Intervista a Paolo Fresu
luglio 2007
di Giuseppe Mavilla
G.M.: Quando nasce questo incontro con
Uri Caine
e come si è sviluppato nel tempo?
P.F.: Ho invitato
Uri nell'edizione
2002 del mio festival, lui è arrivato con il
suo trio, non ci conoscevamo poi siamo finiti sul palco e abbiamo fatto qualcosa
insieme che ci è piaciuta ed allora ci siamo ripromessi di dare un seguito a questa
cosa per cui ci siamo ritrovati a
Roma in
autunno. Abbiamo fatto una tounée con alcune date in Italia e altre in Europa finché
siamo approdati in studio per registrare un disco che si chiama "Things"
e stasera siamo qui per questo progetto nato così per caso ma ormai divenuto stabile.
Questo perché tra noi ci sono molte affinità, c'è molto amore per la melodia, c'è
molto amore per lo swing; come sentirai nel concerto di stasera, c'è molto jazz,
lavoriamo poco su nostri brani, ci sono invece molti standard.
G.M.: Che voi interpretate con rispetto ma anche
con eclettismo?
P.F.: Noi li interpretiamo a modo nostro ma anche
con molto rispetto per la tradizione, c'è Monteverdi, c'è Handel,
non ci sono solo gli standard, oggi suonarli sembra sia un peccato, perché sembra
nascondere la mancanza di nuove idee. Invece lo standard è una fonte di ispirazione
enorme che tu devi cercare di fare tua. E' chiaro che se lo suoni come lo ha suonato
Davis o Parker non ha senso, è banale. Quindi per noi il repertorio
è solo un pretesto per suonare della buona musica, che sia un brano nostro, che
sia uno standard, che sia un brano del ‘600, che sia una canzone, non cambia niente,
non è il materiale che è fondamentale, deve essere semplicemente valido perché diventi
una chiave per suonarlo dal nostro punto di vista.
G.M.: ...con l'obbiettivo nel contempo
di farlo conoscere...
P.F.: Sì, anche questo, però è fondamentale che
dietro tutto questo ci sia un'emozione, ci sia poesia e anche melodia, in fin dei
conti anche Uri
è un musicista che ama la melodia, che poi è l'aspetto primario di questo discorso.
Per cui non una musica che sia esclusivamente ricerca, non una musica intellettuale
e nemmeno un pretesto intellettuale per scegliere un brano anziché un altro. Tutto
quello che suoniamo lo suoniamo perché ci piace e spesso arriviamo al concerto la
sera e decidiamo di suonare un brano che uno di noi due ha provato per gioco durante
il soundcheck. Poi accade che l'altro ci va dietro perché lo conosce, e se il risultato
ci piace decidiamo di eseguirlo la sera durante il concerto. Non c'è un motivo preciso
per averlo fatto ci piace e basta.
G.M.: ...quindi non c'è una scaletta prestabilita?
P.F.: No, ci sono dei brani che suoniamo più spesso
ai quali aggiungiamo brani che magari improvvisiamo la sera e che conosciamo entrambi.
G.M.: Tu fai parte di una schiera di musicisti
di jazz italiani fra i più conosciuti e stimati, per i quali per certi versi è facile
avere successo, mentre ce ne sono altri che si muovono ancora, ai margini o nell'anonimato.
Nel caso tuo l'esperienza di Direttore Artistico di Time in jazz può averti aiutato
nell'alimentare questa tua visibilità o sei stato tu a dare notorietà al festival?
P.F.: Un po' entrambi gli aspetti, Berchidda è una sorta di isola felice
perché ha un grandissimo seguito, un paese di 2800 abitanti che ospita per cinque
giorni trentacinque mila persone. E' un fenomeno quasi da studiare. Io credo che
le due cose vadano di pari passo, nel senso che Berchidda è un percorso talmente
personale, che è difficile pensare ad un altro direttore artistico, si incarna,
purtroppo, con me...
G.M.: Perché "purtroppo"?
P.F.: Perché a volte sono stanco e la sua organizzazione
richiede un impegno notevole, richiede molto lavoro, è diventato qualcosa di molto
grande, c'è un team straordinario che ci lavora dietro, però alla fine è chiaro
che io, come dire, ho le mie responsabilità, creare quel festival, fare il cartellone,
scegliere il tema dell'anno, lavorare su progetti originali, costruire tutto un
percorso che in qualche modo abbia una sua logicità, infatti ogni cosa che succede
a Berchidda ha una logica sua fondamentale che è quella del rispetto dei luoghi,
indipendentemente che queste siano le montagne o le chiese in campagna o le navi,
gli aeroporti, ogni cosa è proprio estremamente pensata per concretizzarsi in un
percorso e da questo punto di vista per me è faticoso. Ci si lavora un anno, infatti
si finisce il 15 agosto, ma già a metà del successivo settembre si comincia a pensare
alla futura edizione. E' comunque una esperienza molto interessante e bellissima,
è come fare una partitura, costruire una sinfonia, per cui partendo da questo assunto
è chiaro che è difficile stabilire quanto c'è di
Paolo Fresu
e quanto c'è del festival, le cose sono strettamente legate, e penso che il festival
sia stato un ottimo strumento per la gente che viene e che ritrova in esso il mio
pensiero. Tornando a quello che mi chiedevi prima, sì è vero che ci sono molti musicisti
che meriterebbero di essere apprezzati, il jazz italiano è oggi a livelli veramente
molto validi e molti artisti avrebbero bisogno di più spazio, in particolare i giovani
e spero che siano sempre più festival a dare spazio ai giovani. In Sardegna c'è
ne sono e mi auguro anche che ci siano degli artisti che ascoltino, io ascolto tutto
ciò che mi viene spedito e scrivo quando me lo chiedono anche dei pareri. Scrivo
note di copertina spessissimo per giovani musicisti quando il disco mi piace e credo
che sia importante per i giovani che ci sia un aiuto da parte di coloro che hanno
un certo peso e che quindi possono dare un contributo importante. Per quanto riguarda
invece i musicisti noti, ma non a sufficienza, è un problema, perché ci sono musicisti
che non sono più tanto giovani e mi rendo conto che per loro è difficile, perché
a parte Berchidda molti festival programmano quello che gli passa per la testa perché
tanto la gente ci va lo stesso. Da noi hanno tutti lo stesso spazio, anche i borsisti
dei seminari di Nuoro Jazz e la gente viene perché si fida di noi e poi sceglie
quello che gli piace secondo le proprie preferenze. Purtroppo i Direttori Artistici
non hanno sempre coraggio e questo è un peccato perché si scoprirebbero delle cose
veramente straordinarie e il pubblico riuscirebbe ad avere una visione più chiara
di quella che è la forza del jazz italiano, una delle realtà più importanti che
ci sono in Europa e non solo.
G.M.: Il libro che ha scritto Luigi Onori,
Paolo Fresu Talabout, che avete fatto quasi
insieme, ti ha soddisfatto?
P.F.: Sì, io sono soddisfatto perché credo sia
un libro serio, molto profondo, anzi troppo profondo nel senso che per un profano
magari questa raffica di informazioni non siano molto interessanti, ma ci sono anche
dei pensieri, delle riflessioni. Io sono molto contento perché è un libro che mi
rappresenta molto e non è affatto lacunoso, racconta una storia che è la mia in
questo caso, e soprattutto, questo l'ho detto sempre quando lo abbiamo presentato
in giro, è un libro talmente approfondito e serio che in realtà racconta la storia
del jazz degli ultimi trent'anni e quindi credo che ce ne fosse bisogno di un libro
che raccontasse una storia comunque nuova che sta portando ai risultati che conosciamo.
Chiaramente la mia è una delle tante storie però sicuramente ha una progressione
molto logica occupandosi di uno che viene dalla periferia, da un paese piccolo di
un'isola per certi versi isolata e si trova a vivere in un mondo che è quello del
jazz italiano prima e del jazz europeo dopo per cui sono contento e credo che mi
rappresenti bene. Non racconta solo di dati con grafici piuttosto che informazioni
discografiche, ma racconta, neanche in modo distaccato, un filosofia di pensiero
che non è soltanto quella della musica ma anche quella di un artista che ha il pretesto
della musica per andare a cercare altro. E anche questo pretesto della sardità che
è una parola grossa della quale non se ne può più e dietro la quale tutti si nascondono.
Comunque Luigi riesce, da persona intelligente qual è, a raccontare e fotografare,
dalla giusta distanza, questo mio percorso vedendolo da fuori e cercando di inquadrarlo
in un contesto più ampio che è quello del jazz italiano.
G.M.: Hai già tracciato un tuo percorso preferenziale,
da percorrerete in seno al jazz e alla musica più in generale visto le tue aperture
musicali?
P.F.: Io sono ancora incerto e anche un po' stanco
al punto che mi verrebbe anche voglia di focalizzare solo su alcuni progetti la
mia attenzione, però poi alla fine, è questa la cosa che mi piace di più. Io questo
mese suonerò tutti i giorni, sarò ad Umbria Jazz e a parte i dieci giorni
con Uri
suonerò con il mio quintetto, con il quartetto Devil con
Antonello
Salis, sarò con il quartetto d'archi, con Dhafer Youssef &
Eivind Aarset, con la Kocani Orchestra e poi ci sono i miei progetti
storici che sono dei punti fermi e che porto avanti da diversi anni e ormai penso
che questo di stasera con
Uri ne faccia
parte così come quello con l'Orchestra jazz della Sardegna con la quale abbiamo
registrato "Birth of The Cool" per dare seguito
all'operazione filologica di recupero di quelle opere della metà degli ani '50.
Però diciamo che ci sono due vie una è quella dei miei progetti coltivati e seguiti
da quindici, venti e più anni e una via diversa, comunque fondamentale, che è quella
degli incontri perché non puoi chiuderti in una gabbia in quanto, se non ti alimenti
altrove, finisce che la tua musica diventa un po' ripetitiva. E' il discorso dei
progetti della musica del mondo, sta per uscire spero prestissimo un film con gli
zulù sudafricani che abbiamo girato due anni fa. Sono tutte esperienze che mi stimolano
molto perché al di là del fatto che siano jazz o non siano jazz, e si può molto
discutere sul grado di jazzità di questi progetti, sono dei percorsi di ricerca
a ritroso con le quali alla fine scopri che ci sono delle affinità in qualsiasi
caso. Alcune volte può risultare dispersivo, lo so, però mi piace di più l'idea
di rischiare con le scelte musicali piuttosto di quella della sicurezza, in cui
ti presenti sul palco e fai quello che la gente ti chiede e tutti sono contenti.
Mi piace anche l'idea non di spiazzare però se dovessi essere quello che funziona
con i dettami di oggi direi sono un musicista conosciuto, la gente viene per sentire
quello che vuole sentire però a me non interessa e se gli piace è ok, se non gli
piace pazienza. E' fondamentale avere questa libertà, non essere legato a nessun
tipo di successo perché se no finisce che diventiamo come tutti gli altri.
G.M.: I tuoi riferimenti relativamente agli anni
‘50?
P.F.: Miles,
Chet Baker
in primo luogo, poi naturalmente anche gli altri Armstrong, Clifford Brown,
Fats Navarro, Lester Bowie, Don Cherry e ancora i grandi di
sempre, i pluriascoltati però diciamo che da un certo punto di vista della costruzione
filosofica del progetto musicale Davis rimane una sorta di faro non tanto
come trombettista ma proprio per quello che ha fatto insieme a pochi altri nella
storia del jazz. Io penso che lui sia stato uno che ha contribuito in maniera determinante
all'evoluzione della storia. Cioè: un conto è essere poeti della tromba come
Chet Baker
o come altri, un'altra cosa è essere riusciti a fare dei passi talmente grandi da
far si che altri poi siano entrati in quelle porte chiuse per scoprire dei mondi
completamente nuovi. Credo che Miles sia stato un grandissimo esempio, ad di là
del fatto che piaccia o non piaccia a tutti, per cui per me questo pensiero, questa
sorta di insegnamento è stato illuminante, quindi molte delle cose che metto in
pratica tutti i giorni magari non me ne rendo conto ma se ci penso bene so che vengono
da quel tipo di scuola. Ancora oggi se ascolto "Kind Of
Blue" continuo a ritrovare in esso una attualità sconvolgente in quanto
a pesi, misure, silenzi, capacità improvvisativi, sviluppo dei solisti, interplay,
è un disco di allora che però oggi continua ad essere una delle cose più belle che
si siano mai sentite, un'opera fondamentale.
G.M.: Pensi che quel periodo nel jazz sia ripetibile?
P.F.: Fortunatamente no, come tutti i periodi
storici...
G.M.: Perché, ritieni che siano stati dei geni?
P.F.: No, io non credo nella genialità, penso
invece che siano stati degli artisti immensi. Però l'immensità della artista non
è nella non capacità di raggiungere qualcosa. Io penso che l'immensità dell'artista
sia nell'estrema intelligenza nel dono, naturalmente fondamentale della musicalità,
e poi in una capacità straordinaria di pensare con la testa e di suonare con lo
stomaco per cui non credo nella genialità assoluta, credo nella capacità di alcuni
artisti proprio di riuscire a portare avanti un qualcosa e nello stesso tempo ottenere
dei risultati laddove altri non riusciranno mai ad arrivare. Mi piace pensare all'artista
come una persona qualsiasi ricca di umanità, un'umanità che lo rende ancora più
grande. Non pensare all'artista come a qualcosa di inarrivabile. Però questa umanità
mi piace pensarla convivere con le stesse insicurezze e i problemi che hanno gli
altri. Sono le doti naturali che fanno la differenza e se si hanno delle doti allora
si possono raggiungere dei risultati. E' vero che il raggiungimento di certi risultati
dipende anche da altri fattori, passa da altre logiche, per cui penso che quel periodo
storico non sia ripercorribile, non ci sono le stesse persone, non ci sono le stesse
teste ne' le stesse esigenze di vita, le stesse problematiche, per cui ha fatto
bene Miles quando gli hanno chiesto di rifare Porgy and Bess, a dire
di no. Piuttosto credo sia fondamentale rifare un'altra opera così grande che non
deve essere la stessa. Utilizziamo altri linguaggi, ci sono altri codici che si
rifanno alla musica di allora, necessitiamo di periodi storici che siano marcati
da opere che in qualche modo superino i tempi e restino nella storia. Finora credo
che sia accaduto raramente di trovare opere così importanti che dopo quarant'anni
continuano ad avere addosso la patina del tempo. Certo sulle le opere di oggi come
ad esempio quelle del trio di
Jarrett
o di altri potremmo discutere tra trent'anni, però è anche vero che la musica di
oggi e anche certo jazz di oggi si sta allineando verso direzioni di consumo vedi
ad esempio la house music. Sono espressioni musicali che non fai a tempo a conoscere
che già cambiano, per cui è difficile trovare oggi un filone talmente preciso e
rigoroso che esprima qualcosa che tra cinquant'anni sarà ancora in auge come accade
se sentiamo oggi Porgy and Bess
Louis Armstrong
ed Ella Fitzgerald. E' inevitabile che ci stupiamo, ciò vuol dire che
quella musica ha un valore assoluto che va al di là del tempo, al di la della moda
e c'è una classicità, se vogliamo definirla tale, che non è estetica ma di contenuti
che va al di là di tutto. Credo che Kind Of Blue
ad esempio sia una di queste ma quella classicità è anche nell'arte, non si può
oggi disegnare come Leonardo o come Botticelli o rifare il neo classico,
non avrebbe assolutamente senso. Ha un senso studiare quell'opera, studiare le tecniche
e cercare oggi di costruire un qualcosa che rifacendosi a quel periodo storico possa
inventare qualcosa di nuovo. Ecco io penso che questo sia il nostro compito e credo
che sia un compito estremamente scomodo.
G.M.: Oggi qual è il linguaggio jazz che ha un
po' queste caratteristiche e dove nasce? Per esempio New York, la Downtown Scene,
oppure…?
P.F.: Dicuramente alcune delle cose newyorkesi
sono molto interessanti. Io penso che a New York si sta ricreando quell'incrocio
storico che c'è stato negli anni ‘20 durante il secolo scorso. Il jazz nasce da
questo incontro di culture che vengono da tutto il mondo. La New York di oggi, quella
dei musicisti è un po' simile, poi c'è la scena scandinava e anche quella italiana.
Di certo è difficile oggi poter stabilire quale potrebbe essere la corrente che
può dare determinati risultati. Sicuramente quella del jazz elettrico, un po' spaziale,
norvegese, è un percorso nuovo ben identificabile e quindi è auspicabile che questo
percorso possa dare ottimi risultati. Insomma stanno arrivando dall'Europa alcuni
spunti che sicuramente sono nuovi rispetto al passato. Di certo non credo, e lo
dico con un po' di polemica, che sarà il jazz di Wynton Marsalis, che continua
a limitarlo nell'ambito di un preciso periodo storico. Il jazz è una musica aperta
a tutto quello che accade intorno ed è sempre stato così se si affronta con rigore
e troppi limiti è difficile che possa svilupparsi.
G.M.: Sul tuo cd player cosa hai messo ultimamente?
P.F.: Ultimamente sto ascoltando un disco
molto bello di un quartetto d'archi che si chiama Alborada, dove suona anche
mia moglie che è una violinista, un altro disco molto bello che mi è arrivato a
casa è quello del gruppo di Karlos Bruschini, bassista dei Cordoba Reunion,
di
Javier
Girotto, poi ascolto spesso Kind
Of Blue, ascolto un disco di Maria Bethania comprato a Bahia due
anni fa, dedicato al repertorio di Vinicius De Moraes, tant'è che ho inciso
uno di questi brani in un disco con
Galliano
che uscirà in Italia il prossimo anno. Ascolto anche
Jarrett
nei dischi da solo, ascolto molte cose anche per necessità perchè magari devo scriverne
le note di copertina e poi ascolto principalmente a casa. Ascolto musica barocca,
ascolto Bach, musica del ‘600, poco rock e poco pop.
G.M.: Infine parliamo dell'ultimo disco che hai
inciso insieme al tuo quintetto?
P.F.: E' l'ultimo di cinque album e a quanto
ci risulta non è stata mai fatta una cosa simile. Un progetto importante che racconta
un'esperienza singolare. Ognuno di noi ha espresso un disco per il gruppo, suoniamo
insieme da ventitre anni siamo sempre stati noi cinque, per cui questa idea dei
cinque dischi è una scommessa e anche un rischio. Direi una scommessa vinta perché
i dischi sono tutti usciti, sono stati apprezzati anche all'estero e adesso l'ultimo
è il mio uscito il mese scorso
G.M.: Sei rimasto per ultimo?
P.F.: Sì e in effetti pensavo: -magari……
non lo compra nessuno- e invece sta andando bene e comunque sono cinque progetti
discografici simili ma diversi. Volevamo spiegare attraverso questi cinque dischi
che quando un gruppo resta insieme così tanti anni ha una personalità talmente forte
e pregante che anche in questo caso non è importante la musica che si suona ma come
la si suona e quindi i cinque dischi sono tutti suonati allo stesso modo. L'idea
era quella di dimostrare che potevamo suonare con la logica del quintetto, le composizioni
di cinque autori diversi, qualcuno ha detto: -sono tutti uguali- e invece no, sono
uguali e diversi se li ascoltate con attenzione, perché c'è la diversità della scrittura
della musica più o meno architettata, più o meno organizzata. C'è chi scrive in
modo più poetico, ogni disco ha una sua dimensione perché pensato da uno dei cinque.
Poi c'è una sintesi che è quella del gruppo, noi cinque viviamo talmente in simbiosi
che suoniamo la musica come un principio che ci appartiene.
05/09/2010 | Roccella Jazz Festival 30a Edizione: "Trent'anni e non sentirli. Rumori Mediterranei oggi è patrimonio di una intera comunit? che aspetta i giorni del festival con tale entusiasmo e partecipazione, da far pensare a pochi altri riscontri". La soave e leggera Nicole Mitchell con il suo Indigo Trio, l'anteprima del film di Maresco su Tony Scott, la brillantezza del duo Pieranunzi & Baron, il flamenco di Diego Amador, il travolgente Roy Hargrove, il circo di Mirko Guerini, la classe di Steve Khun con Ravi Coltrane, il grande incontro di Salvatore Bonafede con Eddie Gomez e Billy Hart, l'avvincente Quartetto Trionfale di Fresu e Trovesi...il tutto sotto l'attenta, non convenzionale ma vincente direzione artistica di Paolo Damiani (Gianluca Diana, Vittorio Pio) |
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Data pubblicazione: 01/10/2007
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