Intervista con Roberto Bonati
ottobre 2015
di Nina Molica Franco
Roberto, musicista, compositore, docente
e direttore artistico del Parma Jazz Frontiere Festival. Diverse anime, un'unica
costante: la musica. Come riesci a portare avanti tutte queste attività?
Potrei dire che dormo poco, che mi piace molto il mio lavoro e che ci
sono tante cose che mi interessa provare a costruire. E molto spesso se il fare
è positivo crea altra energia. Ho anche avuto la fortuna di trovare tante brave/i
collaboratrici che mi aiutano nelle tante cose che bollono in pentola e c'è un lato
del mio carattere che è importante: per funzionare devo essere "a regime", con le
caldaie in pressione…
###stGooglePiccolo###Il tuo nome figura sicuramente tra
i compositori italiani più interessanti e colti. Parlaci del tuo ultimo progetto,
Nor Sea, nor Land, nor Salty Waves – An Homage to Norway, il lavoro composto su
commissione del Bjergsted Jazz Ensemble di Stavanger.
Lo scorso anno, dopo un workshop didattico che ho tenuto alla Università di Stavanger,
mi hanno commissionato un lavoro per il Bjergsted Jazz Ensemble, una prestigiosa
orchestra che lavora spesso con ospiti internazionali. Ovviamente la proposta mi
ha fatto molto piacere e ho subito cercato di capire cosa potevo fare. Mi affascina
sempre l'idea di mettermi in relazione con un altro mondo, un'altra cultura e quindi
di lavorare intorno alle "storie" del posto destinatario del progetto. Parlando
con Tor Yttredal sono venuto in contatto con l'Edda Poetica - testi poetici
di mitologia scandinava che datano dall'800 al 1150 d.c.- e con l'Edda di Snorri
Sturluson che fu contemporaneo di Dante. Ho avuto suggerimento di alcune buone traduzioni
in inglese dal prof. Odd Einar Haugen ed ho scelto alcuni brevi frammenti
poetici dal Völuspá (La profezia della veggente) e dal Gylfaginning (L'inganno di
Gylfi). Sono testi che riguardano la creazione del mondo, un rapporto uomo-donna
risolto con abile compromesso, una guerra fratricida e un ritorno alla pace e alla
vita. Tutto ciò è stato ovviamente un punto di partenza, la musica non è descrittiva
ma l'idea di questo racconto vichingo partecipa alla creazione di una drammaturgia
musicale. Ho appena finito il lavoro che mi ha impegnato per tre mesi. E' stato
uno scrivere intenso. Molto. E' stata una settimana molto bella, di grande impegno
perché la musica non è semplice ma il risultato finale è stato davvero sorprendente
e il pubblico, che ha ascoltato il concerto con una grande attenzione, è stato entusiasta
del lavoro. Tutti i musicisti del'Ensemble si sono impegnati con una grande concentrazione.
Sono davvero felice e soddisfatto, spero che riusciremo presto sia a replicare il
concerto che a registrare un cd.
Il tuo sodalizio con la Norvegia va avanti da qualche anno.
Cosa ti affascina musicalmente di quella terra? E quali aspetti della tua musica
hanno catturato la Norvegia?
C'è una storia particolare. Il primo brano musicale che mi ricordo di aver ascoltato
nella mia vita è il Peer Gynt di Grieg. Forse sarà per quello che la mia relazione
con la Norvegia ha avuto un progressivo svilupparsi negli ultimi anni. E' un paese
molto interessante. Il livello di civiltà è alto, c'è un grande rispetto reciproco,
un'attenzione all'altrui lavoro. La musica e i musicisti sono tenuti in grande considerazione.
Quando lavoro con musicisti, anche con giovani studenti, sono sempre impressionato
dalla serietà e dalla dignità che portano nel loro fare. Si sente che hanno la convinzione
di stare facendo una cosa importante per la loro società, che hanno un ruolo all'interno
dell'ambiente in cui vivono, che la politica si occupa di loro, crea insieme a loro
dei percorsi di crescita. Si può dire che la Norvegia è un paese ricco ma non è
solo questione di soldi ma di capire che senza cultura le nostre vite sono impoverite
e, cosa veramente pericolosa, il tessuto sociale si disgrega. Nelle scuole di musica
in Norvegia c'è un senso di proiezione del lavoro nel futuro, nelle prossime generazioni.
Ho partecipato a riunioni sul tema: "Quale tipo di musicista vogliamo avere tra
dieci anni?". Nella Accademia di Oslo gli studenti hanno grosse responsabilità,
si occupano della gestione e della comunicazione dei loro concerti, partecipano
alla vita della scuola in modo molto attivo.
Parliamo del festival: come nasce l'idea di realizzare
il ParmaJazz Frontiere Festival?
Il festival è nato nel 1996. L'anno prima era
stato richiesto dall'Assessore Luigi Allegri di proporre una rassegna di quattro
concerti che si è intitolata "Piano & …" Con quattro pianisti in che si esibirono
duo. Poi, con l'aiuto e il contributo della Fondazione Monte di Parma allora diretta
da quel grande personaggio che era L'Avv. Walter Gaibazzi, l'anno dopo nasce il
festival. Che è stato, per i primi cinque anni organizzato e amministrato dal Teatro
Regio. Poi sono venute scelte di politica culturale diversa ed è così nata la associazione
ParmaFrontiere che gestisce il festival dal 2001
ad oggi. Questa è una breve cronistoria ma le motivazioni sono state artistiche
ed il festival è nato dal desiderio e dalla necessità di investigare quelle zone
artistiche "di frontiera", muovendosi con l'idea della produzione e dell'incontro
tra i linguaggi della contemporaneità. Quindi jazz ma non solo jazz, anche tutti
quei linguaggi che sono nati dal jazz o che come il jazz si muovono anche attraverso
l'improvvisazione, come molte delle musiche extra-europee.
Il Parma Jazz Frontiere è da molti anni ormai tra i festival
più apprezzati. Quali sono secondo te le principali caratteristiche che contribuiscono
a renderlo tale?
Credo che sia un festival con una identità precisa e già questo lo distingue dalla
omologazione imperante. Ha una vocazione ad essere un festival di produzione.
E' un festival che si assume dei rischi e lo fa responsabilmente e questo credo
che sia molto importante in una situazione generale che nega assolutamente quell'elemento
di rischio che è lo specifico di ogni creazione artistica. Inoltre è un festival
che sceglie le "differenze", non le mode. C'è una necessità di mettere al centro
l'ascolto, un rispetto per i suoni, un rispetto che si è molto perduto e che va
assolutamente difeso.
Quali sono i principali elementi che valuti nell'effettuare
le scelte artistiche?
Mi piacciono le cose che sento sincere e che si caratterizzano nelle loro diversità.
Credo che come artisti dobbiamo esaltare le differenze non cercare le somiglianze.
Si impone oggi con urgenza una riflessione sul ruolo della musica, dell'arte, sul
ruolo che abbiamo come musicisti, sui significati. C'è poca attenzione alle cose,
poca pazienza, troppa fretta. Troppa attenzione ad una carriera che deve essere
"subito" e questa spinta si traduce in poca profondità, e scarsa originalità. E'
raro cogliere una vera necessità interiore di quello che si fa. Tutto corre e troppo
velocemente, troppo freneticamente e c'è una grande ansia di successo. D'altronde
questa condizione è un esatto riflesso di quello che ci succede intorno.
Come descriveresti il pubblico medio del tuo festival?
Sai che non saprei descriverlo? ci sono degli "affezionati" ma anche persone di
provenienza molto diversa per età, tipologia culturale, provenienza…Posso dire però
che è un pubblico in generale molto attento e anche coinvolto nelle cose che proponiamo.
A volte il festival è stato definito "difficile" e "di nicchia", ma credo che un
simile pensiero sia solo offensivo nei confronti della sensibilità e della intelligenza
del pubblico presente e potenziale. Nelle ultime edizioni tra l'altro abbiamo registrato
un continuo aumento di presenze di pubblico che nel 2014
è quasi raddoppiato.
Quali tendenze e gusti che lo caratterizzano? Credi che
questi siano cambiati nel tempo?
Il pubblico quando ascolta una qualità la riconosce. Se nella musica c'è una storia
da raccontare ed un desiderio di comunicazione, il pubblico, di qualunque provenienza
e per quanto la proposta possa essere complessa, lo coglie. Il problema sono, ancora
una volta, le etichette. La etichetta del jazz prevede tutta una iconografia e una
obbedienza a certi canoni estetici stabiliti ed accettati. Per questo mi piace parlare
di musica e non di "jazz". Mingus diceva di non suonare jazz ma "musica folk afroamericana".
Le etichette servono a vendere i prodotti ed è indubbio e naturale che ogni musicista
voglia vendere dei dischi ma le cose devono nascere da necessità interiore e non
dai dettami del mercato. Possono incontrare i desideri del mercato a volte ma il
punto di partenza deve essere altrove. Credo che gran parte delle persone siano
molto confuse da una parte a causa della scarsa informazione personale che produce
una impossibilità a scegliere e dall'altra da un eccesso di proposte che appaiono
tutte ugualmente allettanti e dello stesso livello qualitativo. Anzi di solito,
quanto più grossolane sono tanto più trovano un appoggio nei mezzi di comunicazione.
Cosa pensi dell'attuale panorama jazzistico italiano?
C'è un livello di preparazione sempre più alto e la qualità dei musicisti è generalmente
molto buona. Ma siamo spesso più apprezzati all'estero che in Italia dove c'è ancora
molta strada da fare. Per una riflessione più generale che non riguarda solo il
panorama italiano, credo ci sia molta omologazione, tanta accademia, accademia della
tradizione e accademia dell'avanguardia, non sufficiente lavoro sull'immaginazione,
sulla concezione, sulla organizzazione dei suoni. Per me è importante un lavoro
sulla composizione. Il jazz rischia di diventare un sistema di scale e accordi e
una specie di gioco di abilità, chi suona più note nel percorso più difficile. Cosa
chiediamo alla musica? Questa è la domanda. L'esecutore diventa più importante della
musica e non dovrebbe essere così... si esce dai concerti impressionati dal virtuosismo
… chapeau alla maestria! certamente, ma sarebbe bello uscire più spesso dai concerti
col cuore gonfio di emozioni, un po' cambiati dentro dall'esperienza. Siamo lì per
fare quello, raccontare storie, cercare di comunicare piccole grandi visioni. Una
volta Gaslini mi ha detto: "Il futuro è nella penna, nella scrittura" e sono
convinto che avesse ragione e potrei personalmente aggiungere "nell'avere una visione"
e questo vale anche se si lavora nell'improvvisazione, improvvisare come scrivere
e viceversa.
E quello straniero?
Non sono informato su tutto. Negli ultimi anni frequento i paesi scandinavi e trovo
che ci siano alcune proposte che personalmente ritengo stimolanti ma il discorso
sull'omologazione ha, in un certo senso, delle caratteristiche internazionali.
Quanto spazio viene dato, solitamente, ai musicisti italiani
all'interno del programma del ParmaJazz Frontiere festival?
Direi un ampio spazio, soprattutto per i giovani musicisti.
Credi sia importante affiancare al cartellone del festival
un programma di natura divulgativa (workshop, seminari, guide all'ascolto)? Perché?
Sì, credo che tutto ciò faccia parte del lavoro da fare. Un Festival è vivo nella
misura in cui produce, lascia segni, costruisce nella città, commissiona progetti,
coinvolge i giovani. Anche sarebbe importante poter sviluppare strategie divulgative
e comunicative come tu dici guide all'ascolto, che qualche volta abbiamo fatto,
ma servono forze organizzative e economiche superiori a quelle di cui oggi ParmaFrontiere
può disporre. E dico questo anche perché credo si sia e si stia affermando una convinzione
che le cose della cultura non vanno pagate e da qui è nato un volontariato selvaggio
che vede protagonisti molte volte non preparati. E' chiaro che molte cose sono nate
grazie a uno sforzo che non è stato motivato dal guadagno economico ma trovo delirante
e poco dignitoso che ci siano assessorati che pubblicano bandi nei quali cercano
musicisti che si esibiscano gratuitamente. Alle volte questo può succedere ma se
ne sta facendo una regola.
Si sono formate nel tempo particolari sinergie con altre
associazioni, enti territoriali e/o pubblici?
Come sai, abbiamo rapporti con il Comune, la Regione, molte collaborazioni sono
state messe in campo nel tempo, con il Teatro Due, il Teatro al Parco, Lenz, Teatro
Regio con il Conservatorio Boito. Collaborazioni che credo importanti e che andrebbero
curate maggiormente.
Gli enti privati mostrano interesse verso il mondo del
jazz?
Non si può generalizzare, noi abbiamo avuto e ancora abbiamo alcuni partner privati
che sono persone di grande spessore culturale, altre volte succede che i "privati"
prediligano strategie "spendibili" dal punto di vista del ritorno di immagine immediato.
È importante secondo te creare partnership di tipo culturale
anche con altre forme d'arte? Perché? Pensi di realizzarne?
Da sempre nel festival abbiamo cercato, favorito e varato progetti attraverso i
diversi linguaggi dell'arte, la danza, la pittura, la fotografia, i video e il teatro.
E così vogliamo continuare…
Che importanza dai alla comunicazione e alla pubblicità
nella promozione degli eventi del festival?
La Comunicazione è importantissima. Ed è anche un punto sul quale abbiamo un margine
di miglioramento che dobbiamo colmare. Ma anche in questo caso dovremmo poter investire
delle risorse in questo settore. Con ciò di cui dispone mi sembra che ParmaFrontiere
faccia miracoli in tal senso.
Qual è secondo te l'apporto che lo Stato dovrebbe, e potrebbe,
dare per migliorare la situazione di festival e rassegne jazz italiane?
In generale lo Stato dovrebbe, al di là del jazz, investire sulla cultura, sull'educazione,
sulla promozione degli artisti italiani all'estero, sui linguaggi della contemporaneità…guardare
alla qualità e alla storia dei festival da finanziare ma questo succede raramente…
sono anche un po' stanco di dire le stesse cose da vent'anni mentre la situazione
della politica culturale non fa che peggiorare.
Cosa pensi della tendenza a creare associazioni per sostenere
e tutelare il jazz?
E'esistita una AMJ, una associazione musicisti jazz negli anni Ottanta-Novanta,
che è partita con entusiasmo e per la quale ho molto lavorato. Poi la situazione
si è un po' arenata. Mi sembra una ottima cosa che esista oggi una nuova associazione
e spero che l'idea associazionistica sia entrata più a fondo nel cuore dei musicisti
jazz italiani.
Quali punti andrebbero discussi secondo tali istituzioni?
La normativa fiscale, alcune problematiche relative alla Siae, un censimento dei
festival con relativi bilanci pubblicati, riuscire a garantire una presenza di musicisti
italiani nei programmi, una riflessione sui corsi di jazz nei conservatori italiani…
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Data pubblicazione: 01/11/2015
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