Parma Jazz Frontiere 2009
di Marco Buttafuoco
foto © Pietro Bandini/Phocus Agency
Gaslini Tribute
"Un festival come Parma Jazz Frontiere è oggi un patrimonio della nostra musica
di ricerca". E' una rassegna piena di coraggio. L' artista oggi si trova davanti
tante porte. Magari dietro molte di queste porte non ci sono percorsi da seguire.
Ma bisogna aprirle ugualmente e rischiare, perché senza ricerca e senza rischio
c' è la cristallizzazione, che è nemica dell'arte. Un festival non deve far solo
ascoltare il noto ed il già sentito. Non deve invitare solo i musicisti più che
conosciuti, o invitarli solo perché americani e-o afro-americani. In Italia ed in
Europa oggi si muovono moltissime realtà interessanti: la scena jazzistica del nostro
continente è vitalissima. Documentarla è un merito indiscutibile di Roberto Bonati,
che d'altronde è anche un musicista ed un organizzatore attento a quello che si
muove oltreoceano. Qualcuno vede una specie di conflitto jazzistico fra Europa e
Stati Uniti, ma sembra una lettura un po' superata della realtà. "Il jazz per
crescere ha bisogno d'idee, non di appartenenze a generi o paesi", così
Paolo Fresu
ha voluto esprimere, parlando con chi scrive, la sua stima alla rassegna parmigiana
che, alla sua quattordicesima edizione, vede nubi inquietanti addensarsi sul suo
vicino orizzonte.
Proprio il musicista sardo ha aperto, il 13
novembre la manifestazione, suonando davanti ad un pubblico numeroso in duo con
il pianista- tastierista serbo Bojan Z. (L'abbreviazione serve ad evitare
l'impronunciabile Zulfikarpašic). Il progetto nacque nel lontano 2001 a Parigi come
omaggio a Miles Davis, ma non è mai stato documentato su disco. Se di
Fresu
si sa più o meno tutto, Bojan Z. è stato una piacevole sorpresa. Si tratta
di un pianista essenziale eppure molto lirico, dotato di un linguaggio aperto in
cui si avvertono varie influenze, ma che si mantiene sempre personale e scintillante.
I due hanno catturato il pubblico fin dalle prime battute proponendo un repertorio
che ha messo in luce anche la vena compositiva del pianista serbo (trapiantato da
anni a Parigi). Un po'di pignoleria porterebbe ad affermare che hanno fatto un po'
troppo uso d'effetti elettronici nel finale. Ma questo non ha inciso più di tanto
sull'esito di un set molto lirico e rilassato, piacevolissimo. Fresu pare particolarmente
a suo agio con questo partner ed ha suonato ai suoi livelli migliori.
La seconda serata ha visto sul palco un duo molto particolare formato
dalla vocalist norvegese Sidsel Endressen e dal suo compatriota Hakon
Kornstad alle prese con sassofoni, flauto ed effetti elettronici. Che la scena
norvegese sia fra le più ricche ed innovative del jazz contemporaneo, è cosa del
tutto risaputa. Lo stesso
Fresu
sostiene che Italia e Norvegia esprimono oggi le due comunità di musica improvvisata
più attive ed innovative. I due hanno confermato l'assunto, suonando un'ora di musica
impervia ma assolutamente coinvolgente, pervasa da una straordinaria capacità evocativa.
Certo, si avvertivano nel fluire del loro discorso echi di musica orientale e lontane
tracce di blues; si ascoltavano John Surman o Joni Mitchell, nume tutelare della
Endresen. Ma alla fine tutto questo non era importante. Quello che l'ascoltatore,
o almeno chi scrive, percepiva, era l'atmosfera magica del paesaggio norvegese,
il grande deserto del nord che si annuncia, chilometro dopo chilometro al viaggiatore
che percorre il grande paese da Oslo fin verso la fine dell' Europa. Un mondo musicale
immerso nell'indeterminatezza, nel non detto. La Endresen ha anche improvvisato
lunghe sequenze puramente fonetiche, che suggerivano frasi mai nate, strozzate,
indefinite, gutturalmente sussurrate.
"Un linguaggio non intenzionale, ma che a volte può suonare come se lo fosse"
ha dichiarato qualche tempo fa la cantante in una bella intervista uscita su "In
Sound"(Firmata da Barbara Trigari). Teatro, quindi, oltre che musica. Ma una distinzione
fra i due termini e valida solo per comodità immediata di chi scrive.
In realtà l'arte della Endresen è da affrontare e, lei stessa suggerisce
questa chiave di lettura, in totale abbandono, affidandosi solamente al flusso delle
sensazioni. E fidandosi solo di esse, senza necessità di sovrastrutture critiche.
La terza serata del festival ha immerso i numerosi presenti in ben altra
temperie musicale.
Terence Blanchard ha guidato nell'unica data italiana del suo
tour in Europa un quintetto inedito totalmente legato alla vasta tradizione afro
americana, includendo in questo termine anche la musica cubana (al piano c'era
Fabien Almazan, giovanissimo ed emozionante) e l'Africa vera e propria, rappresentata
dal roccioso ed agile bassista Michael Olatuja. A completare il gruppo gli
ottimi Brice Johnston al sax e Otis Brown alla batteria, tutti musicisti
giovani e molto dotati e capaci, sotto la guida esperta del trombettista, di tenere
desta l'attenzione del pubblico per tutta la durata del set.
Blanchard
ha dichiarato recentemente di volersi scrollare di dosso l'etichetta di compositore
di colonne sonore. Non vuole essere più considerato, e lo dice con forza, il musicista
preferito di Spike Lee. Ma anni di cinema gli hanno lasciato addosso, con ogni evidenza
una grandissima voglia e una enorme capacità di raccontare. In molti dei pezzi proposti,
quasi sempre molto lirici e passionali, ha usato la tecnica dei grandi predicatori
neri. I brani iniziavano in maniera sommessa e marcatamente melodica per diventare
via via preghiera, grido e ritornare poi al climax iniziale. Niente di nuovo forse.
Molta della migliore musica afro-americana nasce nell'arroventata sacralità delle
chiese. Basti pensare a Mingus ed al Coltrane di "A love supreme", per non parlare
della soul music. Ma il procedimento musicale, anche se risaputo, è sempre emozionante
se ad utilizzarlo sono musicisti veri come Blanchard, che hanno un desiderio autentico
di parlare al pubblico, di raccontare la storia della propria gente.
Bello
il concerto del troppo misconosciuto
Antonio Zambrini,
pianista sensibile, delicato ed originale.
Zambrini
è aduso a lavorare sul cinema (collabora stabilmente con la Cineteca Italiana di
Milano per la sonorizzazione, improvvisata di film muti) ed ad accompagnare reading
letterari. Queste esperienze danno alla sua musica un che di sognante, un senso
di apparente fragilità, di tenerezza. In realtà su uno standard un po' abusato come
Over the rainbow ha dimostrato di avere idee e personalità non frequentissime
nel panorama dell' improvvisazione italiana.
Zambrini
ha una sua poetica precisa e niente affatto banale. E' un musicista che meriterebbe
una maggiore visibilità.
Fra
le pagine più belle del festival è stata la giornata del 2 dicembre, dedicata al
ricordo lancinante della tragedia di Bhopal. L'evento sì è svolto in due fasi: nel
pomeriggio l'orchestra della classe di jazz del conservatorio Boito di Parma ha
suonato musiche composte da tutti i membri dell'ensemble, dimostrando ancora una
volta l'eccellenza del lavoro svolto in questi anni da Roberto Bonati e dai
suoi collaboratori. La sera tre docenti della scuola sono saliti sul palco dell'auditorium
del Boito. Oltre allo stesso Bonati al contrabbasso c'erano Vincenzo Mingiardi
alla chitarra e Roberto Dani alla batteria Un set infuocato ed aspro, traboccante
di sentimenti forti, di indignazione, di dolore. Una musica lontana dall'imperante
conformismo minimalista di questi nostri tempi, dalle estenuate delicatezze di tanto
jazz italiano. Una musica che stringeva il cuore. Bonati è strumentista sempre più
completo e fa sentire ultimamente anche un suono bellissimo con l'archetto. Roberto
Dani esplora sempre di più una dimensione ritmico –sonora sempre più profonda
e misteriosa. Il suono di Mingiardi dimostra come poesia ed elettronica possano
seguire strade sempre più contigue.
E' un peccato che un percorso come quello di questo trio, in grado di
veleggiar e con sicurezza su acque tanto perigliose ed agitate, non trovi alcuna
documentazione discografica.
Qualche giorno prima della performance Parma Jazz Frontiere aveva vissuto
il suo momento clou nell'omaggio a
Giorgio
Gaslini, in occasione del suo ottantesimo compleanno. Sul palco della
Casa della Musica della città emiliana, gremita fino all'inverosimile, è salito
un ensemble da favola:
Gianluigi
Trovesi, Roberto Ottaviano,
Claudio Fasoli Riccardo Luppi, Alberto Mandarini,
Alberto Tacchini, Bruno Tommaso, Laura Conti, Stefania Rava,
affiancati dal giovane Emiliano Vernizzi ai sax. Al basso a sostituire
Roberto Bonati impegnato sul podio è arrivato all'ultimo minuto Matteo Ravizza,
promessa del corso di Jazz del Conservatorio Boito.
Il concerto che sarà trasmesso prossimamente da Radio 3 ha proposto una
rapida ma bruciante escursione nel repertorio del maestro milanese. Che era presente
in sala ed alla fine, emozionato è salito sul palco e si è seduto al piano, sfoderando
due sue riletture di musicisti Classici come Edgard Faurè (La sicilienne)
e John Elgar (Pomp and circumstance march).
Una serata, quella del 29 novembre che è stata un omaggio alla musica
ed alla sua continua, inesauribile, vitalità, al suo incessante guardare in avanti
senza tuttavia dimenticar e il passato. Un riassunto emozionante della filosofia
artistica di una rassegna come Parma Jazz Frontiere.
18/08/2011 | Gent Jazz Festival - X edizione: Dieci candeline per il Gent Jazz Festival, la rassegna jazzistica che si tiene nel ridente borgo medievale a meno di 60Km da Bruxelles, in Belgio, nella sede rinnovata del Bijloke Music Centre. Michel Portal, Sonny Rollins, Al Foster, Dave Holland, Al Di Meola, B.B. King, Terence Blanchard, Chick Corea...Questa decima edizione conferma il Gent Jazz come festival che, pur muovendosi nel contesto del jazz americano ed internazionale, riesce a coglierne le molteplici sfaccettature, proponendo i migliori nomi presenti sulla scena. (Antonio Terzo) |
05/09/2010 | Roccella Jazz Festival 30a Edizione: "Trent'anni e non sentirli. Rumori Mediterranei oggi è patrimonio di una intera comunit? che aspetta i giorni del festival con tale entusiasmo e partecipazione, da far pensare a pochi altri riscontri". La soave e leggera Nicole Mitchell con il suo Indigo Trio, l'anteprima del film di Maresco su Tony Scott, la brillantezza del duo Pieranunzi & Baron, il flamenco di Diego Amador, il travolgente Roy Hargrove, il circo di Mirko Guerini, la classe di Steve Khun con Ravi Coltrane, il grande incontro di Salvatore Bonafede con Eddie Gomez e Billy Hart, l'avvincente Quartetto Trionfale di Fresu e Trovesi...il tutto sotto l'attenta, non convenzionale ma vincente direzione artistica di Paolo Damiani (Gianluca Diana, Vittorio Pio) |
01/10/2007 | Intervista a Paolo Fresu: "Credo che Miles sia stato un grandissimo esempio, ad di là del fatto che piaccia o non piaccia a tutti, per cui per me questo pensiero, questa sorta di insegnamento è stato illuminante, quindi molte delle cose che metto in pratica tutti i giorni magari non me ne rendo conto ma se ci penso bene so che vengono da quel tipo di scuola. Ancora oggi se ascolto "Kind Of Blue" continuo a ritrovare in esso una attualità sconvolgente in quanto a pesi, misure, silenzi, capacità improvvisativi, sviluppo dei solisti, interplay, è un disco di allora che però oggi continua ad essere una delle cose più belle che si siano mai sentite, un'opera fondamentale." (Giuseppe Mavilla) |
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Data pubblicazione: 13/03/2010
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