ma dinnanzi all'aumento dell'offerta
non è aumentata in proporzione la richiesta. Dunque tanti musicisti non riescono
a esprimersi, e questo è molto triste.
M.R. La televisione mi sembra totalmente assente. La radio non fa tantissimo,
a parte qualche sporadico grande personaggio, mi viene in mente Pino Saulo che seguo
perché da anni porta avanti immagino con grande sacrificio e con grande sforzo la
divulgazione musicale. La televisione non la vedo molto, ricordo un programma condotto
l'anno scorso da
Stefano
Bollani, ma non riesco a ricordare altro legato al jazz. Su Internet
invece ci sono diversi portali che fanno una grande divulgazione, e gli stessi musicisti
si promuovono. Penso che sia veramente uno strumento che allarga molto le possibilità
e gli orizzonti.
F.S. Si sono abbassati i costi per la produzione del singolo musicista, per
cui, tramite il web, si può pensare di chiedere a una persona di fiducia di dedicarsi
a un lavoro di promozione contattando i giornalisti, spedendo materiale. Fino a
dieci anni fa questo era possibile solo per pochi, invece oggi tanti hanno la possibilità
di promuoversi, tant'è che negli ultimi due o tre anni vedo più nomi che girano.
Non sto parlando dei grossi festival, che sono ancora legati a meccanismi vecchi,
che però tutto sommato stanno scomparendo. Le radio, negli ultimi quindici anni,
a parte Radio 3 e poche altre, non hanno mai programmato jazz, però ci sono molte web
radio, che prima non c'erano, e che offrono un sacco di possibilità. Per cui Internet
ha dato un'apertura. È la solita contraddizione: hai delle possibilità, si allargano
gli spazi, però diventi un nulla in mezzo al mare. Questo è forse il problema, perché,
come hai tu la possibilità di promuoverti, ce l'hanno mille altre persone, per cui
diventa difficile aver visibilità. Secondo me però è più giusto, è molto più democratico.
E.Z. Noto che sul web il jazz è molto presente. Con l'ultimo disco ho avuto
modo di riscontrare che ci sono tanti siti, blog, attività legate al jazz. Ovviamente
il mezzo di comunicazione che va più di moda è ancora la televisione, e lì c'è moltissimo
da fare.
Come ti confronti con la progressiva scomparsa del supporto
discografico a causa dell'avanzata del digitale?
L.A. Io non ho mai scaricato in modo illegale. Mi piace ancora acquistare
i cd, e se devo scaricare lo faccio a pagamento attraverso iTunes. Però non mi sento
nemmeno di condannare chi lo fa, perché i cd costano troppo, non si dovrebbero spendere
20 euro per acquistarne uno.
J.M. A me manca il vinile come oggetto e come esperienza d'ascolto. Il vinile
è già bello prima d'ascoltarlo, ma è molto più pratico avere un lettore su cui puoi
portarti dietro quindici album. Io comunque acquisto la musica via iTunes, mi piace
molto, anche se gli amici mi criticano per il fatto che non cerco di scaricare gratuitamente,
forse perché da musicista non mi sembra giusto.
A.P. Mi interessa perché ho fatto un disco. D'altra parte penso che non posso
confrontarmi con chi vende tanti cd. Dunque penso che l'arrivo del digitale, per
chi non vende tanti dischi, non faccia tanta differenza. Non fa differenza se la
gente compra il mio disco o lo scarica da iTunes. Poi se si guarda la qualità, certo
il cd è superiore. Già rispetto al vinile ha perso tantissimo. Ma anche l'mp3, se
tarato in un certo modo, non perde tanta qualità, e la musica può essere portata
in giro su qualsiasi supporto. Il problema è il mercato, diventa più difficile trovare
chi produce un disco, allora bisogna trovare delle collaborazioni per autoprodursi.
Secondo me il jazz dovrà comunque fare i conti col passaggio al digitale, non so
in che modo, ma in realtà ci sto pensando anch'io da un po'. Credo che in futuro
tutto sarà molto più veloce. A me piace ancora avere il cd a casa, ma capisco che
altri preferiscano avere una cartella sul computer.
E.P. È un problema che non riguarda noi, ma i discografici, i produttori
e chi si occupa del settore. Noi ci dobbiamo occupare di fare buona musica, di cercare
di suonare al meglio i nostri strumenti, scrivere delle cose che possano soddisfare
la nostra sensibilità e quella del pubblico, mentre i supporti non dipendono certo
da noi ma dalle decisioni dell'industria. Personalmente mi sembra che ci sia una
forbice per cui da una parte si torna indietro al vinile e dall'altra si va verso
la musica liquida, per cui suppongo che fra un po' i cd non esisteranno più. Credo
che questa cosa sia stata decisa dall'alto. Ma io non posso occuparmi anche di questo,
devo preoccuparmi che nei supporti che l'industria deciderà di usare io dia il meglio
come musicista. Avere mille album in una scatoletta è il futuro. Il problema è la
qualità dell'ascolto, che secondo me salirà tantissimo. In futuro compreremo su
Internet musica ad altissima risoluzione e utilizzeremo dei convertitori che ci
consentiranno di ascoltarla al meglio. Sarà la salvezza per i musicisti, oggi penalizzati
dal download gratuito di musica a bassa risoluzione, se la musica liquida verrà
messa in vendita a prezzi non esagerati.
M.R. Questa è una domanda probabilmente da rivolgere a un produttore. I dischi
penso che non si vendano più gran che. Io non sono un grande fautore della musica
digitale, ma semplicemente per un fatto: mentre sono uno che utilizza l'elettronica,
penso che la qualità della musica digitale che si può scaricare oggi sia troppo
bassa, fatta appositamente per essere ascoltata su certi supporti, per cui la musica
pop, che ha un certo tipo di compressione, un certo tipo di lavoro intorno, ha una
sua resa, ma la musica classica e acustica perde tantissimo. Non si è ancora arrivati
a un livello tecnico che consenta di ascoltare un disco di Schönberg o di
Bartók sull'iPod e, perché la qualità effettivamente è ancora molto inferiore
al necessario. Io sono ancora un amante del vinile, e già dal vinile al cd per certe
tipologie di musica si è perso abbastanza. Ma adesso devo dire che con queste nuove
forme di compressione di dati c'è veramente un appiattimento del suono, per cui
non sono molto favorevole, anche se sono uno dei tanti che utilizza l'iPod per comodità,
ma penso che ci vorrà ancora del tempo perché la qualità possa migliorare. C'è anche
un aspetto legato all'immagine che si va perdendo, perché i film oggi stanno facendo
questa fine, tutti li guardano sugli iPad, sui telefonini, e tutto lo sforzo che
c'è dietro per far sì che le immagini abbiano un certo colore, una certa sfumatura,
si perde. Dunque come in tutte le cose ci sono i vantaggi e gli svantaggi. Spero
che comunque si riesca a trovare una soluzione perché gli appassionati possano continuare
ad ascoltare musica in grazia di Dio. Oggi molte case discografiche stanno tirando
fuori nuovamente il vinile, per cui probabilmente ci sarà sempre questo altalenarsi
qualitativo.
F.S. Questa è una bella domanda, ma non ho ancora le idee chiare. Perché
non ce le ha nessuno. Il processo si è svolto troppo in fretta. Nel giro di pochissimo
tempo sono spariti i supporti fisici ed è arrivato il digitale, ed è mancata l'educazione
a un ascolto di qualità. E sto parlando di frequenze di campionamento digitale,
non di qualità della musica. Il cd aveva la qualità minima necessaria per avere
un buon ascolto, poi si è passati all'mp3, perché ha la possibilità di essere scambiato
in rete, abbassando completamente il livello di informazioni contenute nella musica,
e la gente si è abituata in fretta a questo cibo di bassa qualità. Da un certo punto
di vista è positivo poter registrare in casa un prodotto e metterlo in rete, e farlo
scaricare in una qualità alta, perché c'è la possibilità di scaricare a una qualità
altissima, le linee sono abbastanza veloci. Invece di metterci cinque minuti a scaricare
un file ci metti una giornata, ma puoi scaricare un file a 24 Bit a 96khz. Io registro
a casa mia e spedisco i file agli amici in questa qualità senza problemi. Secondo
me è responsabilità delle etichette e di chi propone musica adesso di cominciare
a mettere in rete la differenza qualitativa. A quel punto, quando la gente si abituerà
a un suono di qualità, sarà disposta a pagare per averlo. Però c'è da fare un percorso
educativo lunghissimo. Se il pubblico che ascolta musica non si rende conto che
quello che sta ascoltando contiene un ventesimo delle informazioni musicali che
emozionano, fino a quando non ci sarà coscienza da parte degli ascoltatori del fatto
che l'mp3 non contiene abbastanza informazioni per dare emozioni, la gente non sarà
disposta a spendere soldi per comprare musica. C'è uno studio interessante di un'università
americana sulla musica digitale e la musica analogica, in cui c'è la voce di un
padrone di un cane che gli dà i comandi, registrata in analogico e in digitale.
Col digitale, a 44.1, la qualità del cd, il cane non riconosce la voce del padrone,
mentre in analogico il cane risponde e lo cerca. Forse non è comparabile, ma dà
la misura di una differenza di quantità di informazioni e di apporto emozionale.
Secondo me le etichette devono riportare alla qualità dell'ascolto, cioè a un ascolto
emozionale.
E.Z. La prima cosa che ho comprato è stata una audiocassetta. Ho poi scoperto
il vinile, grazie al giradischi dei miei genitori a casa. Si capisce che c'è una
perdita di qualità dal vinile al cd e poi dal cd all'mp3, in favore di una quantità
maggiore. Però è inutile compiangersi, importante è accettare le sfide di oggi e
capire cosa sta avvenendo.
29/09/2012 | European Jazz Expo #2: Asì, Quartetto Pessoa, Moroni & Ionata, Mario Brai, Enrico Zanisi, Alessandro Paternesi, David Linx, Little Blue, Federico Casagrande, Billy Cobham (D. Floris, D. Crevena) |
21/06/2009 | Bologna, Ravenna, Imola, Correggio, Piacenza, Russi: questi ed altri ancora sono i luoghi che negli ultimi tre mesi hanno ospitato Croassroads, festival itinerante di musica jazz, che ha attraversato in lungo e in largo l'Emilia Romagna. Giunto alla decima edizione, Crossroads ha ospitato nomi della scena musicale italiana ed internazionale, giovani musicisti e leggende viventi, jazzisti ortodossi e impenitenti sperimentatori... (Giuseppe Rubinetti) |
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Data pubblicazione: 24/02/2013
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