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 Intervista a 
Cinzia Eramo 
di Alceste Ayroldi 
  
«Lavorando sui songs e sui 
temi della grande tradizione moderna, non ha imboccato la strada della consuetudine 
interpretativa, ma al contrario ha messo a fuoco una intesa estrema che ha permesso 
loro di trasformare questi "materiali di lavoro" in piccole gemme di "estraneazione" 
creativa, in brani autonomi impregnati di tradizione e di ricerca "futuribile" tutta 
europea, e più ancora italiana, mediterranea.»
Giorgio Gaslini  
Sono parole autorevoli che descrivono l'intenzione artistica di Cinzia 
Eramo, una giovane jazz singer pugliese. 
A.A.:  Una dottoressa 
in filosofia che fa la musicista: come ti sei accostata al canto e, in particolare, 
al jazz? 
C.E.: 
In realtà mi sento una musicista che 
si è accostata per passione alla filosofia! Nel senso che mi sono rivolta alla filosofia, 
come una fonte esterna per capire meglio me stessa e ciò che mi circonda, invece 
la musica è in me, è lei che mi guida. Il jazz, poi è stato una folgorazione.
 Ho 
cominciato a cantare all'età di sedici anni seguendo le orme di quelli che erano 
i miei idoli, ovvero le grandi voci black americane: Whitney Houston, 
Aretha Franklin, George Benson, Dionne Warwick, Stevie Wonder 
etc.. Poi un giorno mio fratello Giacomo, musicista jazz anche lui, mi fa 
ascoltare una cassetta in cui era presente la registrazione storica dello standard
How high the moon (Live in Berlin) cantato dalla 
sublime Ella Fitzgerald: lo imparo per bene, compresa naturalmente l'improvvisazione 
vocale, e mi preparo per la mia prima jam session accompagnata alla chitarra dal 
già noto Marco Losavio. Persevero in quella direzione e così, a diciotto 
anni comincio a studiare canto con
Gianna Montecalvo, 
un incontro fortunato e speciale, la quale mi aiuta ad ordinare e realizzare le 
tante idee che attraversavano la mia mente.
A.A.: La tua impostazione 
è molto votata all'improvvisazione. Quanto è importante per te e quali sono le tracce 
fondamentali dell'improvvisazione? 
C.E.: L'improvvisazione ricopre un ruolo rilevante nella mia inclinazione 
musicale. La trovo molto stimolante, perché esalta la mia creatività artistica e 
la traduce in suoni, rumori, sospiri, versi, grida, parole, sillabe, respiro. Ritengo 
sia una musica molto coraggiosa. È una composizione estemporanea, per cui è come 
trovarsi costantemente sul filo del rasoio, non sai dove arriverai, che strada prenderai, 
se non dopo averlo fatto, sai solo da dove vieni e quello che possiedi. Quello che 
accade poi fra i musicisti che improvvisano è un'alchimia. È un momento delicato 
e magico, in cui devi cercare di conciliare le tue esigenze solistiche con quelle 
collettive, che possono tuttavia cambiare il corso della tua esposizione e portarti 
ancora una volta su un campo totalmente estraneo. Improvvisare è comunque comunicare, 
ognuno ha una propria storia da raccontare, e lo fa utilizzando il proprio bagaglio 
musicale ed esistenziale! Bisogna ascoltare e lasciarsi ascoltare, per evitare di 
sovrapporre idee, suoni, soprattutto quando si è in pochi, dove c'è più rischio 
di eccedere e di ripetersi. È energia allo stato puro. 
A.A.: Quanto incide nella 
tua vita professionale l'attività didattica? Ritieni che sia importante anche per 
una crescita professionale? 
C.E.: Personalmente insegno 
da solo tre anni, per cui non posso tirare chissà quali conclusioni, tuttavia posso 
dire con certezza che l'attività didattica può essere importante per un artista, 
ma non fondamentale. Nel senso che insegnare ti può aiutare a fissare meglio dei 
concetti, a ricercare meglio il rapporto fra le cause e gli effetti, ti impegna 
a rispondere con coerenza ai tanti perché di un allievo, tuttavia ritengo 
che questo sia un percorso di ricerca che ogni professionista degno di tale 
nome debba fare, a prescindere dall'insegnamento. Senza tralasciare il fatto che 
insegnare poi non è proprio la cosa più semplice e naturale che ci sia, bisogna 
saperci fare!  
 A.A.:
Il concerto più brutto a cui hai assistito… 
C.E.: Beh, brutto è una 
parola grossa, meglio scontato e un po' troppo commerciale….. quello di George 
Benson due anni fa a Napoli. 
  
A.A.: Che musica ascolti? 
C.E.: In realtà ascolto 
tanta musica, in questo mi aiutano tanto anche gli allievi!! Mi piace attraversare 
tutti i linguaggi musicali senza pregiudizi, sicuramente dopo opero delle scelte, 
ma prima ascolto. 
A.A.: La tua vocalist 
di riferimento… 
C.E.: Se devo fare solo 
un nome rispondo Betty Carter, colei che ha rivoluzionato il linguaggio 
vocale jazzistico, intervenendo lì dove nessun cantante prima aveva osato. Il 
suo jazz prevedeva uno svecchiamento generale di tutte quelle componenti ritmiche, 
timbriche e di insieme, che difficilmente un cantante poteva sovvertire: più di 
un musicista bebop aveva attuato tale svecchiamento, ma pochi cantanti possedevano 
il carisma e gli strumenti per farlo. Per esempio, ha sperimentato nuove 
sillabe scat per improvvisare, naturalmente suggerite dalla sua musica 
(non a caso era soprannominata Betty Bebop), ha giocato con il tempo andando incontro 
a dilatazioni e poi ad accelerazioni vertiginose, persino l'armonia viene ridotta 
ai minimi termini e la voce ricama melodie fluttuanti che se pur note, si stenta 
a volte a riconoscerle. È stata la prima donna che per garantire la pubblicazione 
delle proprie produzioni artistiche ha messo su una etichetta discografica nel
1971 la Betcar, oggi la sua erede è
Dee Dee Bridgewater. 
La prima donna talent scout che nel 1993 ha 
costituito Jazz Ahead Program, per promuovere la formazione e l'inserimento 
nel circuito newyorchese talenti del calibro di John Hicks, Mulgrew 
Miller, Dave 
Holland, Lewis Nash, Greg Hutchinson. Tutta la sua musica, 
sia quella composta da lei che l'esecuzione stessa degli standards, riflette la 
sua creatività e la sua voglia di andare oltre. Nessuna sua registrazione può passare 
inosservata anche a causa degli eccessi nei quali a volte cade, ma è importante 
rischiare, anche per questo è uno dei miei modelli per eccellenza. 
A.A.: Dal tuo lavoro 
traspare chiaramente la tradizione musicale, seppur opportunamente rivisitata: quanto 
è importante per te la tradizione?  
C.E.: La conoscenza della 
tradizione è fondamentale se la si vuole attraversare e poi superare. Ho appreso 
dalla filosofia i tre momenti della dialettica tesi-antitesi-sintesi che in realtà 
tornano utili nelle scelte di ognuno di noi: alla sintesi, che nella fattispecie 
sarebbe la mia scelta musicale, ci sono arrivata solo dopo aver conosciuto la tradizione 
e ciò che le è opposta. "Spontaneous 
conversation" è mantenimento della tradizione ed insieme il suo 
superamento.  
 A.A.:
Quanto ritieni sia importante avere visibilità negli Stati Uniti? 
C.E.: Ritengo che sia molto 
importante, per chi come noi vive lontano da quei luoghi e da quelle atmosfere fare 
almeno un viaggio per assaporare quel qualcosa che né i dischi, né i tanti libri 
sul jazz possono darci. Poi essere addirittura visibili in America….non riesco neanche 
ad immaginarlo, sarebbe troppo bello…. 
A.A.: Sei stata finalista 
al prestigioso premio nazionale
Massimo 
Urbani nonostante una concorrenza molto forte: quanto hai dovuto lavorare? 
Che difficoltà hai avuto?  
C.E.: È stata una grande 
sorpresa anche per me, perché non pensavo di farcela, dico questo perché sono arrivata 
in finale non in concorso con altri cantanti, bensì con dei musicisti. Nella storia 
del Premio
Massimo Urbani 
è stata la prima volta che un cantante è stato finalista nella sezione musicisti. 
Una bella responsabilità ed una grande soddisfazione. Sono arrivata nel gruppo dei 
primi dieci e poi addirittura negli ultimi sei. Mi è stata offerta una borsa di 
studio per i corsi estivi a 
Siena Jazz, 
ma la soddisfazione più grande per me è stata legata al fatto che sono riuscita 
a trasmettere alla giuria quello che sono, e che voglio che arrivi al pubblico. 
Queste sono state le parole espresse nel comunicato stampa da parte della giuria:
Cantante dalle grandi qualità vocali e dalla tecnica molto personale, si caratterizza 
per un fraseggio quasi 'sperimentale' che sembra emergere in gruppo come quello 
di uno strumento. Davvero una voce che 'suona'. Mi riconosco perfettamente. 
Le difficoltà ed il lavoro non sono ricollegabili solo al periodo precedente il 
concorso, nel senso che lì ho portato tutto ciò che ho costruito negli anni, c'era 
sicuramente la voglia di fare bene anche perché era pur sempre un concorso e non 
una semplice vetrina. 
A.A.: Il sogno della 
tua vita… 
C.E.: Lavori in corso……… 
 A.A.:
Chi vorresti ringraziare? 
C.E.: La persona con cui 
condivido sogni, aspirazioni, sconfitte e vita quotidiana! Poi la persona che mi 
ha trasmesso il coraggio di credere in me stessa e in quello che sento, il maestro
Giorgio Gaslini. 
A.A.: Chi non vorresti 
ringraziare? 
C.E.: Tutti quelli che 
gravitano intorno al mondo del jazz, si nascondono dietro l'etichetta ed intralciano 
il cammino di tutti quelli che credono davvero nel jazz. 
A.A.: L'ultimo disco 
che hai ascoltato? Ti è piaciuto? 
C.E.: The Fred Hersch 
Ensemble "Leaves of grass" 
ispirato alla famosa raccolta di poesie "Foglie d'erba" di Walt Whitman. 
È pura musica poetica. 
A.A.: Se ne avessi la 
possibilità istituzionale, che interventi attueresti in favore della musica? E cosa 
cambieresti dell'attuale sistema? 
C.E.: La musica nelle scuole 
è spesso considerata un accessorio, nonostante la nascita di strutture come i licei 
musicali dove paradossalmente la musica, come tratto caratterizzante il corso, dovrebbe 
essere la materia più approfondita. La musica ha un grande potenziale creativo e 
di aggregazione, che andrebbe sfruttato al massimo anche e soprattutto a favore 
delle altre materie. Dico questo perché insegnando in una scuola privata, posso 
constatare giornalmente che il numero degli iscritti aumenta sempre più, e se questo 
accade è perché c'è una grande insoddisfazione per quello che la scuola pubblica 
offre. Credo anche che questo discorso vada fatto sia per la musica che per tutte 
le altre discipline artistiche, come la danza, la recitazione, la pittura, etc…Se 
potessi avere una carica istituzionale promuoverei l'arte in tutti i cicli scolastici, 
puntando sul fatto che favorire lo sviluppo della creatività porta l'allievo a rendere 
meglio nelle materie formative come la matematica, la storia, la geografia, la letteratura, 
la filosofia, le scienze. 
A.A.: Da cosa traggono 
ispirazione i tuoi progetti? 
C.E.: In realtà mi ispiro 
a tutto ciò che mi accade, a qualcosa che leggo, che vedo, che sento, che osservo, 
che vivo.
 Trovo 
che lasciarsi permeare da tutto ciò che viene sia fondamentale per creare tensione 
e movimento nel proprio discorso musicale, e penso che soprattutto nell'improvvisazione 
venga fuori tutto questo. 
A.A.: Collabori con numerosi 
musicisti e in diversi progetti. Hai un progetto a cui tieni particolarmente? 
C.E.: Naturalmente tengo 
tanto ai progetti che mi vedono anzitutto come leader, a tale proposito in 
questo momento ho deciso di allargare il duo, formazione del disco "Spontaneous 
Conversation" con il violoncellista
Paolo Damiani, 
grande musicista ed eccellente improvvisatore. Spero sia l'inizio di una bella collaborazione. 
A.A.: Che differenze 
riscontri, oggi, tra il jazz europeo e quello americano? 
C.E.: Il jazz europeo nasce 
in una culla che non è New Orleans, non ha una storia che nasce dai canti degli 
schiavi…Non so se esista una definizione ufficiale di jazz europeo. Tuttavia penso 
che il jazz europeo come mistura fra l'energia delle radici africane, la 
tradizione europea e la musica colta contemporanea, oggi corra il rischio di discostarsi 
troppo dalla tradizione americana, andando sempre più incontro ad una musica 
popolare, etnica e dando luogo ad un fenomeno musicale, particolarmente attivo 
in Italia, che seppure voglia dare legittimità alla nostra tradizione musicale, 
poco ha a che fare con il jazz. 
A.A.: Se dovessero offrirti 
una possibilità in ambito diverso dal jazz, l'accetteresti? 
C.E.: Penso di no, per 
me il Jazz è una scelta e una sfida continua. Ma se me lo permetti ti giro la domanda: 
che cosa è diverso dal jazz, oggi? Il jazz oggi può contare su una contaminazione 
ed una integrazione di linguaggi tale che se da un lato può rappresentare un grande 
bacino di idee alle quali attingere per rinnovarsi, dall'altro questa varietà può 
confondere tanto da scambiare una ballata elegante, magari sanremese, in 
un brano jazz, addirittura anche le canzoni rock sono state arrangiate in chiave
swing, basti pensare al progetto di Paul Anka, Rock Swings, 
ci sono anche vari esperimenti validi di musica classica riletta. Con questo 
voglio dire che tutto se vogliamo può essere letto in chiave jazz, ma così 
facendo si genera quella confusione, che porta molti a pensare che basti cantare 
ad es. "Mas Que Nada" o un qualsiasi brano swing o una bossanova 
per dire che si fa jazz. Ma la realtà è che il jazz è molto più che swing o bossanova, 
è molto di più... 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
  
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			Data pubblicazione: 15/07/2006
	  
 
 
 
	
  
	
		
		
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