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Intervista a Gianluigi Trovesi
Siena,25 luglio 2005
di Alceste Ayroldi

Con la collaborazione di Dino Plasmati

La sera antecedente l'intervista conosco il Maestro Trovesi. Una figura imponente sia per la sua fisicità e sia per quello che significa nell'ambito della musica mondiale. Dopo il concerto conveniamo d'incontrarci presso il suo albergo il mattino dopo. Alle 9,00! Diamine che tempra, penso.

Faccio fatica a svegliarmi viste la lunga notte senese trascorsa anche nei meandri di Piazza del Campo.

Alle 9 in punto sono al suo albergo e lui, dopo una manciata di minuti è da me. Imponente. La materializzazione dell'iconografia dell'Onnipotente, penso. Ed è un onnipotente, sia nello scibile e sia nelle sue scelte alimentari (si dichiara un onnivoro).

E' affabile come pochi, gentile e sorridente. E' emozionante sentirlo dissertare su tutto con dovizia di particolari e spessore culturale.

Dalla mia prima domanda emerge, ovviamente, il suo primo lavoro discografico "Baghett". Mi spiega, con la sua flemmatica incisività, cosa significhi. "Indica la cornamusa e qualsiasi cosa si avvicini, anche il piffero. Noi in bergamasco la chiamiamo Baghett. In modo spregiativo, quando uno suona male il clarinetto, diciamo: suona il baghett. Anche il titolo del disco è una presa in giro che ho fatto nei miei confronti. Così i miei corregionali sanno che cosa significa…Non è il massimo del complimento, insomma."

A.A.: Da Baghett a Fugace quanto è cambiata la sua musica?
G.T.: E' cambiata così come cambia il modo di alimentarsi. Spero che sia migliorata, però la linea era già tracciata lì. Primo perché questo disco non è fatto in età giovanile perché avevo già trentaquattro anni, avevo già fatto un percorso piuttosto duro. Secondo perché avevo all'interno messo la mia ideologia. In quel momento imperava il free jazz (ndr. Baghett è stato inciso nel 1978) ed avevo avuto in mente di immettere il mio lavoro come trait d'union. Un lavoro non astratto, anche se poi sarei andato in quella direzione, che rappresentasse culturalmente me ed anche le mie origini. E' tutto basato sulle variazioni di un saltarello fiorentino del trecento. Saltarello il cui originale è custodito dal British Museum di Londra. Cosa voleva dire questo: io sono di quest'area e di questa cultura, cioè quella italiana, nell'Ars Nova fiorentina. L'altra cosa è che questo saltarello oltre ad essere modale era anche tonale. Quindi erano presenti in questo brano popolare i semi che, in seguito, avrebbero sviluppato i grandi musicisti. Quella era la base delle variazioni, che erano di tre tipi: due di carattere jazzistico più una blues che io facevo con il sassofono contralto, che ritengo più vicino a me dal punto di vista jazzistico. Una variazione era più vicina al '900 perché avevo utilizzato il ritmo del saltarello però la melodia l'avevo totalmente cambiata. Era col soprano che utilizzavo come strumento, diciamo, bucolico. Il suono è quello che si avvicina di più all'oboe. E l'oboe con il flauto fanno pensare a strumenti antichissimi, erano di carattere etnico, jazzistico e afferenti la cultura europea, la tradizione culturale europea. Questo stava tutto in un brano di un minuto!

Fugace è un omaggio, oddio per quello che contano i miei omaggi, a Louis Armstrong. Secondo me Armstrong è l'inventore del jazz. La maggior parte del concerto di ieri (24 luglio, piazza del Campo per la rassegna Siena Jazz, n.d.r.) era su una variazione di West End Blues di Armstrong. Però, come si ascoltava all'inizio ed alla fine del concerto, insieme ad un giro armonico, cambiato ovviamente, che utilizzava nel '700 Scarlatti. Ecco, ci sono tre riferimenti: l'Africa, l'Europa con l'introduzione di clavicembalo che simboleggia per l'appunto l'Europa e non può essere né l'Africa né il jazz e poi c'è il Dixieland.

A.A.: Possiamo dire, quindi, che la tradizione per lei ha una forte importanza…Nella musica ascoltata ieri c'erano dei ritmi e tempi ancestrali, tribali…
G.T.: Sì. Non so se quello che faccio io sia buono o meno, ma penso che la tradizione sia molto importante. Ho avuto questi grandi amori. Infatti adesso sto facendo un lavoro con un'Orchestra Filarmonica sull'opera che va dall'Orfeo di Monteverdi alla Tosca di Puccini passando dalla Traviata alla Serva Padrona di Pergolesi nonché dalla Cavalleria Rusticana. Ci sono, purtroppo, anche dei pezzi miei in mezzo. Questo è un riferimento alla cultura ed alla tradizione. Bisogna vedere per tradizione cosa s'intende… Se s'intende la musica che precede e la musica che sta intorno a Louis Armstrong, lo swing ed il bop, allora la conosco abbastanza bene. Ognuno di noi cerca di mettere all'interno delle cose che fa, quello che più ama. E quali sono le cose che noi amiamo di più? Quelle che ci riescono meglio! A me, per esempio, piace anche la musica improvvisata contemporanea, però con le tecniche di base dell'esecuzione come punto più staccato. La respirazione del continuo non ce l'ho! Non posso barare. Alcune volte faccio certe cose, però perchè l'esperienza mi aiuta. Ma se dovessi scegliere di fare solo quel lavoro dovrei studiare bene e cercare di capire bene due momenti di questo astrattismo che sono importanti. Allora, siccome ho lavorato tanto nelle canzoni anche nell'orchestra della Rai di Milano come primo alto e come primo clarinetto, ed ho suonato tanto, ho studiato tanto anche al Conservatorio, quando qualcuno decide di farmi suonare e magari anche di darmi un cachet, cerco di metterli dentro.

A.A.: Da cosa traggono ispirazione le sue composizioni?
G.T.:
Dipende dalla definizione di ispirazione! C'è una bellissima frase tratta da un'intervista ad Ennio Morricone: "Maestro, quale è il segreto per fare musiche da film?" E la risposta: "Il segreto è quello di studiare da piccoli…". Quando uno sa fare un quartetto d'archi, sa fare una sinfonia, sa fare musica rock. Prima, però, ci vuole l'artigianato, secondo me, poi ci vuole l'ispirazione, che vuol dire l'idea che uno ha in testa. Potrei avere l'idea di un romanzo – se dovessi scrivere in bergamasco riuscirebbe meglio che in italiano - ma se lo dovessi scrivere in un'altra lingua, forse le idee mi mancherebbero, sarei in difficoltà. L'idea va sviluppata. Però l'idea può venire anche sentendo della musica, dei suoni. La tecnica che io chiamo "della variazione". E' un po' quello che sta succedendo con la banda, con la Filarmonica che – purtroppo l'hanno deciso loro – si chiama: "Trovesi all'Opera". Potrebbe essere una minaccia…C'è anche una bellissima opera di Verdi. Però, prima di farla sentire prendo le prime tre note di quest'opera con l'introduzione e chi è un melomane si aspetta l'opera di Verdi. Ma alla quarta nota incomincia a cambiare. Il tempo è lo stesso ma cambia l'armonia e si forma da un'altra parte. Insomma, un melomane rimane deluso, perché è un pezzo mio. Però è carino! In questo caso il brano nasce cercando di parafrasare, creando il tranello all'ascoltatore. Allora, quando l'ascoltatore –melomane- sta per andarsene, come per gioco, io riprendo il pezzo. E' un gioco. Altre volte lavoro intorno alla cadenza di Louis Armstrong ma con delle tecniche già utilizzate, come quella tenor e ne faccio un altro pezzo. La musica crea delle emozioni, ciò è indubitabile. Se non le crea ci sono due motivi: il primo, l'autore non voleva creare emozioni sia in positivo che in negativo, oppure non è riuscito a crearne. Ci sono delle emozioni tribali, delle emozioni amorose, di tensione, delle emozioni che derivano dall'utilizzo dei suoni elettronici, come faceva Massimo Greco (non so come faccia tirare fuori certe diavolerie…). Le emozioni si decidono a priori e derivano sempre da un percorso. I pezzi, suonandoli, maturano oppure peggiorano, vanno a male, si deteriorano. Se dovessi sentire il primo concerto che abbiamo fatto con queste tematiche (Fugace, n.d.r.) e l'ultimo sarebbe difficile riconoscere tutto. Perché man mano arrivano degli elementi portati dai musicisti stessi, oppure come riflessione personale. E' un lavoro in divenire. Per esempio, ad un certo punto ho rubato a Stravinsky le prime tre battute per fare una cosa poi molto…africana, molto tribale.

A.A.: Cosa prevede l'agenda di Trovesi?
G.T.: Prima di tutto, sopravvivere qualche mese ancora…Ad una certa età bisogna anche pensare a cosa succede dall'altra parte! In ottobre dovrei registrare per l'ECM con un trio formato da me, Fulvio Maras alle percussioni e da Umberto Petrin al pianoforte. L'idea intorno a cui incideremmo sarebbe intorno a delle composizioni, delle songs, che un violoncellista bergamasco della fine dell'ottocento, Alfredo Piatti scrisse per sua moglie che era una cantante. Alcune di queste canzoni le riutilizziamo, poi ci sono anche altri brani. Questa è l'idea di partenza, dobbiamo metterla a fuoco e poi speriamo di registrare e che poi venga pubblicato. Ci sono poi i progetti con Gianni Coscia in duo, oltre l'ottetto, ovviamente.

A.A.: Nell'ambito di tutta la sua musica traspare il senso di libertà: questo senso di libertà lo traspone anche nella vita?
G.T.:
Penso che chiunque lavori intorno ad una idea artistica o chi riesce a fantasticare, che riesce a staccarsi da quello che ci circonda e fantasticare su qualsiasi cosa, politicamente, socialmente o artisticamente, ha qualche chance in più per non andare dall'analista. Dico sempre che se non vado dall'analista è perché soffio in un tubo! Penso solo ed unicamente a soffiare nel tubo e quindi alla nota che emetto e non penso a vincere un concorso oppure ad avere un posto fisso, oppure alle realtà della vita. Quindi fantasticare, staccare è importante.

A.A.: Uno dei suoi progetti è In cerca di cibo: quale cibo cerca Trovesi?
G.T.: Innanzitutto è il titolo di un brano di Fiorenzo Carpi che è legato al Pinocchio di Comencini. Abbiamo deciso di utilizzare cinque brani di Lorenzo Carpi. Poi vedendo me dal punto di vista fisico, si vede che il cibo l'ho trovato! E l'ho sempre cercato. Comunque il lavoro, ovviamente, riguarda il cibo dell'anima, il cibo dell'ispirazione, della ricerca di un momento di emozione. In fondo ogni cosa è un modo per cercare di capire, se arriva un'emozione, di non lasciarla perdere. Quindi se io faccio questo mestiere - indegnamente - è perché cerco delle emozioni e spero di dare delle emozioni.

A.A.: Se dovesse scrivere un libro, quale forma letteraria sceglierebbe e che oggetto avrebbe?
G.T.: Non scriverei perché mi arenerei in qualche congiuntivo o meno…Se potessi e ne avessi la capacità, sceglierei la forma letteraria, anzi vorrei essere un allievo di Achille Campanile. Racconti quasi senza senso. Roberto Bonati, il contrabbassista, uomo molto colto - oltre ad essere un ottimo musicista - ha la "r" moscia tipica dei parmigiani, quando io morirò dovrà leggere "La Quercia del Tasso" di Campanile. Perchè così penso che, tra la "r" moscia da parmigiano ed il racconto, almeno la gente riderà un pochino.

A.A.: Lei passa con estrema facilità e bravura dal sestetto all'ottetto al nonetto. Ma quale è la formazione che predilige?
G.T.: In questo momento, perché i musicisti sono secondo me bravissimi, preferisco l'ottetto. Però ho avuto anche la fortuna di aver avuto un incarico per la Big Band di Colonia che ha suonato i miei pezzi, arrangiati per l'occasione, con ospite Stockhausen in qualità di solista. Ho fatto il direttore! Io non lo sono e non vorrei mai farlo. Però mi piacerebbe far parte di una orchestra ma stando dall'altra parte. Un'altra cosa che non sceglierei di fare è il solo. Ho provato, ma non è proprio il mio mondo. Va benissimo anche il duo. Ma ogni gruppo ha dei pezzi ben precisi e delle sonorità ben precise. Un onnivoro come me, lei pensa che abbia dei dubbi se mangiare la torta di frutta oppure dei frutti di mare? Nessun dubbio: entrambi. Si spera solo di non mangiare tutto insieme!

A.A.: Come mai nell'ottetto c'è l'utilizzo di violoncello, contrabbasso e basso elettrico?
G.T.:
L'ottetto nasce come momento di riunione di espressivi emozionali. Un bassista è jazz, un bassista è musica del novecento o situazione cameristica. Il violoncello da una mano alla sezione cameristica e poi fa anche gli effetti alla Jimi Hendrix. Così come una percussione è antica, etnica ma anche novecento, mentre la batteria è jazz. I fiati sono antichi ed anche jazz, il sassofono è jazz, i clarinetti sono la chiave per entrare dappertutto. Chi fa i suoni deve essere rispettoso di quelli originali dello strumento, ma la prima emozione è la voce, il timbro: io posso anche non capire il linguaggio, ad esempio uno che mi parla in cinese, però vengo sicuramente colpito dal timbro della voce, dalla emozione dei suoni.







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Data pubblicazione: 03/09/2005

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